Appunti sul Tour de France

Il Tour è terminato qualche giorno fa, andiamo in pace. Più o meno. Il Tour è terminato pochi giorni fa e proietta in maniera definitiva Pogačar nella storia di questo sport. Stando larghi, andando a naso, a sensazione, senza che tutto ciò sia suffragato da numeri - e i numeri in ogni caso suffragherebbero, eccome se suffragherebbero - la stagione 2024, che sta trascorrendo veloce come veloce affrontano le salite i corridori, lo inserisce (almeno) tra i dieci più grandi che questo sport abbia mai visto. La doppietta Giro-Tour dopo 26 anni è simbolo di ciò che è lo sloveno e di ciò che resterà delle sue gesta in questo sport negli anni a venire.

NON SOLO POGI

Il Tour appena trascorso, però, non è soltanto lo sloveno. C’è la resistenza - la volta che userò il termine resilienza abbattetemi - del suo più forte rivale, Jonas Vingegaard, che rientra alle corse proprio al Tour dopo aver rischiato perlomeno la carriera un paio di mesi prima ai Paesi Baschi. Il danese, tanto grintoso in sella quanto sfuggente e introverso nel dopo corsa - e adoro questo suo volto contraddittorio - è stato l’unico, a sprazzi, a provare a tenere la ruota di Pogačar, tanto da farci pensare, a un certo punto, come il Tour 2024 potesse avere una sfida da raccontare in chiave maglia gialla. Ma troppa, esagerata, la superiorità dello sloveno in versione 2024. Un Pogačar che ha raggiunto la maturità agonistica, fisiologico vista l'età, e pare che sul suo periodo di forma stia avendo un certo peso il cambio di allenatore e di allenamenti.

Il podio lo chiude Remco Evenepoel, sorpresa, ma fino a un certo punto. Fino a un certo punto perché in quanto a talento il corridore belga appartiene a quel gruppo lì, dei Pogačar e pochissimi altri. C’era qualche dubbio sulla tenuta, in alta montagna, soprattutto in tappe con salite ripetute, ma si è gestito benissimo e a questo punto, con una vittoria alla Vuelta nel 2022, un dodicesimo posto lo scorso anno sempre in Spagna (uscì di classifica a causa di una giornata di crisi dalla quale comunque si riprese benissimo, una giornata no) dove arrivarono, però, tre vittorie di tappa e la maglia a pois, un ritiro al Giro nel 2023, quando era in piena lotta per vincerlo e un podio al Tour, si può dire come sia attualmente uno dei più forti interpreti anche delle corse di tre settimane. Margini? Da scoprire, da capire quali e se ci saranno. Argomento interessante per il 2025 dove, molto probabilmente, lo rivedremo in corsa in Francia, stavolta, però, con la pressione di dover per forza salire sul podio se non addirittura trasformare il duello in una lotta a tre. Poi se magari, per mettere pepe, gli organizzatori aggiungessero cinquanta, sessanta chilometri a cronometro ci si potrebbe divertire ancora di più.

E ci sono tante altre cose da dire, partendo dal regolarista Almeida (quarto) che non sbaglia una corsa a tappe che sia una, con un ritiro al Giro per un malanno quando era lì a giocarsi il successo e poi tanti risultati di rilievo, uniti ad una certa costanza di rendimento ne fanno uno dei corridori più forti al mondo nelle corse di tre settimane, Tutto questo oltre a una grande capacità di svolgere, a livelli importanti, il ruolo di uomo-squadra.

 


C’è poi il ritrovato Landa che a quasi 35 anni firma un notevole quinto posto in classifica, migliorando anche lui ogni prestazione in ogni singola tappa di montagna rispetto a quello che era il suo meglio almeno a livello di età. Ci sono le difficoltà della Ineos, vittima di malanni in serie e che non va al di là del settimo posto di Carlos Rodriguez: per lui un passo indietro rispetto al 2023 ma con l’attenuante di aver corso mezzo malato, per l’appunto, dopo aver corso mezzo incidentato lo scorso anno: ancora da capire quale sia il suo vero volto e in questo caso da scoprire quali sono i margini. Per motivi legati anche alla giovane età non ho ancora capito molto del corridore spagnolo se non che è uno che va forte un po’ ovunque e quando sta bene non ha paura di attaccare.

C’è Adam Yates (sesto posto) che, senza strafare, chiude ancora in alto in classifica, anche se non tanto quanto il 2023, ma lavorando con profitto per il suo capitano; c’è Matteo Jorgenson, completo come pochi altri in gruppo, dotato di fondo e recupero, capace anche lui di svolgere al meglio il lavoro di gregario, ma anche di ritagliarsi spazio personale. Chiude ottavo al Tour dopo aver vinto una classica delle pietre questa primavera: ecco, in questo è stato persino superiore a Tadej Pogačar che quest’anno la campagna fiamminga l’aveva saltata a piè pari. C’è Derek Gee che toglie spettacolarità al suo modo di correre, ma si testa per la classifica: nono al Tour è un risultato enorme e chissà che nel 2025 non gli venga in mente di provare a venire al Giro e magari cercare pure di vincerlo o di salire sul podio.

Un accenno alle tre settimane strepitose di Carapaz. Veste la maglia gialla, vince quella a pois, conquista una tappa e ne sfiora altre due. Corridore spettacolare, esaltante, quando scatta fa male (quasi) a tutti. Si deve inchinare in un paio di circostanze soltanto alla rimonta di quel diavolo vestito in giallo che porta il nome di Tadej Pogačar. Due righe anche sul Tour di Bini Girmay che porta a casa la maglia verde, fa pari e patta come numero di vittorie di tappa con Jasper Philipsen e questa è stata una grande sorpresa: alzi la mano chi si sarebbe mai immaginato di vederlo così competitivo in volate di gruppo. Certo, voglio fare il rompiscatole: il livello di queste volate, una volta tanto, non era così alto, anzi, rispetto a quello che il 2024 sa offrire. Mancavano due dei tre più forti al mondo, Milan e Merlier, oltre a Groves e Kooij, tutti questi ce li siamo goduti al Giro. E in più è come se a Philipsen fosse mancato qualcosa in termini di brillantezza. A lui e al suo treno.

 


Altri spunti: le vittorie di tappa di Bardet, Vauquelin e Turgis, tre corridori francesi appartenenti a tre mo(n)di differenti. Il primo, all’ultimo Tour, che questa corsa pareva potesse vincerla un giorno e a volte c’è davvero andato vicino, ma l’avversario si chiamava Froome. All'ultimo Tour vince una tappa dopo sette anni dall'ultima volta e veste per la prima volta la maglia gialla. Il secondo avanza senza essere mai stato uno di quei talenti da strapparsi i capelli (e in Francia ne hanno, di talenti non solo di capelli) ma ogni stagione ha messo un piccolo mattoncino finendo per costruire un palazzo che si fa guardare, piazzando all’entrata la vittoria di tappa di Bologna dopo essere stato in fuga tutto il giorno. Va forte a cronometro, è veloce, apprezza le brevi corse a tappe: non sarà colui che sfaterà il tabù Tour per i francesi, ma è corridore da seguire. Nazione sempre più prolifica, grazie alla programmazione e al sistema che permette a un numero altissimo di corridori di esprimersi restando competitivi anche una volta passati professionisti - a differenza di quello che succede da noi in italia. La terza vittoria di tappa francese porta la firma di Anthony Turgis che invece appartiene agli incompiuti, di quelli che le grandi vittorie le hanno soltanto sfiorate. Vive una giornata di gloria incredibile nella tappa degli sterrati salvando il Tour, e in parte la stagione, di una (mezza) disastrosa, sin qui, TotalEnergies. Ci sarebbe da parlare di quanto è forte Jonas Abrahamsen che ha trasformato completamente il suo fisico per diventare un corridore vero alla soglia dei 30 anni e un giorno potrà giocarsi pure qualche classica del Nord. Al Tour non vince, ma veste la maglia a pois per diversi giorni, è il corridore con più chilometri in fuga, avrebbe meritato il premio di supercombattivo, ma gli viene preferito Carapaz. E a proposito di trasformazioni: Campenaerts, che da un po’ di anni si occupa meno delle crono e più delle fughe, trova il successo più importante della carriera dopo averne sfiorati anche lui diversi. Tre parole sui due van: Aert e der Poel. Entrambi a secco anche se il primo più volenteroso del secondo, oltre ad esserci arrivato molto più vicino. Per i due l’obiettivo sarà fra pochissimi giorni e si chiama Parigi 2024.


AZZURRO TENEBRA

 

Infine e in breve: quanto è messo male il ciclismo italiano che, tolti i due campioni di cui possiamo vantarci (Ganna e Milan), ormai è ben poca cosa? Ciccone fa classifica chiudendo undicesimo alle spalle di Buitrago: il duello con il colombiano, anche in un post tappa, è uno dei pochissimi momenti in cui l’Italia si fa vedere, anche se nella seconda settimana, quando arriva al quinto posto in due tappe di montagna, mi aveva illuso potesse lottare per qualcosa di meglio in classifica, ma al Tour il livello è troppo alto per pensare di entrare nei primi sei, sette, otto. L’anno prossimo lo aspettiamo al Giro e magari nelle classiche delle Ardenne.

Può bastare il suo undicesimo posto senza guizzi a salvare la spedizione? Assolutamente no, ma se Ciccone, pur bravo sia chiaro, non esalta, gli altri che fanno? Sobrero, dopo il ritiro dei due uomini di classifica della Red Bull, fatica a riciclarsi in un altro ruolo e si vede a malapena in un paio di fughe dove aiuta i compagni di squadra (da gregario per la classifica a gregario per i compagni in fuga, siamo questi); Moscon è l’emblema di ciò che sempre più spesso diventano i ciclisti italiani: ottimi compagni di squadra, valorosi aiutanti, dopo aver vestito i panni delle speranze, dopo averci illuso.

Bettiol, non pervenuto, ritirato per stanchezza; Ballerini e Mozzato hanno fatto l’uno guardia del corpo a Cavendish e con buoni risultati (tappa vinta dal corridore britannico), l’altro apripista di un velocista che da un anno a questa parte è diventato un ex. Gazzoli è stato il primo a ritirarsi al Tour, Formolo si è visto un paio di volte tirare il gruppo per qualche centinaia di metri. A memoria non ricordo un Tour così insipido corso dagli italiani e succede proprio nell’anno in cui la corsa parte dall’Italia. Ma, come detto, siamo questi: senza squadre di livello nella massima categoria, con talenti che passano professionisti dopo aver fatto buone cose nelle categorie giovanili e in un modo difficile da spiegare e comprendere o scompaiono dai radar o diventano gregari. Senza ottenere risultati di vertice nelle corse che contano e stanno scomparendo pure i risultati che contano nelle gare di secondo piano, fateci caso. Stiamo entrando in quello che forse è uno dei peggiori momenti della storia del ciclismo italiano. Problemi? Tanti, diffusi in maniera capillare in tutto il sistema. Soluzioni? Nessuno le conosce o ne parla, anzi, spesso alcuni buoni risultati vengono usati per nascondere ciò che non va. Vedremo il futuro cosa riserverà a questo sempre più evidente azzurro tenebra che ultimamente sta bene con tutto.

Foto: Sprint Cycling Agency


Italy Divide: da Pompei a Torbole

Articolo e foto di Benedetto Conte

1270 chilometri e 22000 metri di dislivello da Pompei a Torbole. Dati alla mano non sembrava una cosa grossa o, almeno, non così tanto: dividendo i chilometri e il dislivello per il numero di giorni a disposizione si trattava di mettere in fila 210 chilometri e circa 3500 metri di dislivello al giorno, per diversi giorni. Che potesse essere una cosa grossa sembrava emergere solo dalle esclamazioni dei non addetti ai lavori ma alla fine dei conti, cosa potevano saperne? Bisognava solo pedalare, senza nient’altro a cui dover pensare.

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Il meteo non sembrava favorevole fino al giorno della partenza, con neve e temperature polari fino a -10 °C ad attenderci una volta entrati in Abruzzo, dove gli organizzatori avevano decretato uno stop obbligato dalle 22 alle 5 per evitare problemi sui 40 chilometri di nulla sul sentiero in quota che separa Rivisondoli dal lago di Scanno. Un problema che avrei ormai affrontato l’indomani, considerando che alle 21 mi trovavo incollato su una discesa fangosa, scastrando con le mani il fango che continuava ad ammassarsi tra la ruota e il telaio mentre i pronosticati 30 minuti per raggiungere Castel di Sangro si dilatavano sempre e sempre più.
La prima alba, e le prime 3 ore di sonno, partono con un anomalo fastidio al ginocchio destro, che decide di rivendicare la propria esistenza dopo 35 anni, esattamente in quel preciso momento, dopo una vita passata in sordina. Decido di ignorarlo concentrandomi invece sul vento tagliente dell’altopiano abruzzese, nell’attesa di trovare l’anticipata neve in quota. La salita è costante, scenografica e maestosa ad ogni curva fino a quando il paesaggio innevato appare, catapultandomi in un luogo che potrebbe essere tanto remoto quanto quasi impossibile da trovarsi qui. Una discesa scassata sembra farmi planare alle porte di Roma, ben oltre le più rosee aspettative, ferme un centinaio di chilometri più indietro.

La seconda alba, e le seconde 3 ore di sonno, partono sui basoli della Via Appia Antica che dopo 20 chilometri sfociano su un Colosseo semi-deserto illuminato dalle prime luci del sole. 3 brioche al lato di Piazza San Pietro e via verso Viterbo, a testa bassa fino a che la via Francigena non diventa più verde, sempre più fitta, sempre più fangosa. Mi godo i diversi passaggi tecnici, mi diverto, fino a che non ne esco e posso mettermi alla ricerca di un supermercato da svaligiare. Sono da poco passate le 15 e l’Umbria e la Toscana sono poco più in là, cadenzate da Montefiascone, Bagnoregio, Orvieto. Alle 20 solo una discesa e 20 chilometri sullo sterrato compatto di un bosco nel crepuscolo avanzato mi separano da Proceno, da 2 pizze e un letto.

La terza alba, con le sue 4 ore di sonno, inizia tra le colline toscane e la curiosità della salita verso Radicofani di cui tutti parlano. Iniziarla a stomaco quasi vuoto è un’idea che appare sbagliata solo a danni fatti e lo capisce subito anche la signora all’ingresso del paese che, senza proferire parola, mi conduce in silenzio assente a svaligiare il bancone del suo bar vincendo e assicurandosi il premio “Appostamento dell’anno”. La giornata è eccezionale e con i muscoli caldi andare su e giù per la Toscana è puro piacere. Sono tra i primi 20 e la bellezza è tale da farmi attraversare tutto d’un fiato San Quirico d’Orcia, Bonconvento e Siena senza che mi accorga di aver scalato anche diverse posizioni. Prima di attraversare le colline del Chianti, con il sole a picco, faccio una pausa e riparto; le salite ora sono dure e scassate e mi riprometto che oltre il 15% di pendenza, considerando ancora i giorni mancanti, non vale la pena pedalare, anche solo per cambiare postura e rilassare quanto più possibile i muscoli coinvolti. Alle 19 sono pronto per la discesa al tramonto verso Radda in Chianti ma, al primo colpo di pedale, qualcosa non va: il deragliatore penzola affianco alla ruota, completamente staccato dal telaio. Mantengo la calma, so di avere la soluzione ma non so ancora di avere una vite spanata e nulla con me per poter rimediare. Provo e riprovo mentre il sole si abbassa sempre di più, mi abbatto e inizio a pensare al treno che mi riporterà a casa, è domenica e l’unica cosa che posso fare è raggiungere il paese e poi…chissà! Mentre sono lì a tentare il tutto per tutto, un’auto mi si ferma accanto e chiama il meccanico del paese che, accertatosi che avessi il ricambio necessario, si rende disponibile ad aprire la sua bottega. Quanto più rapidamente possibile e incredulo, rimetto tutti i pezzi apposto, smaglio la catena e la infilo nella tasca posteriore, lego il deragliatore al telaio con nastro e fascette e giù sparato per la discesa, tra gli in bocca al lupo di tutta la famiglia stipata nell’auto che mi ha soccorso e che mi sta facendo sentire un campione. Il signor Ramuzzi è costretto ad imprecare un paio di volte, ed io con lui, per riuscire a tirar via quel maledetto forcellino ma poi, mentre io tengo gli occhi stretti e chiusi, girato di spalle, come all’ultimo rigore di una finale mondiale, con un ultimo e decisivo colpo riesce nell’impresa e alle 20.30 mi rimette in corsa, direzione Firenze, un po’ più tardi del solito ma solo 25 chilometri prima delle più ottimistiche delle aspettative.

La quarta alba, con le sue 3 ore di sonno, ha con sé tutti gli acciacchi del caso e il pensiero fisso e costante che oggi bisognerà valicare gli Appennini verso Bologna su salite proibitive e strade scassate chissà quanto. Il primo indizio sull’andazzo della giornata dovrebbe darlo l’attacco della salita al 25% dopo Prato ma bado bene a non farci caso. Al termine della prima salita e della prima discesa tra single track e freni tirati, l’orario e l’umore sono ancora più che fiduciosi. Al termine della seconda salita tutto sembra ancora possibile e nella mia mente si fa largo l’idea di una gloriosa discesa verso Bologna ma non sarà assolutamente così; tra terreni sconnessi, single track e frane da superare, Bologna sembra sempre più lontana e il Santuario di San Luca si rivela, nella sua veste migliore, dopo soli 130 chilometri in ben 13 ore, alle luci del tramonto, quasi come a farlo apposta per vomitarmi addosso quell’emozione tutta adolescenziale di farmi sentire di nuovo come quel “Girardengo appena appena più basso e rock”. Voto 10 per il tempismo: alla fine, che fretta c’era di arrivare se doveva essere nel momento sbagliato?

La quinta alba suona quasi come l’ultima ma non bisogna abbassare la guardia, un rischio grosso nel momento in cui ci si inizia a sentire quasi arrivati. I 100 chilometri di dritta ed infinita pianura che portano a Verona mettono a dura prova la concentrazione ed è meglio rallentare per non buttare alle ortiche quanto fatto finora. Verona arriva dopo ben 5 ore e alle 11 del mattino, sotto un sole che batte, non rimane che l’ultima salita per la Lessinia e l’ultima discesa a picco verso il lago di Garda tenuto nascosto dal Monte Baldo. Mi godo ogni pedalata in salita, tutto il vento in faccia in discesa e tutti gli ultimi 40 chilometri sulla ciclabile finale, messi lì sicuramente non solo per decantare l’adrenalina, la tensione e la stanchezza accumulata fin lì ma per cementare la valanga di ricordi prima del traguardo finale in 5 giorni e 10h. Ora sì che sembra una cosa davvero grossa.


Bikeboobs: una strada rosa in costruzione

«Ero una ragazza con le idee abbastanza confuse, tanto riguardo a quel che volevo, quanto riguardo al mio essere, alle mie potenzialità. Ho intrapreso studi creativi e un lavoro che ha a che vedere con la creatività, ma sentivo che qualcosa mancava per definire il quadro. Quel pezzo mancante, alla fine, era la bicicletta: mi ha permesso di scoprirmi davvero, di dirmi, quasi sorpresa, "ecco, io sono così, io sono questa persona qui". Ha ampliato la visione di me stessa e solo quando hai ben presente chi sei tu riesci a vedere davvero gli altri nella giusta prospettiva. Ora le pedalate sono i miei "spazi vuoti", quelli in cui mi libero di tutto ciò che frulla in una mente iperattiva e metto tutto in ordine, per ricominciare, per riprendere. Seduta ad una scrivania, questo processo mi è impossibile. Che lusso è stata per me quella bicicletta: scoprirmi, definirmi e rifiatare».

Il lieve accento toscano con cui vengono scandite queste parole è quello di Agnese Gentilini, fondatrice di Bikeboobs. Si tratta di una associazione tutta al femminile, nata con l'idea di avvicinare le donne all'attività ciclistica, sportiva, performativa, oppure amatoriale, legata solo al piacere di pedalare, che, in realtà, nel tempo, ha iniziato a occuparsi a tutto campo del tema benessere, salute e di tutte le tematiche che hanno a che vedere con il femminile: alimentazione, prevenzione, violenza di genere e diritti. Bicicletta e attivismo, insomma. «Purtroppo- sottolinea Agnese- c'è un pregiudizio sulla figura della donna, come se non potessimo fare certe cose, riservate agli uomini, o, perlomeno, non potessimo farle da sole, in autonomia. Noi invitiamo le donne a tenere gli occhi aperti, a non farsi definire, a non farsi escludere, a non lasciare che siano gli uomini a dibattere e decidere su questioni che le riguardano».

Il progetto inizia nel 2019 da un incontro fra tre amiche, oltre ad Agnese, Giulia Vinciguerra e Sara Paoli, ma ha radici profonde, probabilmente già nel 2014, nel giorno in cui le venne l'idea di percorrere il Cammino di Santiago non a piedi, ma in bici, assieme al marito che già si cimentava nell'enduro: di fatto un modo per stare in compagnia, per andare via assieme. I primi allenamenti sono finalizzati a questo, un filo che si riallaccia con la bicicletta che aveva da ragazzina, con il cestino in cui metteva gli oggetti della quotidianità che portava nei suoi giri in città. Anni in cui tutto avrebbe pensato tranne che questo. Una cosa, però, aveva già iniziato a notarla: «Spesso, in bicicletta, ci si trovava tra tanti uomini e l'atteggiamento era, talvolta, di derisione, di giudizio, con occhi strabuzzati. Della serie: "Tanto non siete capaci". Credo sia una cosa che abbiamo provato tutte o quasi. Al Tuscany Trail del 2021, probabilmente, la volta che ha acceso in me, Giulia e Sara il desiderio di raccontare questa esperienza e condividerla, affinché chiunque la viva sappia di non essere sola». Racconta Agnese che aumentare il numero di donne che pedalano è la via principale per sconfiggere il pregiudizio: se si è poche si può essere un'eccezione, se si è tante, tantissime, si è la regola, questo è l'assunto.

Anche perché per proseguire un'attività di qualunque tipo dopo certi giudizi è necessaria perseveranza che non tutti hanno e che, soprattutto, non è un dovere avere: «Talvolta, dopo questi sorrisi, dopo queste battute, si smette, si cambia strada, specialità. Sia chiaro: è possibile cambiare, certe volte è necessario, ma dobbiamo essere noi a volerlo, per scelta, non per delusione o perché qualcuno ha provato a non farci sentire capaci. Se si condivide, si scopre che la sensazione non è solo tua e soprattutto che si può rallentare, ci si può fermare, portare la bici a mano per qualche tratto, avere dubbi, incertezze. senza timori». Bikeboobs origina quindi Bikeboobs Trail, quest'anno alla seconda edizione. L'intento è quello di dare forma ad una sorta di "strada rosa" fra Toscana e Lazio, una sorta di testimonianza e di monito che si andrà a costruire in cinque edizioni programmate.

Nel 2024, il 5-6 settembre, si parte da Pontedera e si va verso Piombino, verso Livorno: due percorsi, un lungo e un corto, 304 chilometri circa e 248 chilometri circa, con dislivello attorno rispettivamente a 2000 ed a 3500 metri. I due tracciati si incontrano spesso, in modo che sia possibile, per chi lo desidera, unirli, in una sorta di nuova variante: «Nella mente ho una serie di "fotografie" bellissime che fanno venire voglia di partire: la strada sterrata della Via Alta dei Cavalleggeri, con la vista della costa proprio lì sotto, l'entroterra toscano, dai fiumi, ai laghi, al mare, fino a Casale Marittimo e all'ingresso a Pisa che è da togliere il fiato, in quanto vi si arriva da una stradina stretta che, da un momento all'altro, spalanca la vista sulla città e sulla Torre. Tra il giallo, il verde ed il blu, il profumo del mare e della macchia». Agnese Gentilini si augura il sole, la stessa atmosfera del 2023, la voglia di far gruppo e stare assieme. Sì, la bicicletta è proprio un lusso, un lusso attraverso cui andare oltre: parole inutili, giudizi e pregiudizi.

Le iscrizioni sono aperte sino al 31 luglio. Si accede dal seguente link:

https://www.eventbrite.it/e/biglietti-bikeboobs-trail-2024-la-via-dellacqua-753062980647


Benvenuta Cima Alfonsina Strada

Lungo la strada asfaltata che porta al Rifugio Pomilio, nonostante la luce accecante di un sole di metà luglio che non sembra avere pietà per gli esseri umani, è impossibile non notare un segnale stradale diverso dal solito. Doveva essere un semplice stop, invece lo street artist toscano Dela Vega, il cui vero nome è Matteo Filippeschi, ha aggiunto un rosa “don’t” e sotto ha disegnato una ragazza in bicicletta. Non è casuale nemmeno lei, soprattutto non quest’anno, non qui in cima al Blockhaus. Lo dicono lo sguardo sfidante, i capelli corti neri e la scritta sulla maglia che quella non è una ciclista qualsiasi, ma Alfonsina Strada.

Cento anni fa, con grande riluttanza del mondo ciclistico e dopo aver corso già due Giri di Lombardia, Alfonsa Rosa Maria Morini, da coniugata Strada, si iscrisse al Giro d’Italia. Qualcuno sostiene che Emilio Colombo e Armando Cougnet, direttore uno e amministratore l’altro della Gazzetta dello Sport, avessero ceduto solo perché i grandi nomi, come Girardengo e Bottecchia, avevano deciso di non prendere parte alla corsa rosa se non fossero state garantite loro ricompense in denaro. La risposta dall’alto fu un secco no e così Alfonsina divenne per qualcuno un elemento promozionale, per altri la ragione per cui il Giro d’Italia si prospettava una pagliacciata. Non le importava molto, né del fatto che il suo nome, a pochi giorni dalla partenza, non compariva nella lista dei partecipanti, né che la Gazzetta dello Sport si perse una “a” riportandola come “Alfonsin Strada di Milano” e che il Resto del Carlino le andò dietro rinominandola “Alfonsino Strada”. Partì come tutti gli altri, con il numero 72 cucito sulla divisa nera, pronta a percorrere 3.613 chilometri. È stata dedicata a lei la cima della settima tappa del Giro d’Italia Women, quella regina, quella di un Blockhaus su cui il peloton femminile non era ancora mai salito: se gli uomini hanno da moltissimo tempo una Cima Coppi, da quest’anno le donne hanno una Cima Alfonsina Strada.

A Lanciano, in partenza, le ragazze sono state accolte da un caldo afoso che ha tenuto loro compagnia dall’inizio della gara, ma anche dall’affetto della gente del posto: l’atmosfera assomigliava a quella fatta di fiori e striscioni che attendeva sempre Alfonsina alla fine di ogni tappa. Il percorso, a guardare l’altimetria, si capiva che, fin dall’inizio, di tempo per rifiatare non ne avrebbe dato molto: le strade in pendenza verso Guardiagrele, Bocca di Valle, Pretoro e La Forchetta erano solo l’antipasto di una doppia ascesa a Passo Lanciano e poi l’arrivo in cima al Blockhaus. Duro è l’unico aggettivo che è venuto in mente a Mavi García per definire ciò che le aspettava: non credeva ci sarebbe stato spazio per pensare a strategie, sarebbe stata una lotta di resistenza, le gambe avrebbero deciso chi avrebbe avuto la meglio. Sarebbe potuta essere una tappa per lei, per scalatrici pure come lo sono anche Juliette Labous e Niamh Fisher-Black, ma la verità è che tutti gli occhi erano puntati su due cicliste in particolare: la maglia iridata della SD Worx, Lotte Kopecky, e la maglia rosa della Lidl-Trek, Elisa Longo Borghini, avevano solo 3 secondi di distacco nella classifica generale. La domanda che si rincorreva fin dal mattino era se la tappa regina sarebbe stata anche quella della resa dei conti o se, invece, sarebbe stata rimandata al giorno successivo, che non si prospettava decisamente più gentile.

 

Nei primi chilometri, si sono alternati tentativi coraggiosi di attacchi e ritiri, come quello di Martina Alzini e delle sorelle Giada e Letizia Borghesi, le prime di una lunga lista. Solo Claire Steels, 37 anni e al suo primo Giro d’Italia Women, è riuscita a prendere abbastanza distanza dal gruppo per non esserne risucchiata di nuovo al suo interno. È stata, però, solo questione di tempo, perché all’attacco della prima salita verso Passo Lanciano, il peloton si è ricompattato con facilità. La pendenza all’8,6% ha fatto la sua scrematura, risparmiando la belga Justine Ghekiere, che si è aggiudicata il gran premio della montagna e, complice il ritiro di Clara Emond, anche la maglia azzurra da miglior scalatrice alla fine della giornata. Quando è arrivato l’attacco del Blockhaus, a valle c’erano 35 gradi ed è stata Gaia Realini, nata a non molti chilometri da lì e conoscitrice a menadito di quelle strade, a tirare il gruppo per la sua capitana e a mietere vittime, anche di un certo calibro, con il suo ritmo. Ha provato addirittura a fare la differenza ad un certo punto, accelerando ulteriormente, ma è stata Neve Bradbury a sorprendere il gruppo con un attacco deciso. La giovane australiana è riuscita a creare un gap interessante, mentre dietro la maglia rosa e quella iridata si studiavano. Almeno è stato così fino a sette chilometri dall’arrivo quando Elisa Longo Borghini ha provato a staccare la campionessa belga, che non aveva alcuna intenzione di mollare la sua ruota. Ha tentato una, due, anche tre volte, ma l’altra sembrava fosse un magnete. Arrivati all’ultimo chilometro, era chiaro che sarebbe stata la giovane ventiduenne della Canyon-SRAM a vincere la tappa regina di questo Giro d’Italia Women e che dietro ci si preparava ad una volata: Kopecky è partita a pochi metri dal traguardo, Longo Borghini ha cercato di eguagliare la sua esplosività ma la belga è riuscita a spuntarla, arrivando davanti. Seconda e terza, il distacco era diventato di un solo secondo. Il giorno dopo è una pagina del nostro ciclismo che aspettavamo di scrivere da 15 anni.

Il resto del peloton è arrivato frammentato con distacchi altissimi: qualcuna aveva mollato la presa e si è goduta la salita, qualcun’altra aveva il viso rigato dalle lacrime per via della fatica e del caldo. Si sono incrociate lungo la strada quelle che scendevano verso i pullman e quelle che, invece, erano ancora alle prese con gli ultimi chilometri. Chi non aveva ceduto alle lacrime in salita, si è lasciata andare in discesa: Gaia Realini è stata una di loro, ha chiesto scusa a Paolo Dalla Costa, direttore sportivo di Eletta Trentino cycling Academy, che era proprio all’attacco dell’ultimo chilometro lungo la strada, avrebbe voluto fare di più, magari anche vincere davanti alla gente di casa sua. Paolo le ha tenuto il viso tra le mani, le ha asciugato le lacrime, ma soprattutto l'ha fatta ragionare, l’ha riportata a sé, a quello che ancora non realizzava di aver fatto e che era stato fondamentale per la sua squadra. Io ero seduta sull’asfalto proprio accanto a Paolo, che mi aiutava a riconoscere le atlete, mi raccontava le loro storie, mentre le incitavamo una ad una. Altre si sono fermate per un saluto, un abbraccio. Mi chiedo ancora adesso perché mi abbia così sorpresa un gesto così semplice e umano. Forse lo sport mi aveva preparato ad altro. Il caldo, per fortuna, mi ha distratto dal nodo in gola che avevo accumulato nel vederle arrivare, nonostante tutto, alla meta.

 

Durante l’ottava tappa del Giro d’Italia del 1924, Alfonsina Strada arrivò fuori tempo massimo, ma non fu esclusa dalla gara: si applicò la stessa decisione presa qualche giorno prima per Aperlo e Cividini, dunque le fu permesso di continuare a pedalare ma i suoi tempi non sarebbero stati conteggiati ai fini della classifica. Da Milano partirono in novanta e solo trenta arrivarono in fondo, tra loro c’era anche Alfonsina. Non aveva fatto un passo indietro nemmeno nell’infinita tappa tra Bologna e Fiume, che la tenne in sella per 21 ore. Al termine della corsa rosa, in un’intervista al Guerin Sportivo disse: Sono una donna, è vero. E può darsi che non sia molto estetica e graziosa una donna che corre in bicicletta. Vede come sono ridotta? Non sono mai stata bella; ora sono... un mostro. [...] Ho le gambe buone, i pubblici di tutta Italia (specie le donne e le madri) mi trattano con entusiasmo. Non sono pentita. Ho avuto delle amarezze, qualcuno mi ha schernita; ma io sono soddisfatta e so di avere fatto bene.”

Al termine di un’altra tappa di un altro Giro, quello a noi contemporaneo, è abbastanza evidente che abbiano fatto bene e possano essere soddisfatte, per usare le parole di Alfonsina, tutte le 106 cicliste che sono riuscite ad arrivare in vetta alla cima a lei dedicata. Anche quelle che sono partite da Lanciano, ma che non sono riuscite a compiere la stessa impresa. Tutte hanno pedalato al meglio delle loro capacità, hanno sofferto finché sono riuscite a soffrire e forse anche oltre, sono riuscite a trasformare la fatica in quella bellezza che Alfonsina non trovava più in sé stessa dopo la corsa rosa. Perché le donne che corrono in bicicletta sono bellissime: vanno veloci, salgono in alto, spingono con tutta la forza che hanno sui pedali, emozionano loro stesse e anche chi si trova lungo un percorso di gara a guardarle, lo fanno come chiunque abbia mai provato le due ruote e se ne sia perdutamente innamorato.

Foto: Sprint Cycling Agency


Le jardin reste ouvert pour ceux qui l'ont aimé

Articolo di Carlo Giustozzi

Prima di partire per il Tour del 1967, Tom Simpson era passato in una concessionaria Mercedes di Gent, la città belga dove viveva. Appassionato di motori, aveva versato l’anticipo per l’auto più costosa. Il resto lo avrebbe pagato al ritorno con i soldi della vittoria della Grande Boucle. Era il suo modo di motivarsi per la corsa più importante del mondo, il grande successo che mancava nel suo palmares.

Non ci era mai andato neanche vicino, in realtà. Cinque anni prima aveva indossato per un giorno la maglia gialla, diventando il primo britannico a guidare la classifica generale del Tour. Un risultato storico, che sarebbe stato eguagliato solo più di 30 anni dopo da Chris Boardman. Alla fine era riuscito ad arrivare sesto – il suo miglior risultato in carriera – a oltre 17 minuti da Monsieur Chrono Jacques Anquetil.

Dire che era stato colpito dalla sfortuna nel 1965 è ingeneroso. Prima cade nella discesa dell’Aubisque, poi si prende una bronchite, fora perdendo quindici minuti e rimedia pure un’infezione alla mano. Il medico della corsa gli consiglia che sarebbe meglio fermarsi, ed è costretto al ritiro. A un luglio disgraziato segue però l’autunno migliore della carriera, in cui vince prima i Mondiali a San Sebastian e poi il Giro di Lombardia.

Con la maglia iridata è sicuro che gli andrà meglio, questa volta la Grande Boucle sarà sua. E invece la bici scivola sulla discesa del Galibier, il braccio si apre e ha bisogno di cinque punti. Un altro ritiro, e la delusione è sempre più grande. Sta per compiere trenta anni, e la finestra per vincere è ormai ristretta.

 

Thomas Simpson, professione: ciclista
Thomas Simpson nasce nella cittadina mineraria di Haswell, Inghilterra settentrionale, il 30 novembre 1937. È l’ultimo dei sei figli di Tom Simpson, minatore ed ex velocista di atletica, e sua moglie Alice. Dal padre eredita il diminutivo e una certa propensione allo sport. Ma più che all’atletica si avvicina al ciclismo. Fa la sua prima gara a 13 anni, correndo con la bici con cui consegnava la carne per il macellaio del suo paese. Capisce subito che il ciclismo può essere il modo per fare il grande salto, salire di classe sociale e condurre una vita più agiata rispetto a quella dei suoi genitori.

Come per tanti altri ciclisti dei suoi anni, la bici non è (solo) uno sport, una passione, ma diventa il mezzo per migliorare la propria vita. Fin da giovane è metodico, attento a ogni aspetto, tanto nella meccanica quanto nella sua alimentazione. Forse sarà questa stessa cura del dettaglio a portarlo, anni dopo, a far uso di doping per migliorare le sue prestazioni. Ora però è ancora un giovane talento, che batte in ogni gara i suoi pari età. I risultati migliori li raccoglie in pista, dove a soli 19 anni entra a far parte del quartetto inglese per l’inseguimento a squadre alle Olimpiadi di Melbourne. Si dovranno accontentare della medaglia di bronzo, e Simpson si assumerà le colpe per la mancata vittoria. Vince per due anni il titolo britannico nell’inseguimento individuale, e capisce che è il momento di fare il grande passo. Se vuole diventare come il suo idolo Fausto Coppi deve attraversare la Manica e correre in Europa continentale.
Così a 22 anni arriva in Francia con cento sterline in tasca e due valigie, una per le bici Carlton e una per il completo pulito. Va ad abitare a Saint-Brieuc, un villaggio della Bretagna dove sente subito la mancanza di casa. Non parla il francese, rimedia frequentando la biblioteca locale e conoscendo una giovane inglese che fa la ragazza alla pari sulla sua stessa via. Si chiama Helen, e pochi mesi dopo diventerà sua moglie.

Nel frattempo la sua carriera da ciclista inizia a decollare. In poco più di un mese vince cinque gare, e i suoi successi non passano inosservati. La Saint-Raphael, la squadra di Raphaël Géminiani, lo firma con un contratto sbalorditivo per un dilettante. Nel 1960 prende parte al suo primo Tour de France, e nell’anno successivo inizia a togliersi le soddisfazioni più importanti.
Tra il ’61 e il ’65 vince Giro delle Fiandre, Milano-Sanremo, Giro di Lombardia e i Campionati del mondo. È il primo britannico a vincere una classica monumento, a indossare la maglia gialla, a diventare campione del mondo. Dell’Inghilterra della Swinging London, dei Beatles, la minigonna e Carnaby Street, si fa rappresentante nel mondo del ciclismo.

Oggi siamo abituati a campioni che vengono da ogni parte del mondo: sloveni, colombiani, statunitensi, eritrei. Ma negli anni sessanta il ciclismo è uno sport dell’Europa continentale. Nel gruppo dominano i belgi, i francesi e gli italiani. I britannici sono pochi, e i loro successi ancora meno. Le vittorie di Tom Simpson fanno scalpore nel suo paese, attirando molti nuovi appassionati.

Anche se viveva a Gent, dove il tempo era migliore e i trasferimenti per le corse più veloci, Simpson amava ancora la sua patria. Quando poteva rientrava nel Regno Unito e al Tour, dove all’epoca partecipavano le nazionali, indossava con orgoglio l’Union Jack, e sembrava andare ancora più forte quando rappresentava il suo paese.

Uno dei suoi obiettivi, poi, era quello di aprire una squadra professionistica britannica. Lui avrebbe avuto il doppio ruolo di capitano e di manager, con il sogno di farne il faro di un nuovo movimento ciclistico. Quello che abbiamo vissuto negli ultimi decenni, con gli investimenti inglesi prima nel ciclismo su pista e poi su strada, e i successivi trionfi – Cavendish, Froome e Wiggins, per dire tre nomi – sarebbero forse arrivati trent’anni prima, se Simpson avesse potuto portare avanti il suo progetto.

Il Tour del 1967
Per il 1967, il grande obiettivo di Tom Simpson è il Tour de France. Per prepararsi al meglio decide di correre alcune gare a tappe di una settimana. Vince la Parigi-Nizza, dove si mette in luce anche un suo giovanissimo compagno di squadra. Si chiama Eddy Merckx, ha già una Milano – Sanremo in bacheca ed è un ottimo velocista. Simpson non farà in tempo a vederlo vincere praticamente tutto. A fine aprile è in Spagna per correre la Vuelta. Bisogna preparare le gambe in vista del Tour, ma la condizione è così buona che riesce comunque a portare a casa due tappe.
Il 29 giugno è ad Angers, nella Loira, per la Grande Partenza del Tour. Vuole vincere la classifica generale, ma un ottimo piazzamento andrebbe comunque bene. In un’intervista alla rivista Cycling ha detto che a 33 anni vuole ritirarsi dal ciclismo su strada, per dedicarsi alla pista e alla famiglia. Nella sua mente sono rimasti solo tre anni prima di lasciare il professionismo. Fare bene al Tour vorrebbe dire anche firmare nuovi contratti con gli sponsor e partecipare ai criterium a invito che permettono di portare a casa dei premi ricchissimi.

Storicamente il Tour de France era l’unica corsa nel calendario in cui non partecipavano i Club ma le nazionali. Simpson era felice di questa cosa. La Pegeout era un’ottima squadra, ma il britannico non era mai l’unico capitano. La nazionale britannica era composta da corridori molto meno forti, ma Simpson sapeva che poteva contare sul loro servizio. Tra gli otto gregari presenti c’erano alcuni dei suoi migliori amici: Vin Denson, il veterano che aveva corso con Rik Van Looy e Jacques Anquetil, Arthur Metcalfe e i giovani Michael Wright e Barry Hoban, che dopo la morte di Simpson sposerà la sua vedova Helen.

I favoriti per la vittoria finale del Tour sono il campione in carica Lucien Aimar, lo spagnolo Julio Jimenez e l’eterno secondo Raymond Poulidor. Nelle prime tappe Simpson non prende rischi, ed è tra i primi in classifica generale. Quando la corsa arriva sulle Alpi, la sfortuna lo colpisce ancora una volta. Nella tappa che prevede la scalata del Galibier ha fortissimi dolori allo stomaco e diarrea. Non riesce a mangiare, ma limita i danni e si ritrova settimo in classifica generale.

A Marsiglia, alla vigilia della tredicesima tappa, la nazionale britannica ha dei forti dubbi. Daniel Dousset, il manager della squadra, vuole che Simpson provi ad attaccare per recuperare sugli avversari. Gaston Plaud, manager della Peugeot, vorrebbe invece che si ritirasse, perché il giorno dopo nel percorso è prevista la scalata del Mont Ventoux, e non crede che Simpson sia nelle condizioni di affrontarla.

Maledetto Ventoux
Un proverbio provenzale recita: “Non è stolto chi sale sul Ventoux, ma chi ci ritorna una seconda volta”. Nel cuore della Provenza si erge un gigante, un monte calvo che non appartiene né alle Alpi né ai Pirenei. I geologi dicono che la sua costruzione sia iniziata circa 100 milioni di anni fa, nel Cretaceo. In pochi però nella storia si avvicinarono a quella cima pericolosa. Le leggende raccontavano di venti devastanti, animali mostruosi e crateri che lo collegavano ai meandri dell’Inferno.

La prima scalata documentata l’abbiamo studiata tutti a scuola. È la Ascesa al monte Ventoso che Petrarca compie insieme al fratello nell’aprile del 1336. Per il poeta quella scalata è un’allegoria della crisi spirituale che sta vivendo: mentre il fratello Gherardo sale velocemente, lui si perde nel tentativo di trovare un sentiero meno ripido.

Ma solo a Petrarca era piaciuto arrivare su quella cima. Il Mont Ventoux arrivò al Tour nel 1951, e il gruppo lo accolse con maggior freddezza. Nel 1955 era stata la scena dell’ultimo atto dello svizzero Ferdi Kubler. Cinque anni dopo la vittoria della Grande Boucle, Kubler si ritirò al termine della tappa del Ventoux, e disse che era troppo. Non si possono affrontare certe salite, non corro più. Nel 1958 Charly Gaul vinse la cronoscalata, ma arrivò sul traguardo in asfissia e si temette il peggio.

Il 13 luglio 1967 a Marsiglia, sede di partenza della tredicesima tappa del Tour, non si respira. Un caldo torrido affatica i corridori dalle prime pedalate. Bisogna stare attenti a mangiare e a bere, o si rischia di non superare il Ventoux. Lo soprannominano monte calvo perché in cima si apre un paesaggio lunare. Non c’è vegetazione, non ci sono alberi che possano riparare dal sole che batte forte.

Dopo la prima metà dell’ascesa, Tom Simpson entra in difficoltà. I big stanno facendo un ottimo ritmo, ma il britannico non può permettersi di perdere le loro ruote. Quel giorno si gioca un pezzo importante del suo futuro, e non è ammissibile mollare. Cerca di restare idratato. Rimasto senza acqua, a inizio salita aveva preso una borraccia da dei tifosi. Dentro ci avevano messo il cognac. Secondo alcuni ne bevve solo un sorso, poi sputò e buttò via la bottiglia. Secondo altri se ne versò più di metà in gola. Uno degli aspetti da tenere a mente di questi ultimi attimi di vita di Simpson è che ci sono tante versioni della storia, tutte in contrasto tra loro.

Di certo sappiamo che, quando mancano un paio di chilometri allo scollinamento, Simpson si ferma una prima volta. Sembra al limite. I meccanici vorrebbero fermarlo, è troppo, ma l’inglese non vuole. Chiede di essere rimesso in sella. Riparte, ma è un continuo zigzagare finché non si accascia a terra un’altra volta. Non si rialzerà più. Arriveranno la sua ammiraglia, il medico del Tour, un elicottero per portarlo all’ospedale più vicino. Non ci sarà nulla da fare.

La sua morte rimarrà un mistero, un insieme di tanti fattori, non si saprà mai quale sia stata la causa principale. Il caldo torrido, la disidratazione, i problemi fisici dei giorni precedenti o quelle fiale di anfetamina trovate nelle sue tasche posteriori. Jacques Anquetil, fino agli ultimi giorni strenuo difensore del doping, dirà che la morte era colpa del medico del Tour, perché il viaggio in elicottero gli aveva causato un arresto cardiaco.

Di certo si sa che quel giorno un uomo sorridente, che amava il suo lavoro e la sua vita, aveva lasciato per sempre sua moglie Helen e le loro due bambine, senza nemmeno poter dire addio. Avrei potuto prolungarmi di più su questo finale, ma non sarebbe stato giusto. È bello ricordarlo con le parole che scrisse Gianni Mura, all’epoca inviato ventiduenne a seguito del Tour per la Gazzetta dello Sport:

“E già discutevano se era morto bene o male e già cominciava il girotondo delle verità e l’interrogativo era: omicidio o suicidio? Come se morire non fosse abbastanza e non fosse ovvio che chi muore ha sempre torto. Morire è come aprire una porta e chiudersela dietro. Chi è senza chiave non entra. «Le jardin rest ouvert pour ceux qui l’ont aimé», come disse un poeta. Simpson l’ha trovato aperto. È passato”

 

Fonti:
William Fotheringham, Put Me Back on My Bike: In Search of Tom Simpson, Yellow Jersey Press 2002
Francesco Petrarca, L’ascensione del Monte Ventoso
Leonardo Piccione, Diapositive dal Monte Ventoso, Rivista Undici 2016
Gianni Mura, Simpson, chi muore ha sempre torto, Gazzetta dello Sport, 15 luglio 1967
Gianni Mura, Maledetto, caldo Ventoux, La Repubblica, 21 luglio 2002


I nuovi Percorsi Gravel su Komoot

Komoot lo usiamo tutti per trovare ispirazione. Oramai la sua precisione nel creare percorsi per bici è impressionante e i percorsi consigliati e pronti all’uso consentono di partire all’avventura in pochi clic. C’è però una funzione che ancora mancava e, ad essere sinceri, questa cosa non ci andava proprio giù. Ma da oggi non è più così.

Sì perché da pochi giorni è possibile trovare anche i Percorsi Gravel pronti all’uso nella funzione di ricerca. Sono oltre 160.000 ed in constante crescita, consultabili su mappa interattiva con tanto di recensioni, e sono stati creati grazie ad un algoritmo che combina i dati provenienti dalla community con un potente sistema di mappatura che si basa su consigli, suggerimenti, foto degli esperti locali, nonché su dati cartografici dettagliati e aggiornati.

Funziona cosi:

-Apri l’app o il sito komoot;
-clicca su Percorsi;
-scegli il luogo dove vuoi pedalare cliccando sulla mappa o inserendo un indirizzo nella barra di ricerca;
-a questo punto scegli l’opzione gravel e ti si aprono una serie di percorsi sulla mappa;
-fai un giretto sulla pagina dei filtri, se desideri impostare le tue preferenze di lunghezza del percorso o dislivello, ed il gioco è fatto.

Non resta che scegliere il Percorso, volendo puoi salvarlo e scaricarlo per l’utilizzo off-line, oppure utilizzarlo immediatamente per la navigazione.

Siccome questa, come tante altre opzioni, viene creata anche grazie ai feedback degli utenti, è importantissimo che ognuno di noi, alla fine del proprio giro, lasci il proprio riscontro e dica cosa è piaciuto e cosa no. È democrazia, e a noi la democrazia piace parecchio.

È una funzione davvero fighissima, a cui è difficile rinunciare una volta provata. Basti pensare a tutto il tempo investito per tracciare di testa nostra, in posti che non conosciamo, e che invece possiamo investire per aggiungere qualche chilometro o, perché no, per goderci una birra in più a fine giro. Mica male eh.

Ed ora tocca a te provarla!

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Velo Cafè, Giubiasco

Le strade di Giubiasco sono ancora segnate dall'acqua di un temporale che si è rovesciato sulla frazione di Bellinzona, nel Canton Ticino. Sull'asfalto, la prima calura, mentre asciuga, è regista dei giochi di chiaroscuro che assomigliano ad un puzzle. Ancora qualche pozzanghera, a riflettere un cielo tormentato, schizza acqua sui marciapiedi al passaggio delle automobili. Non appena voltiamo l'angolo, via al Ticino è intrisa del movimento di un qualsiasi mezzogiorno, nel mezzo di una settimana lavorativa. In questo scenario, al numero 23, la corte che ci si apre davanti pare una macchina spazio temporale. Sì, una corte è, letteralmente, uno spazio scoperto entro il perimetro di un fabbricato, per dar luce e aria agli ambienti che vi si affacciano, ma è anche un elemento che sa di altri tempi e di altri luoghi, qualcosa che solletica i ricordi. Velo Cafè abbraccia ed è abbracciato a questa corte, quasi la avvolgesse e ne fosse avvolto, una sorta di mezzaluna.

Davide Antognini, ideatore e fondatore di questo luogo assieme a Giona Sgroi, inizia a parlarci proprio mentre, voltando la testa di qua e di là, scrutiamo la curiosa conformazione del locale: un'idea che arriva direttamente dalla Spagna, la nazione in cui, grazie a diversi amici e a tanti Bike Café, ha iniziato ad "indagare" la bicicletta. «Se bicicletta è sinonimo di viaggio, di spostamento, in ogni caso, anche i locali che hanno a che fare con questo mezzo possono essere, a loro volta, un viaggio: dai tavolini di legno del nostro bar, in mezzo a quadri a tema ciclismo, ad un divanetto, accanto a giornali e riviste, davanti ad un televisore, vicino a maglie di ciclismo custodite con cura, fino all'officina, al centro della mezzaluna e alla coda, in cui sono depositate le biciclette. Vorremmo racchiudere qui tutto quel che può essere utile, necessario, a chi pedala».

Nel frattempo, abbiamo poggiato l'ombrello all'esterno e, davanti ad un caffè, con il sottofondo di bicchieri che si riempiono ed il profumo del pane caldo, avvolto in tovaglioli e portato ai tavoli per il pranzo, Davide ci rivela qualcosa che, forse, ci sfuggiva: la motivazione per cui, nei metri quadrati, dove tanti anni fa c'era un night e fino all'autunno scorso un vecchio negozio di biciclette, è ora ospitato Velo Cafè e la ragione ha a che fare con la mancanza. Se ci pensate è un meccanismo naturale dell'essere umano: ci si accorge di quel che non c'è e si prova a crearlo, a modellarlo: «Sì, in Ticino non esisteva un Bike Cafè: nella Svizzera interna si trova qualcosa, qui no. Visto che gli uomini non hanno la bacchetta magica, era necessario qualcuno che iniziasse, senza strada segnata: non sapevamo quanti caffè avremmo fatto, quante bici avremmo sistemato, quante ne avremmo vendute. Per aprire un bar è necessaria la gerenza, è un costo non indifferente. Non è stato un passo facile, ma se vuoi qualcosa che non esiste, è l'unica possibilità».


La mano di Antognini indica l'altro lato della strada, c'è una ciclabile che unisce Locarno a Bellinzona, nel 2022, ci dice, sono più di 500 le biciclette transitate lì, e più di 15000 le auto passate sulla strada su cui la corte si apre. In Svizzera, infatti, la bicicletta è molto usata: la parte gare si avverte meno, perché mancano molti eventi nazionali, ma le persone si recano al lavoro in bicicletta, oppure esplorano un territorio variegato e adatto: la salita, i 200 chilometri girando attorno al lago, la Val Morobbia, le strade che corrono lungo il fiume, lo sterrato, manca solo il pavè. «La libertà della bicicletta è, soprattutto credo, la moltitudine di possibilità: un campione può pedalare con un giovane alle prime armi o con un anziano. Semmai cambiano i percorsi, ma si può fare, l'incontro è possibile, il viaggio assieme è realizzabile. Altre volte non succede». Giona è al bancone del bar, anche lui ha sempre seguito il ciclismo ed è l'altra metà di questa avventura: Davide è la precisione, anche esagerata, a volte, Giona la capacità di "lasciar perdere, lasciar andare, fregarsene" quando continuare a pensare non fa altro che appesantire le giornate ed il mestiere già difficile. «Al lavoro in un bar ero abituato, l'ho sempre fatto, alle biciclette no. O meglio, non sapevo cosa sarebbe potuto accadere facendone un lavoro, avendole a due passi dal bancone. Però non ero spaventato, questo no. Credo abbia a che vedere con il fatto che, bene o male, la bicicletta fa parte della storia di tutti, da sempre. C'è un nonno che andava a prendere il pane in bici o che seguiva le corse, c'è un genitore, in certi casi un amico che ce ne ha parlato o che, magari, ci ha fatto scoprire il suo significato. Ogni storia è differente, tuttavia sapere che queste fondamenta esistono è un incoraggiamento che fa passare il dubbio». Il progetto nasce ad ottobre dello scorso anno, proprio seduti ad un tavolo, assieme, la frase chiave è: «A febbraio apriamo».

Il 2 febbraio 2024 è un venerdì e in Via del Ticino 23, dove la corte ed il negozio si incontrano, si inaugura Velo Cafè. Una sera in cui volti, voci, musica e caos si intersecano. Ad un certo punto le persone sono così tante che i bicchieri non bastano; il ritratto dell'apertura è così, bello ed imperfetto, come ogni inizio. Il ciclismo è sempre stato al centro, anche in quella notte, anche nell'arredamento: nelle panchine costruite da Davide e Giona, nei richiami del legno dei mobili e dei tavoli, nei quadri, nei dettagli, nelle riviste. «Non si parte perfetti- precisano- perché per partire perfetti si continuerebbe a rimandare fino a non partire più. Non si parte perfetti e ci si aggiusta passo dopo passo, trovando il giusto equilibrio, anche tra lavoro e vita privata, perché abbiamo una famiglia e serve razionalità. Davanti si cerca di mantenere l'ordine, dietro, spesso, il caos più totale. Nel frattempo, il tentativo in cui ci si sforza è quello di capire le persone che arrivano da noi, di comprenderle, non si sa quasi mai se ci si è riusciti. Qualche sicurezza in più la si ha quando si vede il ritorno, chi torna è stato bene, si è sentito al posto giusto, nel momento giusto». Le biciclette sono sempre tante, un via-vai continuo: all'inizio c'era un solo meccanico a lavorare in officina, scelto attentamente, affinchè fosse il migliore possibile, ora sono due, per essere più efficienti, per aggiustare più bici, per «consentire quei cento metri di felicità, certe volte gli unici che ci si può permettere, a qualcuno in più».
Giona prepara un caffè e torna a raccontare: «Nei progetti è tutto diverso: ti immagini tutte biciclette bellissime, preziosissime, da campioni e si prova l'orgoglio di lavorarci. Poi ti scontri con la realtà e la realtà è che spesso si tratta di bici "sgangherate", poco curate, con tanti anni di attività, usate giusto in caso di necessità. Posso dire che è bellissimo anche così, che c'è voglia di fare il proprio dovere al meglio anche su quelle, più che mai su quelle».

Qualcuno arriva per un caffè e una brioches al mattino presto e ne approfitta per una sistemazione al volo, altri pranzano a mezzogiorno e si fermano a parlare con il meccanico, c'è anche chi, se non esistesse Velo Cafè, dovrebbe uscire prima dall'ufficio per riparare la propria bicicletta, invece, così può tranquillamente fermarsi alla sera, magari chiacchierando in dialetto: «Noi proviamo a trasmettere sicurezza, a raccontare la voglia di uscire dalla propria zona di comfort, di fare il primo passo perché, a ben guardare, è solo quello che ci blocca. Dopo l'inizio, è tutto più semplice. Le persone hanno bisogno di ricevere sicurezza». La stessa di Davide e Giona all'inizio, quando, di fronte alla novità, tutti storcevano il naso, qualcuno, addirittura, suggeriva di lasciar perdere «perché ormai le biciclette non vanno più». Evidentemente si sbagliava, l'hanno sempre immaginato, ora ne hanno la certezza. Velo Cafè è diventato presto un punto di incontro, dai più giovani ai più anziani: si organizzano ride domenicali, gite in bicicletta assieme, pedalate con cicloturistiche e triathlon, incontri serali per parlare di ciclismo, feste e aperitivi, mentre la corte si riempie di persone, musica, si canta e si balla. Si griglia anche e si gusta il cibo come una festa.

Se si parla di sogni e di progetti, Davide racconta che sono più parte del presente che di qualcosa che sarà, del futuro. Anche questo è tipico di quello che è all'inizio, che sta prendendo il via, quando le idee fioriscono in un nulla: «Un esempio è quella che chiamo "ciclo-enologia»: ciclismo e vino, anche grazie al binomio perfetto che abbiamo qui con le tante cantine presenti dalle nostre parti. Anche questo era un progetto, ora è una realtà, l'abbiamo fatto, ci siamo riusciti e continueremo a farlo". Qualcuno entra al bar, si affaccia agli altri ambienti, si guarda in giro, chiede se sia possibile accedervi, dopo un cenno di assenso procede, con curiosità. Ci spiegano che accade spesso, proprio perché nel Ticino nessuno era abituato a un locale di questo tipo, è questione di tempo, di abituarsi e di sentirsi a proprio agio, a casa, accolti dal ciclismo, che è la base comune di tutti, il sottofondo che tutti ascoltano.

Dalla corte eravamo partiti, nella corte torniamo prima di salutarci e percorrere di nuovo quella strada ormai asciugata dal vento che si è alzato. Davide ci accompagna, ci dice che fra qualche giorno, nel fine settimana, qui suonerà un gruppo brasiliano, per cui tutto deve essere pronto: con le mani ci indica come si disporranno, dove saranno le persone, dove i tavolini ed il cibo. Ce lo racconta per quella sera e, nel mentre, pensa già ad altre serate, ad altre possibili cose da fare, immaginando già cosa potrebbero pensare le persone arrivando lì, quanto potrebbero divertirsi, essere contente. Si può chiamare in vari modi questo atteggiamento, contiene molte cose, molte sfumature, noi parliamo di progetti ed i progetti sono vicino alle novità. Come Velo Cafè.


Questionario cicloproustiano di Eleonora Camilla Gasparrini

Il tratto principale del tuo carattere?
Determinazione.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
La sincerità.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La determinazione.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Il supporto che mi danno a 360 gradi e la spensieratezza che posso avere quando sono con loro.

Il tuo peggior difetto?
Un pochino testarda, a volte voglio fare troppo di testa mia.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Sicuro non stare a casa sul divano. Stare con famiglia e amici visto il poco tempo che si ha e magari fare qualcosa di piacevole con loro (shopping compreso).

Cosa sogni per la tua felicità?
Cose semplici come avere intorno persone che mi vogliono bene e a cui voglio bene ed essere in salute.

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere le persone più care.

In che paese/nazione vorresti vivere?
In Italia sto bene.

Il tuo colore preferito?
Azzurro.

Il tuo animale preferito?
Cane.

Il tuo scrittore preferito?
Non leggo molto.

Il tuo film preferito?
Me ne piacciono diversi ma uno che mi viene in mente è "Il diavolo veste Prada".

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Ascolto un poco di tutto in realtà.

Il tuo corridore preferito?
Quando ero piccolina soprattutto mi piaceva tanto Nibali.

Un eroe nella tua vita reale?
Mio papà.

Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma.

Cosa detesti?
Le persone false.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Vincenzo Nibali al Giro 2016 quando attacca in discesa dal Colle dell’Agnello.

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Difficile da dire, non è mai bello ritirarsi e i fattori possono essere diversi. Però, se ne devo dire una, dico L’Amstel.

Come ti senti attualmente?
Bene, sono stata Parigi a fare la recon del percorso delle Olimpiadi.

Lascia scritto il tuo motto della vita
Vivere senza rimpianti.


Ciclo Shop, Mezzolombardo

«Ma come si fa a lavorare così? Non sei capace. Non vedi che non sei capace? Non vali niente, diamine, niente». A Mezzolombardo, in Trentino, nella Piana Rotaliana, ai piedi delle balze rocciose e spigolose del Monte Fausior, stretti al corso del Fiume Noce, nonno Sergio gridava spesso così a ciascuno dei suoi sette nipoti, dietro la serranda di un locale in cui lavorava duro dal mattino alla sera: all'esterno l'insegna Ciclo Shop. Ogni tanto, qualcuno lo chiamava: «Sergio, la cena è a tavola». Lui rispondeva, sì, rispondeva, ma continuava a fare andare le sue dita, le sue mani, fino a quando la bicicletta, su cui era chino da qualche ora, era a posto, pronta per far scorrere le sue ruote su un'altra strada. Così, se la cena era a tavola alle diciannove, lui si sedeva sulla sua sedia alle ventuno, talvolta anche alle ventidue.

Quei ragazzi, i sette nipoti, sono tutti passati da quella serranda perché, in un modo o nell'altro, quell'uomo li aveva ispirati, attratti lì come accade con un magnete, una calamita: Sergio era elegante, signorile nel portamento, ma duro, a tratti burbero, poco capace, quasi per nulla, di giri di parole, schietto, sin troppo, fumantino, privo di pazienza quando si trattava del suo mestiere. Di fatto era un "tecnico" della bicicletta, quasi un matematico, schematico in ogni riflessione ed in ogni azione o pensiero di azione; un uomo di altri tempi che usava prevalentemente la bicicletta come mezzo di trasporto, anche per gli acquisti del negozio, a costo di ammalarsi per la pioggia ed il freddo d'inverno e per le volte in cui, anche fuori stagione, bisognava salire in montagna, col cuore a mille dentro il petto. Molti anni dopo, Christian Mongibello, uno dei nipoti, ricorda ancora con gusto il modo in cui nonno eseguiva la raggiatura: la decisione del gesto, la precisione ed allo stesso tempo le spiegazioni. Il punto è che, proprio per il carattere di nonno, alla fine, tutti quei ragazzi andavano altrove, si dedicavano ad altro, stanchi dei rimproveri e di quella sincerità pungente. Christian no, Christian restava al suo fianco. Anche negli ultimi anni, quando la vecchiaia e la debolezza facevano apparire tutto grande, gigantesco, per essere intrapreso: succede quando mancano le forze ed a Sergio le forze mancavano da tempo. Allora quando a Christian veniva qualche idea, quando metteva sul tavolo qualche proposta, lui ammoniva: «No, non si può fare. C'è la crisi, non vedi? Bisogna essere accorti, ponderati». Quel locale aveva ridotto le dimensioni, allo stesso modo in cui Sergio aveva ridotto le forze, quasi fossero legati da un comune destino, era diventata una piccola bottega. Fino agli ultimi giorni.

Christian ha memorizzato la data del primo scontrino emesso da Ciclo Shop sotto la sua guida, quando nonno non c'era più: parliamo di marzo del 2017. Quasi novant'anni dopo l'inizio della sua storia, dal bisnonno al nonno, dal nonno alla madre, fino a lui: quei locali sono rimasti patrimonio di famiglia, mentre i vicoli della vecchia borgata di Mezzolombardo sono sempre più pittoreschi. Anche Christian ha sperimentato altri lavori, ma, alla fine, è tornato nella bottega dove trascorreva i sabati e le domeniche. Per certe cose il tempo pare non essere mai passato: c'è ancora qualcuno che, dalla cucina, grida «a tavola» e c'è ancora un uomo che resta in officina, magari fino all'una di notte, a completare un lavoro iniziato. Il senso del dovere è lo stesso di Sergio, come la fedeltà al lavoro. Le forze sono ritornate al loro massimo e con loro la volontà di sperimentare ed inventare: il negozio si è ingrandito, ne è nato un altro, in estate, addirittura, Ciclo Shop, ha tre sedi. La prima, quella di nonno Sergio, per intenderci, ha una grossa scala al centro, simile ad una "gabbia", che accompagna dritta all'officina, un bancone e quattro cavalletti, adatti al lavoro di due meccanici, le biciclette, invece, sono esposte su sei mensole a muro, ogni bici sembra quasi un quadro da osservare in ciascun dettaglio, sino al ripiano in legno dove sono tutte schierate in fila, rivolte verso la vetrina. «Il punto centrale è l'officina: ho immaginato meccanici in "guanti bianchi", completamente dediti al mezzo, con ogni cura e con ogni attenzione. Un trattamento identico per ogni bicicletta, dalla più economica a quella più ricercata, perché non può esserci differenza nel nostro approccio, nella nostra professionalità. Una bicicletta è una bicicletta». In realtà, oltre a questo cardine, a questo principio, ben poco era già fissato. Una cosa sì, quel buco al centro del locale, dove posizionare la scala, «attorno a quella scala tutto sarebbe cresciuto passo dopo passo, giorno dopo giorno, a sentimento». E, all'improvviso, poche parole, pronunciate nella mente, e rivolte a Sergio: «Hai visto? Questa volta sono stato bravo, questa volta puoi essere fiero di me». Quasi a cancellare i vecchi rimproveri.


Un piccolo divisorio, in officina, permette ai clienti di appoggiarsi lì, mentre le riparazioni vengono portate a termine. Le persone ammirano attente e restano sorprese anche dai gesti all'apparenza più banali: ad esempio, da quel setaccio passato sulle bici, a pulirle, prima di ripararle. I tempi sono cambiati, racconta Christian: «Una volta il rapporto con la clientela si costruiva a partire dal ciclismo, oggi accade esattamente l'opposto. Si inizia a conversare di tutt'altro e, ad un tratto, la persona torna in negozio e si sofferma sulle biciclette. Le Social Ride sono pensate proprio a questo scopo: pedalata dopo pedalata, il gruppo si allarga, perché la voce giunge ad amici, a conoscenti, fino a che sai cosa accade? Da quella porta, entrano due o tre persone assieme che si scambiano consigli, mentre passano in rassegna le biciclette e noi professionisti restiamo a guardare. Quanto è bello?». Il segreto consiste nel fatto che, in questi anni di evoluzione fenomenale del mercato della bici, la differenza la fa il servizio, l'unica via per provare a stare al passo della concorrenza via internet, realtà che difficilmente si può contrastare: «Le persone possono fare avvicinare altre persone, attraverso il rapporto umano. Potrei dirla così: il cliente dobbiamo andare a prendercelo. Il rapporto umano è la strada affinché questo avvicinamento sia naturale».

Rispetto al mezzo vero proprio, Mongibello mette subito in risalto come l'estetica delle nuova biciclette sia indubbiamente di pregio, anche se capita ancora di restare meravigliati, senza parole, da qualche vecchio modello, anche i materiali e lo studio su di essi è migliorato, tuttavia, almeno in parte, è vero quel che la gente dice: «Una volta le biciclette duravano di più». «Non a caso, io chiedo ai nostri meccanici di smontare e montare daccapo le biciclette nuove che arrivano in negozio. Talvolta manca la copertura, l'olio, il grasso. Credo sia parte del Made in Italy di una volta che, a mio giudizio, almeno in parte è andato perso negli anni».
Da un lato del locale, si notano chiaramente cinque biciclette, di diversa tipologia e misura, pronte ad essere utilizzate. Christian Mongibello le ha posizionate in quel modo e, prima di spiegarci il motivo, fa un'unica affermazione: «Nonostante le sue varie declinazioni, la bicicletta è una sola». Qualche attimo di riflessione sul principio appena enunciato e Mongibello definisce meglio i contorni del suo pensiero: «Chi si cimenta nel gravel, talvolta, non riconosce pari valore al ciclismo su strada, vale lo stesso viceversa, e questo discorso è replicabile anche per le altre discipline, per le biciclette elettriche, ad esempio. Bisognerebbe spiegare, raccontare che tutte le specialità contengono qualcosa che vale la pena di essere scoperto, vissuto. L'abbiamo fatto più volte, dedicando tempo ed entusiasmo, purtroppo, però, si arriva spesso allo scontro. Quelle biciclette servono per dire semplicemente: "Prova, proviamo insieme", mettendo da parte un sacco di altre parole. Provare è la chiave». Sì, anche per comprendere la differenza tra costo e valore: il costo è il lato economico, il valore è, invece, qualcosa di intrinseco. I due termini possono coincidere, ma non sempre accade. L'aumento dei costi correlato alle guerre ed ai rincari delle materie prime è un dato che tocca tutti, anche Ciclo Shop, anche le biciclette. Difficile, sempre più difficile, in un momento in cui, spesso, il risparmio, o il presunto risparmio, è messo al primo posto, anche se bisogna andare lontano, anche se il costo della benzina o i chilometri annullano il presunto vantaggio: c'è una convinzione di fondo che non si sradica, su cui però è necessario lavorare, provando a razionalizzare il proprio comportamento.

Di sicuro, il Trentino Alto Adige è terra di ciclismo. La terra natale di Francesco Moser e Gilberto Simoni, fra gli altri, due nomi che hanno avvicinato tanti giovani alle due ruote, rinfocolando la passione anche nei momenti più complessi, «simile a quel che Yannick Sinner sta facendo nel tennis». La cima della Paganella è vicina, le bellezze naturali non mancano, in un anello di cinquanta chilometri, comprendente il negozio, si passa dalle ciclabili all'asfalto, allo sterrato, dal lago alla montagna, magari fermandosi nelle cantine che offrono ospitalità per l'occasione: una varietà che stupisce.

Accanto a Christian, c'è il fratello Marco, che ha lasciato un lavoro ben retribuito, un contratto sicuro, ed umilmente ha iniziato ad imparare come si mettono le mani fra gli ingranaggi di una bicicletta. Christian gli ha spesso detto quel che dice anche a noi: «La parte più bella di questo lavoro è avere la possibilità di dare forma a qualcosa di nuovo, qualcosa che prima non c'era, figlio dell'impegno, del talento e della fantasia». Lui ci ha creduto, ci crede, come facciamo anche noi e non solo. Christian ha due figlie: lo aspettano quando esce per i suoi giri in bicicletta con i visitatori del negozio, lo cercano, durante la giornata, nella casa che è proprio sopra il negozio. La maggiore ha sei anni e, quando torna dall'asilo, chiede di scendere in officina a fare merenda insieme a papà. Altre volte è solo il desiderio di stare in compagnia a fare in modo che quelle due bambine corrano a rifugiarsi nel locale. Christian Mongibello sorride compiaciuto, si immedesima in quel che prova sua figlia: in fondo, somiglia molto a quel che sentiva lui, vicino a nonno Sergio ed alle tante biciclette di Ciclo Shop.


La carovana pare infinita

Maurice Garin era un "ramoneur", ovvero uno spazzacamino, colui che pulisce la canna dei camini dalla fuliggine, per questo doveva essere molto magro, per muoversi con abilità in quel varco stretto. In bicicletta aveva iniziato a correre, insieme ai fratelli, inseguendo una speranza, che potesse allontanarlo dalla miseria, dopo la perdita del padre. Più o meno in questi giorni del 1903, Garin era alla partenza del primo Tour de France, quello che vinse, in poco più di 94 ore, per percorrere sei tappe.

Da un villaggio della Valle d'Aosta, alla cittadinanza francese, a Parigi. In più di centoventi anni di cose ne sono cambiate: Garin non vestì la maglia gialla, quella arrivò nel 1919 ed il primo a vestirla fu Eugène Christophe, lui che, nei giorni del Tourmalet, riparò la forcella della sua bicicletta in una bottega, a Sainte-Marie-de-Campan: c'era un fabbro ad aiutarlo. Ai tempi di Garin, il simbolo era una fascia verde. Il giallo, forse, è una delle cose che da quel momento non sono più cambiate: la maglia, le spighe di grano ed i girasoli. Firenze, dov'è il viola il colore simbolo, assieme al giglio, sarà tinta di giallo per la prima partenza del Tour de France dall'Italia, come Rimini, Cesenatico, Bologna, Piacenza, Torino, Pinerolo.

Firenze dove Bettiol indosserà la maglia tricolore, vinta qualche giorno fa, vicino alla casa di Alfredo Martini, la stessa casa dove si recò a pochi giorni dalla maturità, ma gli esami non finiscono mai e il Tour, che parte dalla Toscana, con il tricolore attaccato alla pelle, sarà un esame, un'emozione. Ne parlerà lui. Non è cambiata l'afa di luglio, la "canicule", quella che "scioglie" le strade, l'asfalto e chi è stato in Francia, sulle vette, sa che non è un modo di dire. La dieta dei corridori non comprende più cioccolata calda, tè, champagne e budino di riso, la preferita di Henry Cornet, ma esiste ancora la figura del "Lavoisier" per segnare i distacchi su una lavagna, con un gessetto e, sicuramente, qualcuno, in città, vedendo un bambino sfrecciare sempre in bicicletta, lo chiamerà "Tour de France", come si narra che gli abitanti di Meensel-Kiezegem, la sua città natale, chiamassero Eddy Merckx, quando scoprì la bici e non la mollò più, lui che di Tour ne vinse cinque. In Francia si continua ad andare a vedere il Tour "à la bonne franquette", ovvero "alla buona", come capita, ma questo non vale solo per la Francia, ma per il ciclismo in generale.

La carovana pare infinita, più lunga delle sue strade, c'è l'acqua che viene spruzzata, ci sono matite, penne, strani salvadanai, cioccolatini e anche salamini: un ricordo del giorno in cui qualcuno ti porta a scoprire il Tour e la sua grandezza, la sua "grandeur". L'eco di "Cent'anni di solitudine" non è casuale perché il Tour è fatto anche di solitudini, in maglia a pois, in fuga, oppure vicino alla voiture balai in coda, come è fatto di rimandi alla letteratura e alla poesia, da Petrarca a Baudelaire e viceversa. Di tappe simboliche, la quinta per Vincenzo Nibali, di anni magici, il 1998 per Marco Pantani. Tadej Pogačar giocava a biliardo qualche giorno fa, Vingegaard e van Aert se la ridevano in allenamento con la nuova divisa. La "Chanson de geste" che ha nome Tour de France parte domani e parte dall'Italia.