Catasta Pollino, Morano Calabro

Il tono della voce di Giovanni Gagliardi, all'improvviso, si abbassa, a tratti le parole sembrano spezzate, rotte, come quando si dice qualcosa che, anche solo nel pensiero, suscita felicità e un pizzico di incredulità, nel proiettarsi nel futuro e credere davvero alle elaborazioni della mente: «Ai tempi dell'università, a Firenze, la bicicletta era un'abitudine bellissima. Quei cinque chilometri, pedalando, erano l'unica attività fisica di quel periodo ed io stavo bene: conoscevo le vie del tragitto, per andare in sede, a lezione, come il palmo della mia mano. Sono passati vari anni, ora sono sedentario, in certi momenti vorrei tornare in bicicletta, poi penso che non sono più adatto e lascio perdere, rimando. Però frequento molte persone che viaggiano in bici, sto a tavola con loro, quasi potessero per osmosi trasmettermi tutto quel che sentono e che provano. Fino magari al giorno in cui troverò il coraggio di tornare in sella perché lo vorrei davvero e, nonostante il tanto temporeggiare, sono certo che lo farò succedere, come molte altre cose. Serve solo un pizzico di coraggio in più».

Ecco, la voce si spacca esattamente qui, un istante prima di cambiare discorso e di tornare a raccontare di Catasta Pollino, un progetto che trova il suo centro nel Parco Naturale del Pollino, il più grande in Italia, e desidera promuovere le specificità locali, dal punto vista umanistico, naturalistico e culturale, aprendone le porte al visitatore, prendendo per mano un territorio e aiutandolo nella crescita, come si farebbe con un giovane: le esperienze formano i ragazzi, il viaggio, il turismo, le attività e le esperienze stesse formano anche i territori, ne mettono in risalto le caratteristiche e le vocazioni. Allora, anche stamani, mentre, da Sibari, porta il figlio più piccolo, due anni solo, al mare e ha mille cose per la testa, con il telefono che continua a squillare, quasi a ritmare la stanchezza del lavoro e degli impegni, «ha una ragione per stare sul pezzo, per non mollare e non andarsene», perché la sua terra glielo ha fatto pensare più volte e da quella terra è partito spesso, andando lontano, ma in quella stessa terra è tornato e le radici non le ha mai sradicate, salde come quelle di quel bambino, accanto a lui in auto, che, nato a Palermo, vuole vedere il mare.

Foto: Stefano Contin

«Odi et amo, questa è l'alchimia con questi luoghi: non è misurabile. L'aspetto concreto è invece l'educazione che ci hanno dato e che ci siamo dati: non bastano i discorsi, serve rimboccarsi le maniche e agire». Di questo è fatta la quotidianità di Giovanni Gagliardi, di Manuela Laiacona, di Sergio Senatore e di Donato Sabatella che, dopo la creazione di Catasta da parte delle istituzioni, si sono aggiudicati il bando per gestirla, nonostante tutti gli indicatori fossero contrari, quasi dicessero "ma dove andate, ma dove credete di andare?". I numeri non possono parlare, ma le persone che li consultano avrebbero esclamato proprio così, perché Catasta Pollino è una struttura tanto bella quanto complessa, costosa: «Si tengono delle attività giornaliere con uno staff sempre a disposizione, per fare rete, per unire tutte le energie, creare una sinergia, tra artigiani del gusto, per esempio, enogastronomia, cicloturismo, tramite il noleggio di biciclette. Tutti strumenti da accordare per scoprire il territorio. Paghiamo dieci stipendi, le persone credono che guadagniamo, in realtà tutto viene investito per la struttura, per riscaldarla in inverno, tra le altre cose».

Foto: Stefano Contin

Allora perché ci si assume questa responsabilità, perché si prende addosso questa fatica? Perché è quello che tocca alla generazione dei quarantenni, dei cinquantenni, sottolinea convinto Gagliardi: «I nostri genitori ci hanno cresciuto, fatto studiare, fatto girare il mondo. C'era il posto fisso e c'era molto altro che oggi non c'è più. A noi tocca fare il passo successivo, ovvero soffrire per la prossima generazione». Il tutto nella cornice del Parco nazionale del Pollino: 56 comuni, due regioni, infinito, verrebbe da dire, infatti anche Gagliardi, pur essendo a casa qui, non ha mai visto tutti quei comuni.

Foto: Stefano Contin

Il Pollino, incastrato tra due mari, lo Ionio ed il Tirreno, ma con l'influsso anche dell'Adriatico, e gli Appennini, con le loro quote, fino a 2300 metri, ad un passo. Ventiquattro micro comuni, borghi e non finisce qui perché il Parco del Pollino è l'unico posto a sud di Roma in cui si pratica il rafting, specialità in cui si impegnano ben nove società, vede fiumi estesi per trecento chilometri, diverse varietà arboree, la flora, la fauna, tra cui il lupo più puro d'Italia, che non si è mai ibridato in questo vasto terreno. E ancora attività ristorative, ricettive e molte guide parco.

Foto: Stefano Contin

«Era ed è necessario cercare una sintesi per unire un panorama di ricchezze che, però, è disgregato, sfilacciato, a tutti i livelli, perché non si è costruita una massa critica e perché lo spopolamento, purtroppo, è una realtà. La struttura, a dire il vero, è un pretesto». Una sorta di sintesi è sugli scaffali dello spazio espositivo interno a Catasta Pollino, nella libreria, dove sono depositati volumi sul territorio, sui viaggi in bici, sul ciclismo, in generale, oppure nell'area espositiva museale, con i plastici ed i pannelli in tre dimensioni. Una raccolta di sfumature differenti è rintracciabile nel gusto e nei sapori: «Noi abbiamo un motto: "Se non lo faceva nostra nonna, non lo facciamo neanche noi". Si tratta di una sorta di fedeltà alle origini, alle cose genuine, naturali, quelle che si trovano a Catasta Pollino. Il "chilometro vero", più che il "chilometro zero", dove a contare sono le ricette originali, quelle fatte in casa. Penso alle Lagane fatte in casa con il fagiolo poverello bianco e la polvere di peperone, ovviamente con pasta fatta in casa, cotte non sul fuoco, ma al vapore, nel nostro forno. Oppure al mischiglio, una vecchia farina dei "poveri", di ceci, di fave, di orzo e di grano, con cui si fa la pasta. Ma anche a salumi, formaggi, alle birre artigianali del Pollino, ai suoi succhi, ai bocconotti riscaldati ed infornati per colazione».
Da qui, Giovanni Gagliardi, con il gusto dell'aneddoto, racconta di Peppone Calabrese e del suo progetto, a cui ha aderito anche Catasta: un gruppo di anziane signore, magari di nonne, che producono la pasta con il "mischiglio", a mano, non in azienda. "Mischigliamoci", si chiama così, e rispetta perfettamente lo spirito di Catasta Pollino, giungendo sino ai due vecchi mulini che ancora producono quella farina dei "poveri".

Foto: Stefano Contin

Allo stesso modo, è un pilastro il rapporto umano: quello che si è creato sin dai primi giorni con i fornitori, andandoli a trovare, incontrandoli e conoscendo il loro mestiere da vicino, condividendo qualcosa oltre al fatto puramente lavorativo: «Ci recavamo dagli artigiani, dove c'erano le greggi, talvolta compravamo prodotti "alla cieca", per assaggiarli ed immaginare il loro impiego: a chi sarebbero potuti piacere e perché. Abbiamo scoperto in questo modo quel miele alle erbe prodotto in altura, che ancora oggi vince svariati premi: vengono utilizzate piante selvatiche, dal perastro alla rosa canina, che conferiscono un sapore balsamico, puro. Un manifesto della diversità botanica che nel Pollino è enorme». Nel tempo, ovviamente, qualcosa è cambiato, il lavoro è aumentato e certe pratiche non sono più possibili, ma la spinta ideale è la stessa, la "vibrazione" è la medesima. Il "Pollino Bike Festival", dal 14 al 16 giugno, ne è una prova: incontrarsi, pedalare assieme, scoprire, divertirsi, fare un aperitivo in una cornice meravigliosa, esporre le proprie idee, condividerle, ascoltare ed imparare, poi tornare a casa e applicarle, progettare ancora: a questo serviranno gli Stati Generali degli operatori della Ciclovia dei parchi. Sempre con addosso il senso di responsabilità verso un paese, una terra, una generazione e tutte quelle che la seguiranno. Così, insieme alle biciclette, circoleranno le idee, si connetteranno le persone.

Foto: Stefano Contin

Non sappiamo se e quando Giovanni tornerà in sella. Sappiamo che lo vorrebbe, l'abbiamo scritto, ma conosciamo anche qualcosa in più, ovvero quanto Gagliardi creda nella spinta di una bicicletta. Sì, quella che si attua sui pedali per fare un metro in più, in salita, magari, su pendenze arcigne, in cui quella spinta e la volontà di completarla sono tutto. La voce di Gagliardi ora è piena di vigore, decisa, come quella di chi sprona qualcuno a cui tiene, a cui vuole bene: quel qualcuno è proprio la sua terra. «Mi piacerebbe che Catasta Pollino potesse diventare un punto di riferimento per il sud. Ancor prima, però, vorrei che cambiasse qualcosa nella mentalità. Alcune volte crediamo che, dove le cose vanno bene, ci sia solo un politico a farle funzionare. Ora, sia chiaro: la politica è importante e ha un ruolo decisivo, ma non dipende tutto dalla politica. Abbiamo una grande possibilità con i nostri comportamenti e con ciò a cui tendiamo. La sensazione è che, spesso, sembriamo aver smesso di desiderare, di voler costruire qualcosa, di volerlo cambiare, magari. Il punto è che, se non ci muoviamo noi, se non inneschiamo noi l'azione, non accadrà mai nulla. Non è facile restare in Catasta Pollino, andare avanti, ma, se non teniamo la posizione, cosa accadrà?». La risposta è sottintesa, come è sottinteso il fatto che Gagliardi, Laiacona, Sabatella e Senatore non hanno alcuna intenzione di tirarsi indietro.

Foto in apertura: Alessandro Molinari da Catasta Pollino, Facebook


Teste di stoccafisso

Un giorno, durante questo Giro d’Italia, la maglia rosa mi ha mentito. Parte della mia domanda su cosa ne pensasse delle tante attenzioni ai media gli ricordava che, qualche giorno prima, entrando nel truck della conferenza stampa disse: «fucking disaster». Aggiunsi che lo capivo, che magari aveva ragione in toto, ma al Tour de France ci sono molti meno giornalisti? Pogačar rispose che no, non l’ha mai detta quella cosa, non fa proprio parte del suo vocabolario. «Semplicemente quel giorno feci sei interviste, quattro volte in mixed zone», semplicemente era stufo.

Lo era anche ieri, la prima e ultima volta che ho seguito la sua conferenza stampa da remoto. Non ne poteva più e si vedeva: è uno che, se potesse, correrebbe in bici e basta. Ma se ho riportato quella sua innocente bugia è perché Pogačar in conferenza stampa è stata di gran lunga la situazione che più ho fotografato in questo Giro d’Italia. Ogni giorno, una foto: cambiava solo la scritta in alto, con la località di arrivo.

Ne ho fatte molte altre, in realtà, di foto. A dir la verità, pure troppe. Altroché rullino, Polaroid, scegliere il momento esatto: io ne scatto un casino e poi, a fine giornata, spero di trovarne almeno un paio decenti. Ne ho scelte cinque, che non rappresentano il Giro d’Italia in senso assoluto, ma sono un buon riassunto del Giro mio.

5. Ripresa anche dai social del Giro d’Italia, una foto con la maglietta del fan club di Marco Frigo. Chi me l’ha procurata, e fatta autografare dallo stesso Frigo, è Linda Fachinat, che ai social del Giro lavora. Tutto questo alla tappa uno: inizio col botto.

4. Uno dei pochissimi selfie che mi sono scattato nella mia vita, ma l’occasione era troppo ghiotta. Faccia che non volete vedere, location cinque stelle: il palco del “Processo alla tappa”, allestito a Fossano sebbene deserto causa sciopero Rai. Beppe Conti perdonami!

3. Un primo piano scattato dall’ascoltatore di Gironimo, Pierluigi, mentre mangio. Incontrato salendo verso Prati di Tivo, Pierluigi ha fermato il furgone di alvento per consegnarci parecchie fette di una crostata preparata dalla madre. Dimostrazioni d’affetto più grandi è impossibile trovarne.

2. Una panoramica degli interni del salone “Lo stilista dei capelli”, barbiere di Torre del Greco (località Leopardi, per la precisione) da cui sono stato per un taglio netto a barba e capelli. Non mi era mai capitata tale incombenza durante il Giro d’Italia: Salvatore ha fatto un lavoro alquanto soddisfacente.

1. La foto ad un comunicato trovato nella sala stampa di Bassano del Grappa, firmato dalla “Compagnia dei canevaroli della terra di Bassano” e intitolato “Il Giro del mondo del baccalà”. Mi sembra il caso di chiudere questa rubrica dalle strade del Giro parlando proprio di stoccafissi e altre storie piccole e provinciali, o grandi e straniere, inutili magari. A volte il Giro d’Italia sa essere tutte queste cose. (Se fosse per caso uno scherzo, volto magari a prendere in giro il Delfino di Bibione Franco Pellizzotti o chissà chi altro, beh, molto divertente).

«Con la manifestazione Stock Bridge 2024 si è dato convegno a Bassano del Grappa il 17-18-19 u.s. [acronimo di, ho appreso, mese ultimo scorso] il variegato mondo dello stoccafisso internazionale, con presenze inedite e impensabili. Oltre a quelle di tutta la penisola, dalla Calabria al sud Tirolo, ci sono state presenze del popolo Sami, più noto come “il popolo delle renne”, e finalmente conosciuto come produttore di ottimi stoccafissi, e della Nigeria, numero uno mondiale tra i consumatori di teste di stoccafisso, con cui si prepara la zuppa nazionale, l’ogbono. Per salvare e valorizzare queste tradizioni, Bassano è stata scelta – anche per il significato simbolico del suo "Stockbridge" – come sede del secondo “International Meeting for Stockfish Heritage”, che approda qui dopo essere stato convocato a Cittanova Calabra nel 2023. Il riconoscimento UNESCO che il gruppo persegue potrebbe salvare le variegate tradizioni locali che sono minacciate dalla voracità delle grandi organizzazioni multinazionali produttrici di bastoncini di merluzzo».


Aspettiamo un altro maggio

La città di Roma è suono, rumore, movimento, da sempre e anche nell'ultimo giorno di questo Giro d'Italia. Un suono diverso perché si tratta delle biciclette e della loro velocità, dei ciclisti e del loro dinamismo. Provate a visualizzare l'omonima opera di Umberto Boccioni: in quel "tornado" di colori e linee potete vedere qualcosa di simile a quello che è una volata. Solo che le biciclette sono tante, sulle pietre, vicino al Colosseo, "imbizzarrite" nell'ennesimo esercizio che ha a che vedere con il caos e con la perfezione. Il caos delle ruote che girano, dell'aria che sfregiano, dei pedali che innescano il movimento, ma anche delle voci, delle grida, delle mezze parole urlate per dire di aumentare il ritmo, di aspettare, di spostarsi, dei freni. La volata è un lampo, qualcosa che trafigge, pure la bicicletta lo è. Curzio Malaparte diceva che una bicicletta «in silenzio trafigge lo spazio, in silenzio penetra nel tempo», manca solo il silenzio, ma accade tutto questo negli ultimissimi metri della festa di maggio.

Tim Merlier supera Jonathan Milan, ma che numero ha fatto Milan, pur aiutato dalla scia delle ammiraglie, in coda al gruppo, nell’inseguimento. Perché, nemmeno nell'ultimo giorno, il ciclismo scaccia le sue componenti: fortuna e sfortuna, non avventura ma "ventura", ovvero quel che si trova, quel che capita. Hanno a che vedere con il fatto che si è in strada e se si può avere la meraviglia di vedere il Colosseo, dopo più di tremila chilometri, voltando il viso, d'altra parte si può restare appiedati e dover inseguire, quando mancano otto chilometri e mezzo al traguardo ed il gruppo è un razzo innescato. Riparte, Milan, ed è tutta grinta, potenza, watt, energia che si libera. Le "linee" di Boccioni, ora, sono le linee del suo treno, con cui si ricongiunge ai quattro e mezzo dall'arrivo e risale il gruppo, torna in testa, si prepara alla volata, come nulla fosse successo. Sono dei folli, nel senso migliore del termine, i ciclisti, degli equilibristi senza rete. Come tutti i giorni, pure nell'ultimo, l'energia che se ne va non ritorna, e la vittoria se ne va con lei, secondo.

Dapprima è giornata di foto ricordo, di bollicine in un bicchiere, di brindisi, di sfilate in testa al gruppo. Il giorno in cui anche gli ultimi possono dirsi: «Sono stato bravo, ho concluso qualcosa che avevo iniziato e l'ho fatto senza che nessuno lo notasse, senza altra ricompensa che l'aver fatto il proprio dovere». Non sono eroi, i ciclisti, fanno il proprio dovere, il proprio lavoro, giusto dirlo, e sono i primi a dirlo, ma anche in questo, quando lo scopo è solo arrivare al traguardo, è più difficile. Tra le sfilate in testa al gruppo, un allungo emoziona più di altri, quello di Domenico Pozzovivo, all'ultimo ballo, mentre saluta il pubblico, con lentezza, a godersi ogni istante, e taglia per primo il traguardo di Roma. Un simbolo. Si saluta quando si parte, si saluta quando si arriva: quello di Pozzovivo è un arrivo e una partenza. Sa che le sensazioni del ciclismo sono difficili da provare altrove, ma è anche certo del fatto che ci sia tanto altro da conoscere, da studiare. Che è possibile emozionarsi tanto anche per cose infinitesimali, non serve l'immenso, non serve, per forza, l'impresa.

Questo Giro d'Italia ha coniugato entrambi gli aspetti, nel suo vincitore, Tadej Pogačar, autentico dominatore, capace di gentilezza rara. È stato il Giro d'Italia di Alaphilippe e Maestri: il primo ha vinto, il secondo no, ma era felice lo stesso. Tanto quanto Alaphilippe? Non si misura la felicità, dove non c'è, c'è semplicemente altro. "Paperino" Maestri era entusiasta, stupito, meravigliato. È stato il Giro della fuga che beffa il gruppo e arriva, e anche del gruppo che beffa la fuga, ma questo accade più spesso. Delle velocità supersoniche di Filippo Ganna a cronometro e pure di un pianto per il ritorno alla vittoria, per lo sfogo della tensione e della pressione. Di Giulio Pellizzari che ha mostrato il suo talento e un pizzico di futuro. Di Geraint Thomas e di una birra, fresca, dopo aver salvato il podio, nel giorno del suo compleanno, a trentotto anni.

È stato il Giro di tanti altri che è impossibile nominare, almeno qui. Anche se, tempo fa, un corridore ci ha espresso il desiderio che possano venire raccontate tutte le storie del gruppo, dei più di cento atleti al via di una corsa e noi quel proposito lo condividiamo. Tuttavia servirà tempo e spazio, proveremo a prendercelo. Già scandire almeno una volta il nome di ognuno sarebbe bello, importante, per quel sogno.

Pochi giorni fa, Marco Pastonesi narrava del giorno in cui Anna Maria Ortese partì per il Giro d'Italia del 1955 e si trovò a salire in auto con Vasco Pratolini. Pratolini la avvertì: «Guardi che non si vede niente», lei disse di saperlo e salì in auto. In effetti, è vero: sulla strada si vede ben poco, a livello temporale, qualche frazione di secondo. La visione di insieme si ha meglio da un televisore, eppure la gente corre fuori dai portoni e si affaccia alle finestre per Il Giro. In strada si vede altro e Ortese lo raccontò: «Ricordiamo certe facce pallide e impazzite di dodicenni, gli occhi bruciati dall’attesa, e le mani ansiose di quell’età aprirsi un varco nella folla, buttarsi avanti con un nome, che era Coppi, o Fiorenzo Magni, o Gastone Nencini, e ritornare nell’ombra, le mani al petto, stupiti. Ricordiamo donne vecchie piangere e ridere come guardando figli. Ragazze portarsi avanti, e splendere amorosamente nella fronte e negli occhi […] E uomini […] guardare ai corridori, quando apparivano, come a fortunati e cari fratelli. E c’era tutto in quegli occhi […] ogni condizione umana, ogni desiderio, e anche stanchezze formidabili e sogni finiti per sempre». Non aggiungiamo altro, sarebbe superfluo. Aspettiamo un altro maggio, per ripartire con il Giro: di strada o di fantasia.

Foto: SprintCyclingAgency


Giulio Peter Pan

Che roba, la faccia di Giulio Pellizzari all’arrivo. Incredula, esterrefatta, sfiancata: si è già buttato contro le transenne, schiena dritta e gambe stese, per recuperare dallo sforzo. Chissà cosa gli passa per la mente. Forse non lo sa neanche lui. Si porta le mani al volto e per un po’ sbuffa senza alzare lo sguardo.

Tira il fiato, ma come ha fatto per tutto questo Giro d’Italia ha voglia di dire delle cose e lo fa nell’unico modo che un ventenne come lui conosce: spontaneo e diretto. Non aspetta nemmeno tanto tempo prima di accettare che gli vengano poste domande, alle quali risponde. Sul disegno della tappa: «Durissimo scalare il doppio Grappa, ma sono le salite che piacciono a me». Su quell’avversario che gli ha soffiato due volte il sogno: «Senza Pogačar avrei due vittorie al Giro, ma va bene così. Quando mi ha passato ha detto “vienimi dietro”, ma saliva a 600 watt, impossibile stargli a ruota».

Un giornalista – con poco tatto a mio parere, siccome il povero ragazzo aveva appena finito uno sforzo enorme e arriva dalla settimana più bella e importante della sua pur giovane carriera – gli chiede in cosa può migliorare. Sai mai che se la possa godere, una tappa come quella di oggi: eh no, gli va subito ricordato che DEVE rimanere coi piedi per terra, continuare a lavorare sodo e soffrire. Pellizzari però ha più pazienza di me, e risponde: «Devo migliorare in pianura, perché quando gli altri fanno grandi velocità a inizio tappa, 60 all’ora o roba così, io soffro ancora. Ho gambe piccole (ride)». E poi parla, parla ancora: di quando tornerà al suo paesino e ci sarà la festa del paese, a cui lui andrà per la prima volta perché non gli era mai capitato di non essere in giro per il mondo a correre in bicicletta. Finite le domande (dalla prima all’ultima saranno passati cinque minuti buoni), si rialza. Tiene in mano una borraccia da cui ha finito di ciucciare (anche in questo è bambinesco Pellizzari) ma, notata una piccola tifosa sulle spalle del padre oltre le transenne, gliela passa. Avrà imparato da Pogačar.

Nessuno di questi, comunque, è il motivo per cui Giulio Pellizzari è l’MVP romantico di questo Giro d’Italia. Il marchigiano fu il primo, sul San Vito, a rispondere al primo attacco di Pogačar a questo Giro d’Italia. Già il giorno dopo, a Oropa, sentivo che col suo meccanico lamentava problemi allo stomaco. Non è stato bene più o meno fino a Livigno, a metà seconda settimana voleva tornarsene a casa. Eravamo sul traguardo di Francavilla al Mare quando mi disse chiaro e tondo che se dipendesse da lui sarebbe già gambe all’aria sul divano.

Poi sono arrivati i monti Pana e Grappa. (Potrebbe fare bene anche su salite che non portano nomi di cibi, in futuro). Non ha vinto Pellizzari, ma ha dimostrato «una forma di arte più elementare, ancora grezza e informe, però pura», come ha detto Leonardo Piccione nella ventesima puntata di Gironimo: l’arte dell’attaccare all’arma bianca e dell’inseguire a cuore aperto.

Nessuno di noi ha mai corso il Giro d’Italia, nessuno di noi ha mai avuto le gambe di Giulio Pellizzari. Ma tutti abbiamo vissuto, almeno una volta, un irresistibile richiamo di libertà. Mollare tutto e andarsene, senza pensarci troppo su. Nel provare a tenere testa a Pogačar, Pellizzari questo ha fatto: riportarci tutti ad una condizione primigenia, farci dimenticare per qualche minuto i pensieri di tutti i giorni.

Invecchierai anche tu, Giulio, e diventerai più assennato. Andrai in una squadra World Tour, ti faranno fare classifica generale, magari pure il gregario. A noi, invece, piacerebbe che tu possa rimanere un eterno Peter Pan, affinché tu ci possa regalare altri pomeriggi smemorati e fanciulleschi.


Pelayo Mayonese

La fortuna del fare interviste per un podcast è che le devi registrare. Una volta messo il microfono sotto la bocca del ciclista, raccolta quindi la sua viva voce, la si riascolta per metterla nella puntata, trascriverla o chissà che altro. Rimane comunque un file da poter maneggiare a piacimento: lo si può riascoltare la millesima volta per capire meglio una risposta, montarla, tagliarla.

Mi sono capitate entrambe le cose a questo Giro d’Italia. Durante un’intervista con Ben O’Connor, l’australiano di Subiaco mi aveva parlato del nome della sua gatta, Nala, ma con una parlata così stretta che non avevo afferrato il riferimento fatto da lui stesso al Re Leone. È servito l’aiuto dei compagni di podcast per decrittare l’arduo accento australiano. Stagliuzzare, invece, si è reso necessario ieri. A Pelayo Sanchez al mattino avevo chiesto come mai si chiami “pelayo_mayo” su Instagram, forse ti piace la maionese? Lui mi risponde che no, Mayo Sanchez è il suo cognome completo. Mi sarei sotterrato con le mie stesse mani, altroché maionese.

Per fortuna i ciclisti non sono tipi che se la legano al dito. Quindi Pelayo, dopo essere andato in fuga ieri, dopo aver centrato un gran secondo posto a Sappada, dopo aver risposto alle domande di tantissimi giornalisti ispano-hablanti tra cui Alberto Contador, ha risposto anche ad un paio di domande mie. Soprattutto, gli ho fatto presente che tanti tifosi italiani iniziano ad amarlo e a riconoscerne lo stile spregiudicato e generoso: è uno che lascia sempre il cuore per strada, Pelayo. Lui mi risponde che sì, è vero, «mi piace arrivare vuoto al traguardo», come se non conoscesse altro modo di correre.

Poi aggiunge: «Il mio idolo, “El Tarangu”, anch’egli asturiano, ha sempre fatto benissimo al Giro d’Italia, quindi voglio fare come lui». Fantastica risposta, tuttavia capisco mele per pere: giro mezza sala stampa a chiedere chi fosse tale Taramu, neanche l’addetto stampa della Movistar, Adrià, aveva capito. Scopro infine che il soprannome “El Tarangu” apparteneva a José Manuel Fuente, corridore di cui ignoravo qualsiasi cosa prima di ieri pomeriggio. Correva negli anni Settanta e ha vinto per quattro volte consecutive la classifica di miglior scalatore al Giro.

Qui sta la questione più significativa: se correva negli anni Settanta, è impossibile che Pelayo lo abbia visto dal vivo. Quindi Pelayo conosce la storia del ciclismo! È andato a cercare, si è interessato al passato, sebbene si parli di un ciclista della sua regione. Magari conosce altri soprannomi di corridori del passato, e magari anche lui fa ricerche su Google tipo “migliori soprannomi ciclisti” e si trascrive i preferiti, tipo “Il Grillo” o “Tashkent Terror”.

Tutte queste congetture mi fanno stare particolarmente simpatico il buon Pelayo. Direi anzi che è la più bella scoperta fatta in questo Giro: un corridore genuino, tanto sulla bici quanto fuori, che dedica la stessa attenzione alle risposte da dare a Contador o a Gironimo, un podcast in italiano che non ascolterà mai. In poche parole, Pelayo è uno giusto.


Il Joker non è un film

Parte la musica: è Space Oddity, di David Bowie. La Torre di Controllo sta chiamando il Maggiore Tom, gli sta ricordando di prendere tutto il necessario, di mettere il casco. In sottofondo, un conto alla rovescia, dal numero dieci all'uno, fino al via, al "lift up", il decollo. Cambia il suono, pare davvero di essere nello spazio, nel vuoto, liberi da tutto il resto. "Ce l'hai fatta", dice la Torre di Controllo, mentre il Maggiore Tom apre la porta, lascia la capsula ed inizia a galleggiare nel modo peculiare degli astronauti e le stelle sembrano diverse, oggi. Da Mortegliano a Sappada, la diciannovesima tappa del Giro d'Italia, è storia di altezza e solitudine. L'altezza parla del campanile di Mortegliano, 113 metri, il più alto d'Italia, l'altezza parla di ogni strada che sale, delle montagne, l'altezza è dove, volenti o nolenti, ci si ritrova soli, magari con qualche vertigine e qualche timore. Se non in vetta, lungo il percorso per arrivarvi. Come il Maggiore Tom, come Rocket Man, di Elton John, per cui è un lungo viaggio, per cui la scienza è solo un lavoro, cinque giorni alla settimana e Marte non è un posto ideale per crescere dei bambini, con un freddo da inferno. Come Andrea Vendrame, arrivato in solitaria a Sappada, dopo un attacco in discesa, sotto la pioggia, staccando i compagni di fuga, Alaphilippe, Narváez, Steinhauser, su tutti. Ha rischiato in discesa, ma l'abbiamo detto: si può restare soli, verso l'alto, si può avere paura verso l'alto e forse ancor più coraggio. Andrea Vendrame ce l'ha fatta: non galleggiava nello spazio, pedalava su una bicicletta, sull'asfalto verticale, perché i ciclisti sono gente di terra e lo spazio lo hanno magari sulle maglie. La maglia di Vendrame lo evoca.

Non è stato facile farcela. Non è stato facile e non parliamo solo di oggi. Ci riferiamo al periodo in cui non riusciva a passare professionista, ci riferiamo alla sua voce quando parla di quei tempi. Il suo soprannome è "Il Joker" perché quello è il suo film preferito, ma la quotidianità non ha copione, non ha riprese, non ha pause, non ha un regista che seleziona le inquadrature ed i particolari da mostrare: si vede quel che si vede, si sente quel che si sente e certe volte non piace, ferisce. A Vendrame è accaduto: nel corpo, nelle cadute, nell'animo, nelle parole di chi, magari, non ci crede più, non ti crede più. La tappa è passata da Peonis, il luogo in cui è mancato Ottavio Bottecchia, a proposito di dolore: un muratore, un carrettiere di legname, che, dopo la sofferenza, sale in bicicletta e vince il Tour de France per due volte. Per dire che, poi, agli esseri umani è sempre successo, sempre succederà, ma, come ha detto stamani Alessandro De Marchi in un'intervista può bastare un attimo di felicità o di vicinanza a quella felicità, di bellezza, insomma, per salvare da tante brutture.

Andrea Vendrame continua a guadagnare: venti, trenta, quaranta secondi, sfiora il minuto, lo oltrepassa. La sua "Torre di Controllo" è l'ammiraglia, che lo segue da vicino, lo rifornisce, lo incita. Il Maggiore Tom diceva di essere tranquillo, nonostante una lontananza abissale, fino a perdersi nello spazio. Andrea Vendrame non può essere tranquillo fino all'ultimo, perché la strada è fedele e infida allo stesso tempo, dipende dalle vicende di chi la attraversa. Qui, poi, a Sappada, parlano tutti di tradimenti: quello fra Roche e Visentini, in particolare. Tradimento che è, alla fine, restare soli e dover proseguire. Oggi non ci sono tradimenti, c'è, anzi, il gesto di Pogačar che attende Geraint Thomas, dopo una caduta. Ma noi siamo davanti, siamo, umanamente, con Vendrame. Chissà quale è stato il momento esatto in cui dall'ammiraglia hanno capito che ce l'avrebbe fatta: "i giornali vogliono sapere", diceva la Torre di Controllo.

I giornali vogliono davvero sapere, adesso, mentre Andrea Vendrame ritrova il contatto con l'ammiraglia: cerca il direttore sportivo, lo aspetta, gioisce, gli stringe la mano, poi va verso il traguardo, invitando ad un applauso, al rumore, alla voce, le tante persone che aspettano ai bordi della strada, in una montagna piena, riempita. In una montagna che per un giorno ha smarrito il silenzio. Andrea Vendrame lo vedono e lo sentono tutti: prima piegato sulla bicicletta, dopo poco a terra, piange. I giornali ne stanno già parlando e continueranno a farlo. "Ce l'hai fatta" dicono tutti, Vendrame si rialza, parla e le lacrime gli gonfiano gli occhi. Il Joker ha fatto un numero. Sì, non è un film, è la realtà, ma se l'avesse pensata un regista non sarebbe poi venuta tanto diversa. I ciclisti non si "perdono" nello spazio, si "perdono" e si ritrovano in attimi così, fuori dal tempo. La musica riparte: siamo lontani da tutto, siamo contenti.


Andiamo avanti, le montagne attendono

Sul traguardo di Prato della Valle, ieri, 89 ciclisti sono stati accreditati dello stesso tempo: quello di Tim Merlier, il vincitore. Appena meno, 88, erano le statue secondo il disegno originario, disposte in due ovali concentrici attorno l’isola Memmia. (Fa ridere, peraltro, chiamarla isola: è separata dal resto della città da un canale risibile). La disposizione di queste statue è cambiata parecchio nel 1797, quando Napoleone distrusse sei statue di dogi veneziani e ne ricollocò tante altre. Difficilmente i velocisti ieri hanno potuto ammirarne le fattezze, ma le storie dietro alcune statue sono davvero incredibili.

Una rappresenta Antenore. Personaggio della mitologia greca legato a vari miti, Antenore si rifugiò in queste zone dopo la distruzione di Troia e non solo fondò Padova, ma secondo la leggenda è pure il capostipite dei veneti. Pare si chiamasse Antenorea, una volta, Padova. Quale ciclista del Giro d’Italia sarebbe Antenore? Alessandro De Marchi? Non lo so, andiamo avanti.

Un’altra statua raffigura Tito Livio. Le leggende riguardanti Antenore di cui sopra sono state, per buona parte, scritte da lui. È una verità storica, però, che Tito Livio sia patavino: nacque qui prima della nascita di Cristo e morì qui 2007 anni fa. Con Tacito è considerato il più grande storico dell’antica Roma. Quale ciclista del Giro d’Italia sarebbe Tito Livio? Domenico Pozzovivo? Non lo so, andiamo avanti.

Un’altra statua è Petrarca. Non serve presentarlo qui, l’autore del Canzoniere, il precursore dell’Umanesimo, l’inseguitore di Laura come il gruppo fa con la fuga. Nacque in Toscana, ma morì in un posticino sui Colli Euganei che ora porta anche il suo nome. Quale ciclista del Giro d’Italia sarebbe Petrarca? Romain Bardet? Non lo so, andiamo avanti.

Statua è anche Galileo Galilei. Altro fenomeno pazzesco, altro nativo della Toscana, il padre della scienza moderna a Padova ha scoperto le fasi di Venere e ha dato un nuovo volto alla Luna. Fu il primo a vederne ogni fosso e ogni montagna, chissà magari se avesse saputo del Giro d’Italia avrebbe studiato qualche percorso intrigante. Quale ciclista del Giro sarebbe Galileo? Tadej Pogačar? Non lo so, andiamo avanti.

Un’ultima statua riproduce Cesare Cremonini. Non il cantante contemporaneo, bensì il filosofo che visse a cavallo tra Cinque e Seicento. Si legge che, secondo una diffusa ma falsa narrazione, Cremonini fu uno di quei professori aristotelici che si rifiutarono, invitati da Galileo, di osservare direttamente nel telescopio l'esistenza delle montagne della Luna, delle fasi di Venere, dei satelliti di Giove. Una volta disse: «La filosofia è una mia vocazione, in essa sono totalizzato», o qualcosa del genere (non è facile tradurre dal latino dopo la mezzanotte). Quale ciclista del Giro d’Italia sarebbe Cesare Cremonini? Caleb Ewan? Non lo so, quindi finiamola.

E pensiamo a questi prossimi due giorni, finalmente. Gli ultimi due giorni di montagne al Giro d’Italia. L’abbraccio di Prato della Valle è stato tanto bello quanto fugace, e questo era solo un modo per salutare vecchi amici che immagino si sarebbero divertiti, a vedere Padova così festante. Ora però: andiamo avanti, le montagne attendono.


Sarà solo un dettaglio

A Fiera di Primiero c'è un cartello. Anzi, per dirla meglio: a Fiera di Primiero, i cartelli sono molti, come in ogni città toccata dal Giro d'Italia, ma noi ne notiamo uno in particolare. I cartelli sono tanti perché la gente ha voglia di parlare con i ciclisti del gruppo e le scritte sono un modo per farlo e per farlo in maniera universale: scrivere un nome ed un cognome è il modo migliore per arrivare dall'altra parte, per farsi capire da tutti, perché non serve traduzione, il pensiero arriva, è come sentirsi chiamare. Si scrive sulle strade oppure su un pezzo di carta o di cartone ed il messaggio è trasmesso, a qualunque distanza, quasi fosse un messaggio in una bottiglia, da un'isola lontana. Dicevamo, ne abbiamo notato uno, la scritta, colorata: "Sei il mio campione". Un adulto, una bambina, un numero, il dorsale, il 215, ed una bicicletta: nient'altro su quel cartello. A tenerlo fra le mani è un'altra bambina, la figlia di Andrea Pasqualon: il padre è in corsa al Giro d'Italia. Partiamo da qui, non solo perché la partenza è l'inizio della giornata, partiamo soprattutto da qui perché oggi, più che in altri giorni, molte cose che sembrano solitamente importanti, fondamentali, sono diventate particolari. Sì, quella bambina, con la parola "campione", intendeva solo in parte quel che intendiamo tutti: evocava quella tipologia di campione, certamente, colui che vince tanto, che vince spesso, magari corse importanti, ma parlava, in realtà di qualcosa di diverso, di un sentimento: quello che permette di vedere, di sentire, sarebbe meglio dire, attentamente quello che fanno le persone e di rendergli merito, di far davvero sfumare tutto il resto in un particolare.

Lo fanno quasi tutti i figli con i loro padri, ma non sono gli unici. Lo fa il gruppo con la fuga, quando la riprende ed in molti, se non si è in fasi concitate di gara, si voltano verso i fuggitivi per un complimento, un gesto di assenso, per dire "comunque bravi". Nelle retrovie accade spesso, succede fra gli ultimi, che magari faticano a tenere le ruote del plotone, ma nella fuga si riconoscono. Eppure, a guardare il risultato, sono più le fughe che non arrivano di quelle che arrivano, però l'abbiamo detto, alcune cose diventano dei particolari e si sente altro, si ascolta altro. È la storia, ancora una volta, di Mirco Maestri, Andrea Pietrobon, Filippo Fiorelli e Mikkel Honorè: i fuggiaschi della diciottesima tappa, verso Padova. Dicono che Honorè abbia sempre un libro a portata di mano e che i trasferimenti sul bus li impieghi studiando i luoghi in cui si arriva: in fondo, è un modo per rendere un dettaglio tante cose insormontabili, perché la stanchezza e la fatica, dopo tre settimane fanno assomigliare tutte le strade, fanno "pesare" di più qualunque gesto, persino il continuare a sperare, fondamentale per i ciclisti. A loro, quando mancano sessanta chilometri al traguardo, si aggiunge anche Edoardo Affini: un uomo pericoloso ciclisticamente parlando, uno di quelli che affronta il vento e spesso lo batte. Insomma, uno di quelli da non fare andare via. Il gruppo lo sa e agisce di conseguenza: si dice "tenere a bagnomaria", vuol dire controllare e aspettare, vuol dire soffrire.

Perché lo si fa? Forse perché pensando a quello che può succedere, la vittoria, pure quello diventa un dettaglio. Forse perché "essere in fuga al Giro d'Italia" è la situazione che tutti i ciclisti hanno sempre sognato e si farebbe a prescindere. Il resto, pur importante, diventa anche qui un particolare. C'è una visione di mezzo. Le persone a bordo strada seguono lo stesso principio: spesso le abbiamo viste assiepate in tratti in cui non c'era nulla, forse un distributore di benzina, in tratti in cui non sarebbe successo nulla, quasi certamente. Erano in una festa, in una celebrazione, il resto era un dettaglio di poco conto, pur se nella quotidianità non si sceglierebbe quel posto per aspettare, in una giornata dalle nuvole pazze. Tim Merlier, "il Mago", soffia a Jonathan Milan il poker, in questo Giro d'Italia. Lo fa in una volata confusa, frenetica, dove i particolari sono realmente il centro del mondo, dove in un attimo si perde la ruota del proprio "treno" e tutto diventa più difficile, mentre Simone Consonni cerca invano di ristabilire il contatto, di riagganciare il legame. Si lancerà da solo, fra le insidie di un gruppo al massimo dello sforzo, e centrerà il secondo posto: deluso, come lo è un velocista quando non vince. Seduto accanto a una transenna verrà consolato, occhi negli occhi: il tutto di un ciclista, il disappunto per un risultato, è in fondo un particolare per chi lo aspetta a fine tappa e pensa alle insidie di una giornata, di una volata.

Alberto Dainese è senza parole accanto a un'altra transenna: quarto posto, il miglior piazzamento di tutto il Giro d’Italia, come a Napoli ma oggi è peggio. Perché si è più vicini a casa e perché le occasioni, avvicinandosi alla fine sono meno, sempre meno e per un ciclista è sempre più difficile. Ora quella delusione occupa l'intero suo universo, chissà che fra qualche tempo non diventi un dettaglio di una giornata in cui era lì a giocarsela. Le cose cambiano di peso con il tempo, per questo vanno avanti gli uomini, per questo vanno avanti le biciclette.


Chissà se vedremo mai Evil Pogi

È dalle prime tappe di questo Giro d’Italia che coltivo, in silenzio, un sogno. È una piccolezza, riguarda più che altro le sfumature psicologiche e comportamentali di un ragazzo che, da diverse ore, è diventato il ciclista in attività che per più giorni ha indossato la maglia rosa. Inutile girarci attorno, lo esprimo così come lo vorrei, questo desiderio: mi piacerebbe che Pogačar diventasse cattivo. Niente di che eh, chiariamoci: non diventi violento, aggressivo; ma abbiamo bisogno – se posso parlare per noi tutti amanti del ciclismo – di un personaggio cattivo di primo piano, di uno che sia al contempo fortissimo e possa risultare indigesto ai più.

In parte, i panni di antagonista (al bene cosiddetto, alle tradizioni, al Vero Ciclismo) sono stati affibbiati a Remco Evenepoel. Il carattere fumantino del belga – sempre sia benedetto – da solo non basta. Più che realmente cattivo, Remco è impulsivo: io vorrei un cattivo vero. Uno che conosca bene e male e scelga con coscienza, se non il male, quantomeno il non-bene. Uno che, tanto per cominciare, sbatta in faccia a tutti la propria superiorità. In questo Giro d’Italia, Tadej Pogačar lo sta facendo solo in parte.

Ieri, per esempio, poteva vincere e non ha voluto. Perché? Ha fatto i complimenti a Steinhauser per il coraggio e la caparbietà di riprovarci una volta riassorbito il primo tentativo, è rimasto sulle ruote del trenino Ineos finché è durato, ha voluto seguire Dani Martínez finché il colombiano ha avuto coraggio. Poi basta. Perché, Tadej? Chissà cos’hai pensato quando Ben Swift tirava il gruppo sull’ultima salita: avresti potuto fare un cenno al cameraman e fingere uno sbadiglio a favor di telecamera.

Che spettacolo strano che è stato, vederti trattenuto, dubbioso sul da farsi. Avrai pensato: «Posso dare due minuti a tutti anche oggi: lo faccio o no?». No, ti sei risposto. Poi però te ne sei andato comunque perché quegli altri andavano troppo piano per te. In qualche modo sei stato costretto a fare ciò che non volevi. Ti sei dimostrato il migliore tuo malgrado: non può essere questo il destino che spetta al corridore più forte del mondo.

Eri a mezzo metro da me ieri, Tadej, quando un bambino ha ricevuto in dono i tuoi occhiali rosa ed è scoppiato a piangere sul traguardo del Brocon. Altri ragazzini ti aspettavano oltre le transenne e li hai resi felici tutti: in questo non cambiare. Le corse, però, azzannale senza pietà, fai tuo ciò che il tuo talento reclama. Abbiamo bisogno di un campione cattivo, dicevo, perché di buoni ne abbiamo già tantissimi: dall’adone Mathieu van der Poel all’erculeo Wout van Aert, dal polivalente Pidcock al tormentato Vingegaard. Tutti personaggi che si ispirano o provengono dal macro-campo dei valori nobili, dal giardino del bene. Perdere contro un supercattivo sarebbe auspicabile anche per i buoni: «L’unica cosa che la gente ama più di un eroe è vedere l’eroe fallire, cadere, morire combattendo» diceva Goblin a Spiderman.

Pensa a quanto renderesti più vario il ciclismo, Tadej. La storyline del ciclismo mondiale sarebbe sconfiggere te, Joker che scherza gli avversari su ogni terreno. Allora sì che la sua trasformazione in villain diventerebbe definitiva. Diceva Ra’s al Ghul a Batman: «Se ti tramuti in qualcosa di più di un semplice uomo, se consacri te stesso a un ideale e se nessuno riesce a fermarti, allora diventerai tutta un’altra cosa. Una leggenda».


Quegli occhiali, quella maglia rosa: intervista a Giulio Pellizzari

Uno dei protagonisti di queste ultime giornate di Giro d'Italia è, senza alcun dubbio, Giulio Pellizzari. Lo abbiamo intervistato diverse volte durante il Giro e questo è quello che ci ha raccontato.

Giulio, come è stato esordire al Giro d’Italia?

Emozionante sin dalla prima tappa, non avevo mai visto così tanta gente. C’è tanto tifo, davvero tanto tanto tanto. Pedalare al Giro è incredibile.

In tanti parlano di te come una nuova speranza per il ciclismo italiano. Ti fischiano un po’ le orecchie?

Ma a dire il vero no. Sono tranquillo. Dormo benissimo!

Stai scoprendo tutto del Giro. Sei stato anche al Processo alla Tappa. Come è stato?

È una trasmissione che ho sempre guardato sin da ragazzino. È stata una bella esperienza, dai.

In gruppo hai anche tanti compagni giovani come te, si vede che già nelle categorie giovanili sono nate delle amicizie.

Siamo amici prima che avversari, ed è sempre bello ritrovarsi. E vanno tutti fortissimo, siamo una generazione forte.

Hai 20 anni e stai correndo il Giro con Domenico Pozzovivo che è il più esperto del gruppo.

È un grande. Ci insegna un sacco di cose, ci racconta tanti aneddoti. Ogni volta che parla c’è qualcosa da imparare. Siamo felici di averlo con noi.

Pozzovivo è anche una specie di guida vivente a ogni strada d’Italia. Tu hai una tappa in particolare che puoi dire già di conoscere bene?

Sì, quella che parte dalla Val Gardena, che inizia col Sella, poi Canazei. Prima del Giro sono stato a fare altura al Passo San Pellegrino e ho pedalato un sacco su quelle strade. Tranne il Brocon: quello l’ho fatto solo per un pezzetto perché stavano asfaltando la strada.

E in stanza con chi sei?

Con Enrico Zanoncello, il velocista più forte al mondo.

La prima parte di Giro non è stata facilissima per te, ora sembra che tu abbia recuperato.

Sì, nella prima settimana ho avuto un po’ di raffreddore e tosse, prima di Napoli. A Prati di Tivo mi sono ritrovato senza gambe. Ho provato a tenere duro ma non ce la facevo, così mi sono rialzato. Pensavo di aver recuperato nel giorno di riposo, ci voleva, con un’oretta di pedalata e una pausa bar per un bignè al pistacchio e un cappuccino. Invece anche la seconda settimana è stata ancora difficile. La sera dell’undicesima tappa ero già con un piede a casa: ho chiamato Massimiliano Gentili per dirgli che volevo ritirarmi. Invece grazie a lui, alla mia famiglia, a Leonardo Piepoli e alla mia fidanzata sono rimasto.

E alla sedicesima tappa, a Santa Cristina Valgardena, hai sfiorato la vittoria.

Al giorno di riposo di Livigno stavo molto bene, infatti la paura era di non sentirmi più così in forma il giorno dopo. Ma sono ripartito speranzoso. Me la sentivo da subito, e sono contento del mio secondo posto. È Massimiliano Gentili che mi ha detto di non mollare. Quel risultato lo devo a lui.

Alla prima tappa, invece, eri stato il primo a seguire l’attacco di Tadej Pogačar.

Sapevo bene che non l’avrei tenuto, però sono andato di istinto. Quando l’ho visto passare mi sono buttato dietro, ci ho sperato. È stata un’emozione forte, c’era un sacco di pubblico che urlava, avevo la pelle d’oca.

Come Icaro, a star troppo vicino al Sole (ovvero Pogačar), si rischia di bruciarsi. E rimbalzare.

Esatto. Stessa fine. Ma credo sia una fine comune a parecchi corridori. Ma almeno posso aggiornare l’album delle mie foto con lui. Ne feci una insieme già nel 2019, alle Strade Bianche: era la sua prima gara nel World Tour e io ero là come spettatore, con un amico. Già lo conoscevo perché avevo seguito la sua vittoria al Tour de l’Avenir. Al mio amico dissi: “fatti una foto con lui, che diventerà forte”. E il mio amico: “ma no, ma chi è questo?”. Fu divertente. Non c’era nessuno che lo cercava al bus oltre a me. Ci facemmo una foto insieme, e direi che ha portato bene.

Quando a Santa Cristina Valgardena l’hai visto arrivare cosa hai pensato?

Bastardo! Ancora lui! (ride). Avrei voluto vincere, ma andava bene così. È andata meglio che a Torino sicuramente, sono contento.

Ti ha regalato i suoi occhiali e la maglia rosa, dopo averti ripreso negli ultimi chilometri.

(Ride ancora). Mio fratello il giorno prima mi aveva scritto: "Trova il modo di rimediare gli occhiali di Pogačar". Così all’arrivo sono andato al gazebo delle interviste e glieli ho chiesti. Lui me li ha dati e mi ha dato anche la maglia. Gli auguro il meglio. È il migliore della storia.