La fortuna del fare interviste per un podcast è che le devi registrare. Una volta messo il microfono sotto la bocca del ciclista, raccolta quindi la sua viva voce, la si riascolta per metterla nella puntata, trascriverla o chissà che altro. Rimane comunque un file da poter maneggiare a piacimento: lo si può riascoltare la millesima volta per capire meglio una risposta, montarla, tagliarla.

Mi sono capitate entrambe le cose a questo Giro d’Italia. Durante un’intervista con Ben O’Connor, l’australiano di Subiaco mi aveva parlato del nome della sua gatta, Nala, ma con una parlata così stretta che non avevo afferrato il riferimento fatto da lui stesso al Re Leone. È servito l’aiuto dei compagni di podcast per decrittare l’arduo accento australiano. Stagliuzzare, invece, si è reso necessario ieri. A Pelayo Sanchez al mattino avevo chiesto come mai si chiami “pelayo_mayo” su Instagram, forse ti piace la maionese? Lui mi risponde che no, Mayo Sanchez è il suo cognome completo. Mi sarei sotterrato con le mie stesse mani, altroché maionese.

Per fortuna i ciclisti non sono tipi che se la legano al dito. Quindi Pelayo, dopo essere andato in fuga ieri, dopo aver centrato un gran secondo posto a Sappada, dopo aver risposto alle domande di tantissimi giornalisti ispano-hablanti tra cui Alberto Contador, ha risposto anche ad un paio di domande mie. Soprattutto, gli ho fatto presente che tanti tifosi italiani iniziano ad amarlo e a riconoscerne lo stile spregiudicato e generoso: è uno che lascia sempre il cuore per strada, Pelayo. Lui mi risponde che sì, è vero, «mi piace arrivare vuoto al traguardo», come se non conoscesse altro modo di correre.

Poi aggiunge: «Il mio idolo, “El Tarangu”, anch’egli asturiano, ha sempre fatto benissimo al Giro d’Italia, quindi voglio fare come lui». Fantastica risposta, tuttavia capisco mele per pere: giro mezza sala stampa a chiedere chi fosse tale Taramu, neanche l’addetto stampa della Movistar, Adrià, aveva capito. Scopro infine che il soprannome “El Tarangu” apparteneva a José Manuel Fuente, corridore di cui ignoravo qualsiasi cosa prima di ieri pomeriggio. Correva negli anni Settanta e ha vinto per quattro volte consecutive la classifica di miglior scalatore al Giro.

Qui sta la questione più significativa: se correva negli anni Settanta, è impossibile che Pelayo lo abbia visto dal vivo. Quindi Pelayo conosce la storia del ciclismo! È andato a cercare, si è interessato al passato, sebbene si parli di un ciclista della sua regione. Magari conosce altri soprannomi di corridori del passato, e magari anche lui fa ricerche su Google tipo “migliori soprannomi ciclisti” e si trascrive i preferiti, tipo “Il Grillo” o “Tashkent Terror”.

Tutte queste congetture mi fanno stare particolarmente simpatico il buon Pelayo. Direi anzi che è la più bella scoperta fatta in questo Giro: un corridore genuino, tanto sulla bici quanto fuori, che dedica la stessa attenzione alle risposte da dare a Contador o a Gironimo, un podcast in italiano che non ascolterà mai. In poche parole, Pelayo è uno giusto.