Che roba, la faccia di Giulio Pellizzari all’arrivo. Incredula, esterrefatta, sfiancata: si è già buttato contro le transenne, schiena dritta e gambe stese, per recuperare dallo sforzo. Chissà cosa gli passa per la mente. Forse non lo sa neanche lui. Si porta le mani al volto e per un po’ sbuffa senza alzare lo sguardo.

Tira il fiato, ma come ha fatto per tutto questo Giro d’Italia ha voglia di dire delle cose e lo fa nell’unico modo che un ventenne come lui conosce: spontaneo e diretto. Non aspetta nemmeno tanto tempo prima di accettare che gli vengano poste domande, alle quali risponde. Sul disegno della tappa: «Durissimo scalare il doppio Grappa, ma sono le salite che piacciono a me». Su quell’avversario che gli ha soffiato due volte il sogno: «Senza Pogačar avrei due vittorie al Giro, ma va bene così. Quando mi ha passato ha detto “vienimi dietro”, ma saliva a 600 watt, impossibile stargli a ruota».

Un giornalista – con poco tatto a mio parere, siccome il povero ragazzo aveva appena finito uno sforzo enorme e arriva dalla settimana più bella e importante della sua pur giovane carriera – gli chiede in cosa può migliorare. Sai mai che se la possa godere, una tappa come quella di oggi: eh no, gli va subito ricordato che DEVE rimanere coi piedi per terra, continuare a lavorare sodo e soffrire. Pellizzari però ha più pazienza di me, e risponde: «Devo migliorare in pianura, perché quando gli altri fanno grandi velocità a inizio tappa, 60 all’ora o roba così, io soffro ancora. Ho gambe piccole (ride)». E poi parla, parla ancora: di quando tornerà al suo paesino e ci sarà la festa del paese, a cui lui andrà per la prima volta perché non gli era mai capitato di non essere in giro per il mondo a correre in bicicletta. Finite le domande (dalla prima all’ultima saranno passati cinque minuti buoni), si rialza. Tiene in mano una borraccia da cui ha finito di ciucciare (anche in questo è bambinesco Pellizzari) ma, notata una piccola tifosa sulle spalle del padre oltre le transenne, gliela passa. Avrà imparato da Pogačar.

Nessuno di questi, comunque, è il motivo per cui Giulio Pellizzari è l’MVP romantico di questo Giro d’Italia. Il marchigiano fu il primo, sul San Vito, a rispondere al primo attacco di Pogačar a questo Giro d’Italia. Già il giorno dopo, a Oropa, sentivo che col suo meccanico lamentava problemi allo stomaco. Non è stato bene più o meno fino a Livigno, a metà seconda settimana voleva tornarsene a casa. Eravamo sul traguardo di Francavilla al Mare quando mi disse chiaro e tondo che se dipendesse da lui sarebbe già gambe all’aria sul divano.

Poi sono arrivati i monti Pana e Grappa. (Potrebbe fare bene anche su salite che non portano nomi di cibi, in futuro). Non ha vinto Pellizzari, ma ha dimostrato «una forma di arte più elementare, ancora grezza e informe, però pura», come ha detto Leonardo Piccione nella ventesima puntata di Gironimo: l’arte dell’attaccare all’arma bianca e dell’inseguire a cuore aperto.

Nessuno di noi ha mai corso il Giro d’Italia, nessuno di noi ha mai avuto le gambe di Giulio Pellizzari. Ma tutti abbiamo vissuto, almeno una volta, un irresistibile richiamo di libertà. Mollare tutto e andarsene, senza pensarci troppo su. Nel provare a tenere testa a Pogačar, Pellizzari questo ha fatto: riportarci tutti ad una condizione primigenia, farci dimenticare per qualche minuto i pensieri di tutti i giorni.

Invecchierai anche tu, Giulio, e diventerai più assennato. Andrai in una squadra World Tour, ti faranno fare classifica generale, magari pure il gregario. A noi, invece, piacerebbe che tu possa rimanere un eterno Peter Pan, affinché tu ci possa regalare altri pomeriggi smemorati e fanciulleschi.