Quando Diego Ulissi è salito sul terzo gradino del podio al Giro dell’Emilia, il 18 agosto, l’amarezza del suo sguardo offuscava parte della soddisfazione per i risultati, comunque soddisfacenti, che il corridore toscano stava ottenendo. Sempre lì, secondo, terzo, quarto, quasi il primo posto fosse maledetto. I ciclisti lo spiegano bene: quando manca sempre meno a raggiungere un risultato e non ci riesci, quella volontà, tendenzialmente, diventa una sorta di ossessione, accresciuta dal fatto che manchi poco. E, quando “un’ossessione” ti tormenta, diventa tutto più difficile, dentro e fuori. Dentro perché tutto ti ricorda che sei lì ma non sei primo, perché inizi a pensare a tutto ciò che avresti potuto fare diversamente (e sai bene quanto è inutile ma la tua testa è fatta così e devi conviverci), perché vorresti un pizzico di quel sollievo che viene dal vincere, magari vorresti dedicarla alle tue figlie quella vittoria, a tua moglie che è a casa ad aspettarti, di certo le tue braccia fremono per la voglia di essere gettate all’aria. Così quando vinci, come ieri, le lanci all’aria con tale forza che ti chiedi come facciano a non farti male. Ma è così, quando sei felice non fa male. Accade anche con gli abbracci. Fuori, invece è più difficile perché la gente non sa, festeggia, ride, ti ferma, ti chiede, ti cerca e tu vorresti stare un attimo da solo, per ripensare a dove hai sbagliato. Non puoi perché sei un uomo conosciuto, perché il ciclismo è una festa, perché loro, le persone, non hanno alcuna colpa dei tuoi malesseri.

Diego Ulissi era sul podio e nella testa, probabilmente, aveva questo quando una giovane mamma con una bambina in braccio lo ha chiamato: «Diego, Diego lanciaci il cappellino». Ulissi si è voltato di scatto, inizialmente serioso, ha guardato la mamma, ha guardato la bimba e ha sorriso: «Non posso, mi spiace». La giovane donna ha capito e: «Non preoccuparti, sarà per un’altra volta». Si è voltato e ha iniziato a scendere gli scalini del podio. Ha sorriso pur non avendone alcuna voglia, ha sorriso per chi lo cercava. Capite l’importanza di questo dettaglio? Creare un sorriso per non deludere, perché sai che gli altri vorrebbero questo da te, perché sai che gli altri possono essere felici anche solo per questo. Perché «quel ciclista, quella ciclista, mi ha sorriso, mi ha salutato». Non è poco. Non è nemmeno scontato. Si tratta di una capacità profonda e difficile da acquisire; la capacità di accantonare il tuo “malessere” per qualcuno che ti cerca e ti vorrebbe felice. Per qualcuno che è nel mezzo di una festa e tu non vuoi rovinare la festa di nessuno. Ti ricordi come facevano i tuoi genitori da ragazzino, quando, negli attimi di gioia, ti omettevano le brutte notizie per permetterti di ridere senza ombre. Un poco ti arrabbiavi perché volevi sincerità ma oggi li ringrazi perché risate del genere non sai quando le farai più. E vorresti tanto qualcuno a coprirti le spalle.

E non conta nulla il fatto che il cappellino non sia stato regalato. Non conta assolutamente nulla. Ci sono delle cose che non possiamo fare e di fronte a queste poche parole possono valere. Alle regole non si sfugge, per dignità personale prima che per timore della punizione. Anche di fronte a queste, però, possiamo scegliere il modo di porci con chi ce le chiede. Per una bambina rinunciare al cappellino del proprio idolo è un sacrificio pesante e i grandi dicano ciò che vogliono ma tengano fede a un dovere. Quello di scivolare sulle vite degli altri lasciando il minor peso possibile perché quelle vite hanno già le loro complessità e le loro pesantezze. Cose che non possiamo sapere, non possiamo nemmeno lontanamente immaginare e per questo non dovremmo giudicare. Una cosa però la sappiamo: per andare avanti gli uomini si aggrappano a tutto, ad ogni segnale impercettibile, anche a quelli a cui dicono di non credere. Ecco, abbiamo il dovere di dare qualche segnale di questi. Sempre. Anche e soprattutto quando non ne avremmo voglia e questo segnale servirebbe a noi. Non c’è altra possibilità per aiutarsi, a vivere e a magari a vincere.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto