Quello che ci ha mostrato l’altro giorno l’attacco di Damiano Caruso, oltre all’aspetto umano e romantico della sua storia, è come il ciclismo di oggi nelle grandi gare a tappe, stia provando a riscoprire l’importanza dell’attacco “da lontano” per risolvere una corsa.
Quell’azione ci ha insegnato come solo provandoci hai la possibilità di lasciare il segno nella storia di questo sport. Ci ha dato una lezione importante, quanto mai banale, ma persa in questi anni fatti di calcoli e tattiche conservative.
Torna valido di colpo il più elementare dei paradigmi ciclistici: se attacchi vinci, se resti in difesa è difficile combinare qualcosa, o, più semplicemente, è difficile anche solo entrare nel cuore pulsante del ciclismo: quello del tifoso. E Caruso, insieme a Bilbao, intuendo l’attacco di Bardet e compagni, ci ha dato una magistrale lezione.
Vero che, si difenderà qualcuno, l’attacco oggi può essere un boomerang ai fini della classifica, visti gli squadroni e la velocità contro cui bisogna combattere; attaccare vuol dire mettere a repentaglio il placido benessere e la sicurezza acquisita, persino quell’orrendo valutare così importanti i punti UCI, ma quando hai gli uomini giusti a disposizione come nel caso della Bahrain, attaccare non è solo spettacolo fine a se stesso. Non è puro esercizio di stile, ma è lungimiranza, sagacia, è mostrare capacità di interpretare la corsa. È sfidare la monotonia dentro cui cadono spesso i Grandi Giri.
Dall’ammiraglia Bahrain hanno visto bene, prendendo rischi e lo hanno fatto sin dai primi giorni quando ancora potevano contare su Landa, Mohorič e Mäder. E l’attacco dopo il San Bernardino è stato solo l’apogeo del loro Giro interpretato come meglio non si poteva, nonostante le sfortune.
Il punto è: Caruso poteva starsene tranquillo, podio ben saldo e magari provare a vincere la tappa sull’ultima salita, perché no? Perché attaccare in discesa seguendo due ottimi discesisti come Hamilton e Bardet, rischiando magari pure di scivolare a terra sui diversi tornanti bagnati?
La risposta la si trova nella bellezza del ciclismo, nel fascino ritrovato in un’azione partita da lontano che in un attimo cancella la calma apparente di una tappa altrimenti dal copione già scritto.
Si è mosso da lontano, impulso già vissuto in questo 2021 con altri protagonisti, o come tra Vuelta 2019 e Tour 2020 lo ha fatto senza timore Pogačar. Si basa su questo ideale l’attacco di Froome nel 2018. È con quell’azione che Froome è entrato nel cuore dei tifosi, più che con il suo nome scritto per quattro volte nell’albo d’oro del Tour.
Sembra così assurdo esaltare – a prescindere dalle storie di contorno – un attacco a 50 km dall’arrivo dell’ultima tappa di montagna, ma siamo stati abituati, in questi anni, a spettacoli deplorevoli in tal senso. A lunghe attese svanite in una nuvola di fumo. Diversi Tour de France ne sono l’esempio.
D’altra parte è quello che abbiamo visto fare a Yates e alla sua squadra che hanno preferito stare nascosti, salvo poi dare una mano veloce alla Ineos tra San Bernardino e Splügenpass. Viste le difficoltà di Martínez in discesa c’era la seria possibilità di provare a isolare Bernal, ma invece, per loro, è stata un’occasione persa. Poi certo: per attaccare servono le gambe oltre che il cuore.
Per il racconto (romantico) allora è stato meglio così: magari con ulteriore bagarre da dietro non ci saremmo goduti quegli ultimi chilometri di Caruso contro tutti, di Caruso spinto dal pubblico, di Caruso che vince facendoci vivere una giornata indimenticabile. Facendoci riscoprire per una volta il fascino dell’imprevedibilità perso nelle stagioni dei Grandi Giri: un altro insegnamento che ci hanno dato Caruso e il nostro amato ciclismo. Sperando che non resti solo una splendida eccezione, ma la strada da battere in barba a watt, calcoli, punteggi e piazzamenti. A volte quando si azzarda, si corre persino il rischio di vincere.
Foto: Bettini