Ci viene in mente quel 24 aprile del 2011 quando Philippe Gilbert vinceva la sua prima -che poi sarà l’unica e ci è sempre parso come uno scherzo del destino – Liegi-Bastogne-Liegi, battendo i fratelli Schleck. Frank ed Andy sul traguardo, nell’ordine.
Gilbert realizzava un filotto che non era proprio robetta da nulla o da tutti gli anni: Freccia del Brabante, Amstel Gold Race, Freccia Vallone e appunto Liegi nel giro di una decina di giorni.
«Scambierei quelle tre corse per vincere una Liegi» disse alla vigilia della corsa il ragazzo di Remouchamps, pochi chilometri dalla salita simbolo della Doyenne, la decana delle classiche; il figlio della Redoute, quello che vedeva il suo nome scritto per terra su quella storica “montagna” quando ancora non era nemmeno maggiorenne tanto che quella volta a darsi battaglia erano due tipi niente male come Bartoli e Vandenbroucke.
In quel 2011 segnato dal dominio nelle Ardenne, Gilbert vinse anche Strade Bianche, Gp Quebec, San Sebastian, campionati nazionali in linea e poi a cronometro, una tappa al Tour e una alla Tirreno, salì sul podio alla Sanremo e chiuse nei 10 il Lombardia.
Ci viene in mente quella volta, un anno dopo o poco più, quando con la maglia della sua nazionale attaccò sul Cauberg, partì e se ne andò lasciando per terra schiantati i suoi avversari: divenne Campione del Mondo.
Un Campione del Mondo belga sette anni dopo Boonen; e i suoi connazionali dovranno aspettare dieci anni esatti per vincere nuovamente il titolo: un legame tra due corridori che su strada hanno mostrato caratteristiche completamente differenti, ma uno spessore simile. Tra uno che, crescendo in bicicletta, guardava ammirato le sue imprese, e l’altro che, invecchiando, non nascondeva la stima per il giovane emergente. «Non potevo sognare di avere un successore più degno di te – raccontava Gilbert in un video su Youtube fatto durante un allenamento, poco dopo la vittoria di Evenepoel a Wollongong – È stato commovente, tanto che, devo ammettere, mi sono scese le lacrime quando hai tagliato il traguardo».
Ci potrebbero venire in mente altre mille occasioni: quella Roubaix nel 2019, quasi inaspettata, lui campione perlopiù da corse vallonate, da scatto bruciante al termine di uno strappo «Ho attaccato con Politt – dirà nella conferenza stampa al termine della gara – perché è fatto come me, non fa molti calcoli: è generoso e coraggioso, lo stimo molto. Oggi meritavamo entrambi la vittoria»; si potrebbe pensare al Fiandre del 2017 vinto dopo una lunghissima fuga (un po’ come quando vinse la sua seconda Omloop Het Nieuwsblaad, era il 2008, si fece cinquanta chilometri in avanscoperta) e l’arrivo in maglia tricolore con bici sollevata sul traguardo, a modo, si direbbe dei ciclocrossisti, in una di quelle giornate da racconto epico come il ciclismo spesso sa regalare senza andarsi a inventare chissà quali significati retorici dietro le azioni di un corridore. Gilbert che attacca, Boonen che corre l’ultimo Fiandre con una bici con telaio bianco e scritta in oro, Sagan, favorito e campione uscente, che cade nel finale dopo essersi impigliato a una giacca appesa su una transenna lungo l’Oude Kwaremont e rovina a terra portandosi dietro Naesen e van Avermaet e regalando così a Gilbert quel vantaggio di cui aveva certamente bisogno, in avanscoperta da troppo tempo, per completare l’opera.
Ha vinto ovunque e in ogni modo, ci sono stati dei momenti in cui pareva così dominante da farci dire: “Gilbert è il ciclismo” oppure “Gilbert può vincere a piacimento ogni corsa di un giorno a cui prende parte”. È stato una sorta di van der Poel ante litteram per la capacità di sprigionare potenza con un solo scatto devastante, ma anche di infiammare il cuore dei tifosi che ovunque, pure qui in Italia (ha vinto al Giro sul traguardo di Anagni nel 2009 e si è ripetuto due volte nel 2015), lo hanno amato.
Si potrebbe pensare ancora alle cadute rovinose, alla poetica del suo modo di attaccare o stare in bici, alla sua eleganza da re Vallone come spesso è stato chiamato, amato anche dai fiamminghi. Fatto tutt’altro che scontato.
Invece ci tocca pensare che nel week end che ha visto lasciare il ciclismo a Valverde, Nibali, Nieve, Kangert, Terpstra per fare giusto qualche nome di peso, anche il suo è stato scritto per l’ultima volta nelle liste di partenza di una gara di professionisti di quello sport chiamato ciclismo. È pensare a questo ci fa male, ma passerà. Almeno si spera. Altrimenti chiuderemo gli occhi e ci immagineremo ancora una volta il suo attacco quasi prepotente sul Cauberg con la maglia della nazionale belga, il cerotto al naso e i denti di fuori per lo sforzo, mentre dietro gli avversari arrancano, sfuocati sullo sfondo.