Tra le crepe dei sogni belgi
Chissà se i giganteschi troll di legno del parco di De Schorre, in Belgio, conoscevano già l'esito della gara. Ce ne sono sette, ma due in particolare sono interessanti, "Una e Jeuris" i loro nomi. Si dice siano raffigurati mentre sognano indicando le nuvole.
Tra quelle nuvole oggi si è infilato Julian Alaphilippe. Tra le crepe dei sogni belgi si infilano i suoi tre scatti: il primo, tribale come un rullo di tamburi, a 58 km dall'arrivo porta via la fuga decisiva di una corsa pazza, meravigliosa, velocissima, da bere tutta d'un fiato come una birra fresca quanto basta; il secondo una stilettata micidiale che screma ulteriormente; il terzo, decisivo, fatto di gambe e smorfie, di tic e scossoni. Spegne i bollori di van Aert, Colbrelli e tutti gli altri a seguire, e lo lancia verso il secondo titolo mondiale.
Il sole oggi a Leuven non è mai uscito in maniera del tutto convincente. Il cielo, coperto da un sottile strato di nuvole, è una patina biancastra. Mentre Alaphilippe taglia il traguardo si alza un urlo, bandiere fiamminghe smettono di sventolare, qualche boccaccia, cacofonici buuuu dei tifosi di casa.
L'urlo è un "fate spazio" in mondovisione, è il soigneur francese mentre regge il vincitore. La bocca di Alaphilippe, asciutta, pulsa in cerca di una bevanda zuccherata. Lo sguardo ha inflessioni incredule, mentre arrivano Štybar, Sénéchal, Madouas, poi pure van der Poel, ad abbracciarlo. Di nuovo Campione del Mondo - meritato.
L'autunno oggi è belga per una squadra di casa che accende una corsa sulla quale spendiamo elogi. Ogni gruppo che parte è pericoloso, ogni volta che va via qualcuno dentro c'è Evenepoel, come fosse nascosto nei cespugli.
Evenepoel, oggi il più fedele alla causa di tutto il Belgio. Una sorta di piccolo eroe. E se qualcuno avesse ancora dubbi su di lui, eccoci serviti, attacca a 180 dall'arrivo, tira il gruppo per van Aert, chiude, strappa e poi si fa da parte stremato in preda ai dolori.
È un sogno in bianco e nero la corsa: sembra di aver fatto un salto di quarant'anni indietro, quando i migliori si sfidavano da subito, da lontano, facendo brillare gli occhi e sgolare tifosi da tutto il mondo a bordo strada o a casa. Una volta attaccati alle radioline in attesa di notizie. Oggi incollati a televisori, tablet, telefonini.
Ci aiutereste, allora, a trovare una parola per definirla? Ci consigliereste un termine per una giornata che a quattro ore dalla fine vedeva già alcuni tra i favoriti andare in fuga? Ci vengono i termini spettacolare, meraviglioso. Esageriamo? Ma lo abbiamo detto ieri: è un Campionato del Mondo, ci aspettavamo tanto, sì, ma forse questo no. Come un sogno.
Il sogno dell'Italia pare infrangersi subito, quando Ballerini tampona Trentin e vanno a terra, e poi la Francia parte con Turgis e lo segue Evenepoel e l'Italia insegue, insegue, insegue e riesce a chiudere.
Poi il sogno matura perché Colbrelli e Nizzolo stanno bene, con un Bagioli da 9 in pagella che ci darà tante di quelle soddisfazioni in futuro: solo 9 perché 9,5 lo prende Evenepoel e 10 il vincitore. Stanno bene, dicevamo, Nizzolo e Colbrelli e sono lì davanti in quel gruppo a giocarsi le medaglie.
Poi arriva Alaphilippe che decide di infilarsi in mezzo ai sogni altrui. Parte e nessuno lo rivede. Vince ed è un bellissimo vincitore, mentre van Baarle e Valgren uccidono crudelmente i sogni belgi, cacciando dal podio al fotofinish il ragazzo di casa, di Leuven, Jasper Stuyven.
Forse Una e Jeuris conoscevano già lo svolgimento di questa gara indicando con meraviglia qualcosa tra le nuvole. Fortunati loro che sognano e hanno visioni. Fortunati noi per aver vissuto questa giornata.
PS. Qualche parola su quanto è forte Pidcock andrebbe spesa, ma tant'è. La scena oggi è di Alaphilippe.
Foto: Bettini
Domani c'è il Mondiale
Quella corsa che tutti sognano: chi corre e chi aspetta, chi scrive e chi tifa. Quella gara che ti dà una maglia che, se ce ne fosse bisogno, rende ancora più unico il ciclismo. Potevamo fare una lista di trenta, quaranta nomi, fra quelli che vinceranno e indosseranno la maglia arc-en-ciel per tutto il 2022. Talmente tanti i possibili finali del multiverso di Leuven: un percorso che pare meno duro di quello che si prospettava alla vigilia e che si apre a diversi scenari. Ne abbiamo scelti dieci: diteci anche la vostra.
𝐖𝐨𝐮𝐭 𝐯𝐚𝐧 𝐀𝐞𝐫𝐭 è il più completo e continuo del 2021 e potrebbe vincere in qualsiasi modo. Gli argenti conquistati in diverse occasioni fra poche ore vorranno fondersi e come per una strana alchimia diventare oro. Corre in casa, tutti sono per lui, il gruppo è contro di lui (come si è sempre contro il più forte), ma se dovesse vincere, paradossalmente, non farebbe scontento nessuno. Almeno così ci piace credere.
𝐌𝐚𝐭𝐡𝐢𝐞𝐮 𝐯𝐚𝐧 𝐝𝐞𝐫 𝐏𝐨𝐞𝐥 arriva a fari spenti che sembra un po' un paradosso quando si parla di lui ma è così. Naïf nel modo di correre a volte, e anche di organizzare la sua stagione che difatti gli lascia strascichi fisici. C'è quella rampa a sei dall'arrivo che pare fatta apposta per il miglior van der Poel. Ma sarà il miglior van der Poel?
𝐉𝐮𝐥𝐢𝐚𝐧 𝐀𝐥𝐚𝐩𝐡𝐢𝐥𝐢𝐩𝐩𝐞 più di testa che di gambe perché il campione uscente in rare occasioni quest'anno ha dimostrato quell'attitudine vista la stagione precedente. Il discorso è che lui è Alaphilippe, non uno qualsiasi, e, se pure non al meglio: scommettereste mai contro uno così? In Francia hanno in cantiere una serie di piani alternativi da fare impallidire uno sceneggiatore folle e che vanno da Laporte a Cosnefroy, passando per Sénéchal e Démare e finendo a Turgis. Squadrone.
𝐌𝐚𝐭𝐭𝐞𝐨 𝐓𝐫𝐞𝐧𝐭𝐢𝐧 per l'Italia. Perché potevamo dire Colbrelli e la forma della vita, o Nizzolo e Ballerini e il loro spunto finale, ma se c'è un azzurro che si meriterebbe di vincere è lui. Uscito bene dalla Vuelta è in crescita, ha l'esperienza giusta, e sogna uno svolgimento simile ad Harrogate 2019 ma con finale completamente diverso.
𝐄𝐭𝐡𝐚𝐧 𝐇𝐚𝐲𝐭𝐞𝐫 è il più giovane fra quelli su cui scommetteremmo. Se non si conoscesse la sua stagione sembrerebbe folle inserirlo qui, ma va forte e soprattutto, un po' con caratteristiche simili a quelle di van Aert, potrebbe vincere (quasi) in ogni modo. Da valutare sulla lunga distanza , ma per la Gran Bretagna più lui che Pidcock.
𝐌𝐢𝐜𝐡𝐚𝐞𝐥 𝐌𝐚𝐭𝐭𝐡𝐞𝐰𝐬 perché ovunque ti giri lui c'è sempre. Magari non vince ma è lì. Si attacca e non ti molla e poi, visto lo spunto veloce, può infilarti. Il percorso è tagliato per lui che corre sempre davanti e coperto a ruota altrui e ha la forza giusta per resistere alle accelerate. In casa australiana però non fanno mistero di guardare con buon occhio il finale di Ewan. Nel caso arrivassero davanti entrambi: chi si sacrifica per chi?
𝐌𝐚𝐭𝐞𝐣 𝐌𝐨𝐡𝐨𝐫𝐢č è la punta di una Slovenia che presenta i dominatori di Tour (Pogačar) e Vuelta (Roglič) i quali forse si sarebbero aspettati (come anche noi umili osservatori) un tracciato più duro, ma con quel talento mai darli per vinti. Mohorič ha tutto per vincere: scatto, spunto, fondo, scaltrezza, forma e capacità di guida della bici. Ha già vinto due mondiali in passato che male non fa. Si saprà ripetere?
𝐑𝐞𝐦𝐜𝐨 𝐄𝐯𝐞𝐧𝐞𝐩𝐨𝐞𝐥 perché se vogliamo una gara spettacolare con attacchi che partono magari dalla media distanza, scorribande già nel circuito fiammingo con uomini forti, guardiamo lui. Che si dice pronto a spendersi alla causa van Aert ma è così ambizioso che un modo per cercare di far saltare il banco lo troverà. O almeno ci proverà.
𝐌𝐚𝐠𝐧𝐮𝐬 𝐂𝐨𝐫𝐭 𝐍𝐢𝐞𝐥𝐬𝐞𝐧 esce dalla Vuelta come uno spauracchio. È una delle punte di una formazione danese che da più parti hanno definito gli Avengers. Completo, alla stagione migliore della carriera, come tutto il movimento danese è all'apice. Può adattarsi alle più svariate situazioni: volata ristretta, corsa dura, persino fuga. Due anni fa Pedersen, domani l'iride potrebbe prendere di nuovo la strada della piccola nazione nord-europea.
𝐌𝐚𝐫𝐜 𝐇𝐢𝐫𝐬𝐜𝐡𝐢: ci piacciono quei nomi che potrebbero fare corsa dura e Hirschi è uno che calza a pennello in caso di selezione. Non è l'Hirschi del 2020, ma è in crescita e, seppure giovanissimo, lo stiamo imparando a conoscere come profilo che si ingrossa non appena si alza la posta in palio. La Svizzera sin qui al Mondiale è arrivata più volte vicina al colpo grosso: magari con Hirschi, che ha fondo e resistenza e alla fine di 270km si difende bene anche in uno sprint ristretto, è quella buona.
E poi ancora Sagan e Stuyven, Lampaert e Teuns, Kristoff e Asgreen, Pedersen e Valgren, magari Aranburu (la Spagna ogni tanto qualche scherzetto lo combina), Degenkolb o Politt. Bissegger e Almeida, Simmons, Kwiatkowski o Štybar. Qualcuno magari ce lo siamo lasciati per strada, ma insomma l'elenco ci pare sufficiente.
E i vostri favoriti chi sono?
Foto: Luigi Sestili
Filippo, Campione del Mondo
Non crediamo che nel nome di una persona ci sia il destino, o almeno non fino al punto da determinarne vittorie o sconfitte in bicicletta, ma se ti chiami Filippo, in questi giorni, pare che nelle Fiandre tu possa andare discretamente bene. Se Filippo, inteso come Ganna, lo conosciamo bene, oggi è il caso di scoprire un po' chi è Baroncini, che per come è scattato a meno cinque dall'arrivo sarebbe subito da rubare l'idea già usata (e abusata) e scrivere il suo nome tutto in maiuscolo e tutto attaccato: FILIPPOBARONCINI.
Quando lo abbiamo incontrato qualche settimana fa a Trento ce lo ha detto: si sente bene, forte e motivato, ma soprattutto ambizioso. Che quando passerà professionista (Trek-Segafredo) vorrà da subito giocarsi le sue carte.
Ma oggi il suo cammino tra gli Under 23 era da portare a compimento. Esploso sul finire della scorsa stagione, l'ascesa di Baroncini è stata fulminea e ha visto l'apice della sua sin qui brevissima carriera su quella rampetta, quando al traguardo mancavano meno di una decina di minuti.
E lui scattava, «Dentro di me dicevo: vai, vai, vai» - ha raccontato a fine corsa. Con i suoi watt avrebbero acceso probabilmente tutte le luci del viale che lo conduceva verso l'arrivo, mentre dietro Zana, Colnaghi, Coati e Gazzoli (e Frigo nelle prime fasi a lavorare per tutti) lo coprivano, perfettamente, manco fosse una di quelle giornate fredde da passare sul divano a guardare la tv. A guardare ciclismo: gioco che regala oggi la maglia iridata a un solo corridore, ma quanto c'è di squadra dietro ogni successo.
Oggi Filippo Baroncini (che è pure caduto a metà corsa) ci ha fatto saltare da quel divano, ci ha fatto vedere cos'è il talento, la crescita graduale, la potenza del finisseur, ci ha fatto vedere cosa vuol dire finalizzare il lavoro di squadra - Colnaghi all'attacco e gli altri a lavorare per ricucire, Zana stopper come uno di quei cagnacci che ti morde le caviglie - lui che è capace di andare forte dappertutto, ma che non sembra di quelli buoni ovunque e basta, ma di quelli davvero competitivi su ogni terreno: salita, cronometro, finali vallonati e incasinati come quello di oggi.
E a guardarlo negli occhi a fine gara o a rivedere l'azione che lo ha portato a vincere, sembra impossibile che per lui finisca qui. La rampa sopra Leuven lo ha lanciato, ma non sappiamo bene ancora dove potrà arrivare.
Foto: Bettini
Quei cinque centesimi
D'altra parte cosa sono cinque centesimi? In realtà non sapremmo quantificarli in una gara di biciclette, perché arrivare davanti per cinque centesimi dopo cinquantuno (51!) minuti ha tanto il sapore della beffa o di quelle corse tipo lo sci alpino.
Ma il cronometro benedetto e maledetto ha sentenziato: gioia per i ragazzi azzurri, beffa per gli svizzeri che sarebbe stato meglio togliere quei distacchi dopo la virgola e assegnare la medaglia a tutti e dodici (12!).
È che ci stiamo abituando così bene a questa Italia, popolo di passistoni e abili cronomen, ma così bene che se ce l'aveste detto qualche anno fa ci saremmo messi a ridere o vi avremmo accusato di circonvenzione di incapace.
Ci stiamo abituando così bene a Filippo Ganna trascinatore, a Elisa Longo Borghini, Elena Cecchini e Marta Cavalli finalizzatrici, a Edoardo Affini e Matteo Sobrero carburanti per il motore, azzurri che oggi, tra Knokke-Heist e Bruges, si sono regalati un'altra medaglia.
Forse qualcuno ancora storce il naso per questa gara, ma noi ci siamo divertiti. Distacchi a fisarmonica tra la frazione maschile e quella femminile; una crono che racconta mille storie e la più intensa è quella di Tony Martin, all'ultimo ballo come va tanto di moda dire, all'ultima gara, all'ultima maglia, all'ultima medaglia.
Pochi giorni fa "Der Panzerwagen" ha annunciato il ritiro dalle competizioni e oggi ha guidato la Germania in una crono a mille, di alto livello; altro che "eh ma la staffetta mista". Ben venga la staffetta mista. È affiatamento, tecnica e potenza, mostra i progressi di una squadra, tasta il polso alla punta dell'iceberg di un movimento, sia maschile che femminile. E poi li unisce: nel risultato, nel tifo dopo il traguardo con Ganna e gli altri a spingere idealmente la volatina azzurra.
E Ganna, sempre lui, chi sennò, tecnica e potenza in un solo corpo, ha trascinato la nazionale con quella sua proverbiale tranquillità che lo contraddistingue sia nella vittoria che nella sconfitta. Pista e strada non fa differenza: basta seguirlo. E poi Affini e Sobrero vagoncini affidabili, Longo Borghini, Cecchini e Cavalli che l'hanno spinta in rete.
Cinque centesimi sono bastati, anche se qualcuno al traguardo non lo aveva capito. Cinque centesimi per un podio. Un niente, difficile da quantificare. Cinque centesimi, sì, e oggi ce li prendiamo tutti.
Spingere Wout van Aert
Secondo, secondo, secondo, secondo, secondo. No, non ci si è incriccato il cervello e nemmeno incantata la tastiera. Se ci pensate bene il ritornello assomiglia al ruolino di marcia di Wout van Aert tra prove olimpiche e mondiali, appuntamenti iridati nel ciclocross e su strada: parliamo più o meno degli ultimi 12 mesi.
Due volte secondo nel 2020 ai Mondiali di Imola: prima nella crono dietro Ganna, poi pochi giorni dopo nella prova in linea, dietro Alaphilippe.
Secondo poi al mondiale di Ciclocross a Ostenda dietro van der Poel; secondo qualche mese fa a Tokyo dietro Carapaz, secondo domenica dietro Ganna. E più che un ritornello sembra diventata una sorta di maledizione per lui che in carriera, almeno quando si infangava con regolarità, le sue maglie iridate le ha vinte.
Ma quella di questa domenica è la medaglia d'argento che fa più male, perché spinto dal suo pubblico che a un certo punto goliardicamente faceva persino segno a Ganna di rallentare all'imbocco di una strettoia.
Spinto dall'idea di consacrarsi numero uno del ciclismo mondiale dopo aver vinto quest'anno 13 corse tra cui Gand-Wevelgem, Amstel, campionato nazionale in linea, 3 tappe al Tour e 2 alla Tirreno Adriatico.
Spinto da un motore che è un tutt'uno con la testa: chi la conosce la descrive come senza eguali. Un motore che gli permette di andare forte in salita, in pianura, in volata. Una testa che lo ha fatto ripartire dopo un incidente drammatico al Tour di un paio di anni fa. Che lo fa spingere oltre ogni limite, perché a trovarne di corridori che ieri lottano con Ganna, domani con Pogačar e Alaphilippe, dopodomani con van der Poel.
Alla fine della prova di domenica ha abbracciato Ganna, nonostante tutto, a dimostrazione dello spirito e del rispetto che trasmette il ragazzo di Herentals.
Si è dichiarato deluso, non poteva essere altrimenti, e ha aggiunto che da un punto di vista razionale perdere una crono per 5 secondi da un "super specialista", così lo ha definito, come Ganna, normalmente sarebbe una gran cosa, ma resta un argento che brucia, perché arrivato in casa e dopo essere stato in testa per due terzi di gara.
Dice, poi, van Aert che analizzerà la gara con calma da lunedì, ma che in realtà un'idea su dove ha perso la corsa ce l'ha: in un punto ha rischiato di cadere, e poi nel finale, tra Damme e Bruges, Ganna ha spinto nettamente più forte.
Domenica, tra i tanti corridori al via, abbiamo già trovato per chi simpatizzare: nessuno ce ne vorrà. Abbiamo trovato chi spingere con forza verso il traguardo per vederlo a braccia alzate - se proprio non dovesse essere qualcuno in maglia azzurra.
Siamo schietti, un Wout van Aert iridato non ci dispiacerebbe. O almeno che non arrivi di nuovo secondo, ecco.
Un campione, un fuoriclasse
Oggi è una di quelle giornate che elevano i campioni a fuoriclasse. Dove si sposta l'asticella, dove resti con il fiato sospeso e vedi Evenepoel e ti chiedi: "e ora chi lo batte?". Dove vedi i polpacci di van Aert tiratissimi che pensi nessuno possa fermarlo; il belga spinto dal pubblico di casa in delirio a ogni curva e sembra che oggi si possa finalmente festeggiare con lui. E invece.
Oggi non era facile. Per nessuno. Perché la rassegna iridata iniziava nel peggiore dei modi: ieri Chris Anker Sørensen, ex professionista e inviato ai Mondiali come commentatore tecnico per una televisione danese, ha perso la vita sulle strade del Belgio, pedalando, come ha sempre fatto e come ha voluto fare ieri, fino al tragico epilogo quando un furgone lo ha investito.
Ma c'è stata la corsa, oggi: si sa, va così. E allora per un attimo dimentichiamo quei pensieri, anche se quel groppo in gola resterà per sempre, lasciandoci il fragore del mare a Knokke-Heist che si infrange alle spalle dei corridori in partenza.
Lasciamoci alle spalle i due intertempi dove van Aert era sempre davanti a Ganna. Chiudiamo gli occhi e pensiamo solo a quel rettilineo finale a Bruges, a quella spinta ideale, all'exploit, al "ce la fa, non ce la fa", al conto alla rovescia fatto a mente, ai riferimenti presi meno di un minuto prima, a quella maglia blu, a quelle gambe enormi, a quei 5 secondi e 37 centesimi che sono bastati a Filippo Ganna per diventare di nuovo campione del mondo della cronometro. Quei pochi secondi che bastano per cancellare il nome di campione di fianco a quello di Ganna e cambiarlo con il termine: fuoriclasse.
Lasciamoci alle spalle l'urlo strozzato dei belgi: le cronometro non vanno mai come si pensa. Scrivi un codice e premi invio, ma dall'altra parte c'è un firewall che ti blocca.
Lasciamoci alle spalle tutto e godiamo per Filippo Ganna, che corre la sua miglior cronometro della carriera, nel giorno più importante (l'ennesimo giorno più importante) della sua carriera. Lui che si lascia alle spalle quella piccola delusione all'Europeo o le critiche per quella medaglia sfumata a Tokyo.
Lasciamoci alle spalle tutto e anche questo racconto un po' a metà; perché se si potesse, oggi la medaglia d'oro la meriterebbero pure van Aert ed Evenepoel. Perché per chi scende dalla bici è stato un urlo un po' strozzato, negli occhi di tutti i protagonisti una gioia non goduta fino in fondo, un groppo in gola che rimarrà per sempre, perché avremmo sognato una giornata diversa questa mattina, anche se l'epilogo, per certi egoistici versi, ha funzionato come un palliativo.
Lasciamoci alle spalle tutto, almeno per un attimo. Tranne quella maglia iridata che, diciamolo francamente, su Ganna sta terribilmente bene.
A piccoli passi: intervista a Filippo Zana
Mancavano pochi chilometri all'arrivo della prova in linea per Under 23 dell'Europeo di Trento, quando Filippo Zana rompeva gli indugi. In Piazza del Duomo la gente si affollava davanti al mega schermo e si sentiva il boato della folla: tutto questo per aver visto le maglia azzurre davanti.
Il suo scatto faceva saltare la corsa come quando lo spumante cerca di uscire dalla bottiglia. Gli spagnoli, fin lì padroni del gruppo come cattivoni di un b-movie, si facevano da parte. Davanti restavano in sette.
«Baroncini e io stavamo bene» mi racconta Zana giorni dopo, soddisfatto per come è andata la corsa, nonostante il piazzamento finale: Baroncini 2° e Zana 6°. «Ho fatto il forcing: meno corridori fossimo rimasti lì davanti e più possibilità di medaglia avremmo avuto. Io non sono molto veloce, sono un passista scalatore e amo fare la differenza su salite di massimo 6/7 chilometri. Ho provato di nuovo la sortita arrivando in città. Alla fine non è andata male, una medaglia che ci dà fiducia per il futuro».
A sorprendere tutti Thibau Nys, che fa base nel ciclocross, ma mostra da tempo eccellenti qualità su strada e allo sprint. «Fare ciclocross ti dà qualcosa in più - afferma sempre Zana – l'ho praticato da ragazzo e quest'inverno tornerò anche io a sporcarmi nel fango. Parteciperò a qualche corsa per fare fatica e prendere freddo; per affinare il motore quell'ora che fai fuori soglia è tutto un guadagno quando riprenderai l'attività su strada».
Arriva dalla provincia di Vicenza, Zana, fa parte di quella classe '99 che tanto pare possa dare al ciclismo italiano. I suoi genitori hanno una birreria e lui ama i cavalli. Un doppio binomio: birra-fatica, cavalli-ciclismo che pare scritto apposta. «In realtà io sono la pecora nera degli Zana: da noi ha sempre dominato il calcio. Però i cavalli sono stati una parte della nostra famiglia. Me ne sono comprato uno qualche anno fa con i risparmi, le paghette, i premi vinti da ragazzo. Si chiama Vior; l'ho preso che si chiamava così e gli ho lasciato il nome: dicono che ai cavalli non vada cambiato». D'inverno, racconta, va nei boschi a fare legna per mantenere la forma fisica e Vior è sempre con lui.
Se scrivesse un programma politico, il suo impegno avrebbe un motto: "A piccoli passi". Dice di aver scelto di restare un altro anno in Bardiani-CSF-Faizanè perché è la realtà perfetta per uno come lui, perché se avrà la possibilità di passare nel World Tour vorrà essere pronto al 101% e qui trova lo spazio giusto per crescere con calma. «Se fai il passo più lungo della gamba rischi di bruciarti. Guarda tutti quei ragazzi che passano da junior a professionisti. Te lo puoi permettere se sei Evenepoel, ma se non sei un fenomeno cosa fai? Sbagli un anno e rimbalzi indietro e magari nemmeno una Professional ti vuole più».
Sesto all'Europeo, terzo all'Avenir, vincitore della classifica finale del Sazka Tour in Repubblica Ceca, risultati tutti ottenuti con la nazionale Under 23: la maglia azzurra lo gratifica, e lui vuole portarla in alto. «A inizio stagione con Amadori (il CT della nazionale Under 23, N.d.A.) ci siamo parlati e abbiamo programmato la stagione così. Che dite, secondo voi ho ripagato la fiducia?».
Vorrebbe far scorrere tutto il possibile sotto le sue ruote: ama la Roubaix, sogna la classifica in un Grande Giro («devo migliorare a cronometro e sulle salite lunghe, ma mi sono accorto di avere buone doti di recupero»), ma quest'anno l'infatuazione più grande è arrivata alla Strade Bianche. «Sullo sterrato e sugli strappi mi sono divertito un mondo. Certo che van der Poel ha fatto quello che voleva».
Racconta di non avere un proprio punto di riferimento in gruppo, ma di captare segreti da ognuno: «Ma soprattutto cerco gli errori per non commetterne in futuro io stesso». Si allena guardando watt e dati, ma in gara si lascia trasportare dalle sensazioni. Se pensa al ciclismo pensa al sacrificio, agli allenamenti, al “non si molla mai un metro”: freddo, pioggia o caldo che sia. Ma soprattutto, sostiene, il massimo è la soddisfazione che ti dà una vittoria. E prima o poi, a piccoli passi, arriverà anche quella importante.
Foto: Bettini
"Finalmente ho vinto"
Seduto sulla poltroncina - in (finta?) pelle grigia - che spetta al leader della cronometro dello Skoda Tour Luxembourg, Cattaneo ha visto passare avversari su avversari: gli finivano regolarmente dietro e nemmeno di poco.
Ha pennellato e spinto. Ha tagliato il traguardo ed era primo, ha battuto il danese Skjelmose, vent'anni, una carriera davanti che gli sorriderà dopo un passato che lo ha visto fare tempi à la Remco e poi l'ombra di una squalifica per doping.
Ma Cattaneo, dicevamo. Si è seduto su quella specie di trono di plastica. Ha visto scorrere i tempi: nessuno gli si avvicinava nemmeno lontanamente, e quando è stato il turno del compagno di squadra Almeida, quello che fino a ieri pomeriggio ha difeso come fosse una porta da tenere inviolata, ha tremato.
Abbiamo, poco sportivamente, ma ogni tanto capita, sperato che Almeida tirasse con meno precisione una curva, che rilanciasse con meno forza, perché i due erano vicinissimi. Quando ha chiuso la sua prova, il verdetto: due secondi di ritardo per il portoghese. O ribaltando: due secondi di vantaggio per l'italiano. Quanto bastava per vedere Cattaneo incredulo, felice e poi commosso. «Finalmente ho vinto». Le sue prime parole.
Cattaneo corre tra i professionisti ormai da quasi dieci anni. Prima promessa, poi dimenticato. Con Savio si è rilanciato e ora, in maglia Quick Step, vive una seconda parte di carriera che dà il giusto tributo al suo talento.
A Trento lui c'era a farsi in quattro per la Nazionale; quando è con la squadra di club l'atteggiamento non cambia: lo chiami e lui interpreta al meglio il suo compito.
Al Tour ha sfiorato la vittoria che oggi è arrivata. Ieri per Modolo erano tre anni e mezzo di digiuno, oggi per Cattaneo poco più di due. Ha vinto poco (tre volte) e proprio per questo ci pareva giusto omaggiarlo.
Foto: Bettini
Anche se ti chiami Valverde
Il finale di stagione di Alejandro Valverde non era quello che lui si immaginava, quello che i suoi tifosi sognavano, quello che i suoi colleghi pensavano - o temevano - vedendolo (in crescita di condizione) da vicino, alla Vuelta.
Poi una caduta, brutta, anzi, orrenda. In testa al gruppo a fare le linee giuste, ma di conserva, come gli sarà accaduto centinaia di migliaia di volte; la bici prende una buca, le mani perdono il controllo per un attimo, decisivo, del manubrio. Valverde va giù e, come ha raccontato pochi giorni fa sul sito ufficiale di Fizik: «La cosa che più mi ha colpito, dopo aver rivisto le immagini, è stato rendermi conto di quanto poco spazio fosse rimasto tra il punto in cui mi sono fermato e il burrone. L'incidente è stato molto peggio di quello che sembrava». Gli è andata male, sì, gli poteva persino andare peggio.
Il finale di stagione di Valverde era stato prestampato con caratteri diversi: senza quella caduta avrebbe continuato a tirare forte in Spagna, forse una vittoria (l'ultima l'ha conquistata al Delfinato e gli mancava da quasi due anni), l'avrebbe trovata; senza forse lo avremmo visto al via del mondiale nelle Fiandre, quelle Fiandre dove lui ha corso così poche volte che ci rimarrà un po' di amaro in bocca. Il percorso gli piace, ha detto, ma diplomaticamente sostiene come i suoi compagni siano più adatti di lui. La realtà è che cadere a 25 o a 30 anni è un conto, quando ti succede a 41 recuperare diventa più difficile, anche se ti chiami Valverde.
E quel Mondiale, strano dirlo, non vedrà Valverde per la sesta volta in vent'anni di carriera. Quel Mondiale che lo ha visto vincere nel 2018 e altre sei volte sul podio. E a quel Mondiale non ci sarà nemmeno Rojas che in quella caduta alla Vuelta lo ha soccorso. «Ho visto la sua bici - racconta Rojas, amico e compagno di squadra da una vita, dal 2006, di Valverde - e poi ho visto Alejandro che cercava di risalire tenendosi la spalla. “Fa male, molto male” mi ripeteva. La prima sensazione che ho provato è stato dolore per lui: perché prima di essere un grande corridore, Alejandro è un grande amico».
E lui, proprio perché si chiama Valverde, nonostante la caduta e la frattura, pochi giorni dopo era già in sella e lo rivedremo a breve. Niente Mondiale, sarà sulle strade italiane con poco allenamento però con l'obiettivo, difficile, ma mai scommettere contro gente come Valverde, di provare a vincere quella corsa che ancora gli manca: il Giro di Lombardia, che lo ha visto tre volte secondo. A Bergamo chiuderà la sua stagione, ma non la sua infinita carriera.
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Il motore della polivalenza
Tra i vari spunti nati durante l'Europeo appena concluso, il discorso sulla multidisciplinarità che coinvolge i protagonisti di (quasi) tutte le gare ha un'importanza centrale.
Volendo stringere il campo ai medagliati fa impressione come molti di loro abbiano in comune la pratica di altre discipline, o un passato che non si è cibato di sola strada e in alcuni casi nemmeno di solo ciclismo. Su 36 medaglie assegnate nelle prove individuali ben 22 affondano le radici altrove - e da questo dato abbiamo tenuto fuori Evenepoel, ex calciatore.
Si parla di corridori di elevata caratura, senza ombra di dubbio, ma un talento non è tale se non è coltivato e allenato, ed è così che grazie al lavoro al di fuori della strada (ciclocross, mtb, pista) migliora l'esplosività, la capacità di esprimersi fuori soglia, l'abilità nella guida del mezzo, il colpo d'occhio, persino la qualità della pedalata. E la capacità di portare nelle varie specialità ciò che si è assorbito altrove, e in alcuni casi non per forza solo nel ciclismo, è un'importante tema di dibattito.
Il podio della gara juniores maschile è formata da due che in inverno praticano ciclocross: Grégoire e Martinez. Se Grégoire - un predestinato assoluto del ciclismo mondiale - sceglie il fango più per allenarsi in inverno e non perdere il colpo di pedale, Martinez è attualmente vice campione nazionale nel cx tra gli junior. Carente ancora nella capacità di guida, è proprio insistendo nel fuoristrada che riuscirà a limare i propri difetti. Dello stesso avviso è Uijtdebroeks (argento nella crono), da molti considerato il più grande talento tra i 2003: l'anno prossimo salterà direttamente da junior al World Tour, ma prima di farlo ha già detto che gareggerà nel ciclocross per migliorare le sue capacità di guida.
In mezzo ai due francesi è arrivato il norvegese Hagenes, uno che d'inverno fa sci di fondo e lo ha fatto anche a buon livello tanto da dominare una gara di coppa di Norvegia lo scorso anno. Alla domanda se continuerà con entrambe le attività ci ha risposto che l'impegno su strada con la Jumbo-Visma Development Team l'anno prossimo sarà centrale, ma che d'inverno continuerà a infilarsi gli sci ai piedi per mantenere la forma. E aggiungiamo noi: per staccare, rilassarsi e poi tornare a divertirsi in bici, altro punto focale del discorso.
L'ungherese Vas tra tutti è l'esempio più eclatante: il suo motore è impressionante, le sue caratteristiche sono un vero trattato sulla multidisciplinarità. Vas è stata battuta da Zanardi (a proposito: campionessa europea su pista), ma poche settimane fa arrivava quarta a Tokyo nella prova di Cross Country di MTB dietro le dominatrici svizzere, mentre in inverno è una che, seppur giovanissima, un po' alla volta mette con profitto la sua bici in mezzo o davanti alle élite olandesi.
Due terzi del podio della crono maschile under 23 arriva da pista (Price-Pejtersen, Danimarca) e ciclocross (Waerenskjold, Norvegia). Se il danese continua l'attività nei velodromi, il norvegese, dopo aver vinto diversi titoli nazionali, ora nel ciclocross si cimenta più per tenersi allenato che per un fatto puramente agonistico.
Il podio della crono maschile non ha bisogno certo di presentazione: Ganna e Küng su pista hanno giusto qualche risultato importante, mentre tra le donne élite, Reusser (oro nella crono) arriva da Triathlon (come anche Segaert, oro nella crono junior maschile) e Bike Marathon, Muzic (bronzo in linea) la puoi trovare gareggiare, a volte, nel ciclocross.
Una delle vittorie più imprevedibili della rassegna europea, quella di Thibau Nys, nasce proprio dalle brughiere, infangate o polverose a seconda del momento.
Di che leggenda del CX parliamo quando parliamo di suo padre Sven inutile dirlo, ma anche Thibau qualcosa ha fatto prima di sorprendere tutti nello sprint ristretto davanti al Duomo, incuriosendoci non tanto per la vittoria - fosse veloce si sapeva - quanto per essere riuscito a rimanere attaccato ai migliori: i limiti del classe 2002 belga sono ancora inesplorati e su strada potrà fare una carriera ancora superiore di quella accennata nel fuoristrada. Che continuerà comunque a praticare con profitto portando poi sull'asfalto tutto quello che avrà assorbito e imparato.
E ancora: Ivanchenko, oro nella crono junior femminile, ha dominato i recenti mondiali su pista di categoria con tre ori; Niedermaier, seconda, arriva dallo Sci Alpinismo, un mondo che continua a frequentare, mentre Uijen, terza, si difende bene anche su pista, come Le Huitouze, bronzo nella crono junior maschile, e Brennauer, bronzo élite femminile sempre contro il tempo.
Infine van Dijk, un oro e due argenti a Trento e un palmarès da favola a cronometro, ha iniziato la sua carriera sportiva nello speed skating praticato a buon livello - e buon livello per lo speed skating in Olanda significa avere una certa rilevanza.
Vuol dire poco o nulla, magari, in taluni casi, soprattutto se parliamo di attività svolte in età precoce, ma è evidente come questi motori abbiano iniziato a svilupparsi non solo lontano dalla strada, ma anche dalle due ruote. E così, all'apparenza, sembra male non faccia.
Anche l'Italia mostra qualcosa in ambito multidisciplinarità, pur rimanendo la pista ciò che dà maggiore impulso al movimento. Zanardi l'abbiamo già nominata, mentre Guazzini, campionessa europea a cronometro tra le Under 23 punta a diventare una big assoluta nei velodromi. E ci siamo fermati alle medaglie altrimenti l'elenco sarebbe sterminato.
Si iniziano anche a intravedere anche alcuni giovanissimi che partendo da esperienze maturate nel ciclocross (tre nomi: Realini, Masciarelli e Olivo, il quale va forte anche su pista) provano a ottenere risultati anche su strada. Qualcosa si muove anche da noi ed è arrivato il momento di investire ulteriormente e di spingere sull'acceleratore della polivalenza (che significa proprio il contrario dell'abbandonare un'attività a discapito dell'altra, soprattutto nel caso del ciclocross) che come abbiamo visto, può dare solo buoni frutti.
Foto: Bettini