La carne di Yoann Offredo

Il nero inghiotte. Un male oscuro. L'impossibilità di fare quel mestiere che ti è sempre riuscito così bene. La fatica a rialzarsi, il non riuscire a dormire la notte perché ancora pieno di energia. «Facevo circa trenta ore a settimana in bici e ora non sono più nemmeno abbastanza stanco per dormire la notte. Alle tre del mattino sono ancora sveglio e mi pongo delle domande. A volte mi sveglio pure in lacrime», racconta Yoan Offredo all'Equipe, annunciando il suo ritiro pochi giorni fa.

Bello, biondo, con quegli zigomi alti e lo sguardo intenso; a volte persino bellissimo in bicicletta, nato su due ruote come una creatura fatta di carne, leve, motrici, grasso e catene. Una speranza del ciclismo: quante aspettative che si riversano sulla schiena dei corridori? Una maledizione a volte soprattutto quando le avversità ti travolgono, meglio l'anonimato, a volte, anche se hai passato la tua carriera all'attacco. L'ingiustizia di dover cambiare mestiere a trentatré anni quando si vorrebbe ancora fare qualcosa, perché non si può accettare di dire basta, perché hai una caviglia a pezzi nonostante gli interventi chirurgici e il trapianto del tendine, e in bici non riesci a starci più. «Smetto di correre, volevo scrivere un post ma non sono in grado di farlo. Sono ancora nella fase della negazione. Ho sentito parlare di "piccola morte" quando un corridore si ritira: per me è sempre stato un concetto astratto. Quando corriamo abbiamo la testa sul manubrio e i paraocchi. Vorrei parlare con qualcuno ma dentro questo mondo non ho molti amici. Sono in una fase un po' di depressione. L'anno scorso Kennaugh e Kittel si sono ritirati a causa di questo male, ma è una parola ancora tabù in gruppo. La maggior parte dei corridori non si esprime e si nasconde dietro le apparenze: "ce l'ho fatta! Ho una bella macchina!". Io quando mi alzo al mattino sono triste nel non riuscire a trovare emozioni. Ho bisogno di un obiettivo da dare alla mia vita». Una macchina che ti travolge, ti mangia, ti sputa; un sistema che è un tritacarne con chi si mette a nudo e mostra la propria sensibilità.

A marzo del 2019 un episodio chiave che ferisce la sua anima e ne dilania il corpo. Il giorno preciso interessa il giusto, la gara era il GP Denain: una caduta terribile, una capriola volante nemmeno sull'asfalto ma sugli spigoli di una strada tempestata di ciottoli aguzzi. Riversato a terra mentre il tepore di un sole primaverile scaldava la pelle. Il trasporto in ospedale, la diagnosi iniziale che parlava di tetraplegia totale a causa di uno shock al midollo spinale. Il recupero lampo: trentasette giorni dopo è di nuovo in bicicletta. Il Tour del 2019, gli attacchi a vanvera, infiniti, a ripetizione, i minuti di vantaggio, in coppia fissa con l'amico Rossetto. Più di un amico, padrino di una delle figlie. Poi l'oblio e di nuovo quel dolore alla caviglia. Non riuscire a sentire il potere dell'adrenalina che diventa come una droga. La dipendenza dalle corse, dall'emozione, poi tutto scompare.

Fermato anni fa per un controverso caso di controlli saltati, «Vennero a casa mia mentre ero in corsa: come si può tenere conto di un caso del genere?», persino massacrato di botte durante un allenamento. Un'auto lo sfiorò, Offredo reagì, la donna alla guida scese con un coltello e l'uomo seduto dall'altra parte lo aggredì con una mazza da baseball. «Non sono arrabbiato, sono solo deluso dalla pericolosità di questo sport» disse quel giorno «non voglio che i miei figli un giorno lo pratichino», lui che divenne ciclista sulle orme del padre.

L'ultima corsa: l'Het Nieuwsblaad 2020, il 29 febbraio. Al nord come a lui piaceva, due volte nei quindici tra Roubaix e Fiandre e adatto alle corse di un giorno, settimo alla Sanremo del 2011 quando era ancora giovane e illuso che il ciclismo gli avrebbe dato tanto quanto lui aveva sacrificato per piacergli.
Prima di lasciare il ciclismo pedalato Offredo ha commentato il Tour de France 2020 per France Televisions mostrando quell'arguzia che gli tornerà utile nel riprendere gli studi. «Il prossimo anno mi iscriverò a un master di scienze politiche, specializzazione giornalismo». Per Yoann Offredo inizia una nuova fuga: qualcosa di buono il ciclismo glielo ha lasciato.

Foto: ARN/Pauline Ballet


Con Rohan Dennis non ci si annoia mai

Rohan Dennis è un cavallo pazzo. Rifiuta l'oblio anche mentre dorme. Ce lo immaginiamo girarsi e rigirarsi nel letto per paura che le ore di sonno possano togliere forza al suo estro. Nasce nuotatore, ispirandosi all'istinto killer di Kieran Perkins, aspira alla trasformazione vincendo su pista e poi mutando forma abilmente, cronoman prima e persino scalatore. Già, scalatore... perché come chiamereste voi uno che spiana in quella maniera Stelvio e Sestriere? Alla sua ruota Geoghegan Hart ha costruito il successo al Giro d'Italia, inutile girarci intorno, ma non c'è molto da stupirsi, ai cavalli pazzi vanno sempre attribuite imprese leggendarie.

E lui voleva entrare nella leggenda, proprio come il capo tribù indiano. Nel 2016 afferma: «Se uno come Wiggins è riuscito a vincere un Tour de France, allora ci posso riuscire anche io». Ognuno conosce i propri limiti e di lui si sa che, nonostante sia un corridore eccentrico e a volte permaloso, in bicicletta ha sempre dimostrato di essere professionale, maniaco dei dettagli e capace di allenarsi ai limiti del fachirismo.
Spesso cerca situazioni complicate come girasse con un lanternino in mano e un grosso cartello scritto sulla testa: “Eccomi situazioni complicate!”, ma è solo il lato umano e perciò debole del suo carattere.

La sua carriera è una di quelle che andrebbe analizzata con dovizia, la sue uscite, la sua mentalità, le sue scelte lo fanno sembrare un po' matto, benevolmente assurdo. Soffre di una sindrome particolare, l'essere bizzarro come tutti gli australiani (ancora ne dobbiamo scoprire uno “normale”), ma con lui si tocca l'estremo. Rifiuta il conformismo? O è solo la sua realtà vista da fuori che appare a tratti indecifrabile?

Episodi? Ci vorrebbe un'infinita sequenza di byte per esprimerli tutti. Sportivamente parlando si manifesta come un'eccellenza anche se i suoi colpi di testa a volte hanno fatto dimenticare ciò che di buono ha costruito nell'arco della sua carriera. Titoli mondiali a squadre ai tempi della BMC, un Record dell'Ora firmato nel 2015 fermando la distanza a 52,491 km. «Stanco ma distrutto», disse quel giorno, quasi come se non avesse avuto nemmeno tempo di goderselo.
È uno di quelli capaci di vincere tappe in tutti e tre i Grandi Giri (un club allargato, è vero, ma pur sempre qualcosa da ricordare nel tempo) più svariate altre corse di grande livello, titoli su pista e su strada. Nel 2015, al Tour, conquista la maglia gialla dopo aver vinto la crono alla media record (e tutt'ora imbattuta) di 55.446 km/h su un percorso ricco di curve e insidie. È stato quinto ai Giochi di Rio nella cronometro per soli otto secondi dopo aver perso tempo decisivo a causa di una foratura. Non fosse esistito il 2020 come lo conosciamo, il podio a Tokyo non glielo avrebbe tolto nessuno - Dennis stesso permettendo.
Curve e insidie: Dennis è anche quello della fuga misteriosa dal Tour nel 2019. Alla vigilia della cronometro di Pau abbandona la corsa. Sparisce. Si dilegua in ammiraglia a un centinaio di chilometri dal traguardo di Bagnères de Bigorre. L'addetto stampa della sua squadra, la Bahrain, raccontava tempo fa in un'intervista di come sia stato quello l'episodio più difficile della sua (lunga) carriera. «In un primo momento eravamo sconcertati: il ragazzo era muto, non parlava, ma arrabbiarsi non serviva a niente; tuttavia, noi non sapevamo nulla, non capivamo come mai si fosse ritirato all’improvviso. Una volta salito sul bus, era inconsolabile: era confuso e deluso, piangeva ma non apriva bocca». Solo poco tempo prima al Giro di Svizzera teneva testa a Bernal, che avrebbe vinto il Tour, in salita.

Passate alcune settimane da quell'episodio in Francia, Dennis vince l'oro mondiale nella cronometro e facendo parlare di sé non tanto per la prestazione (o meglio, non solo, un podio che ha visto Dennis davanti a Evenepoel e Ganna, trovate di meglio?), quanto per l'aver corso su una bici con adesivi neri a coprirne il nome del costruttore. «È bello vincere, ma quando avrò 65 anni non sarà tra le prime 10 cose migliori che sono successe nella mia vita» dirà a fine corsa in una conferenza stampa tenuta dentro una chiesa adibita a incontro tra media e corridori. Dennis spiegherà la situazione vissuta in quei mesi indicando la sua testa con un dito e raccontando di quanto quel periodo fosse stato difficile non solo per lui, ma soprattutto per quelli che gli stavano attorno.
Tempo dopo, infatti, Dennis entrerà nei particolari parlando a una televisione australiana: raccontò di aver avuto una crisi di nervi durante quel Tour a causa dell'ambiente in cui correva e che per colpa di quei momenti stava per divorziare da sua moglie. «Non volevo diventare l'ennesimo dato statistico di uno sportivo divorziato».

A inizio 2020, prima di spianare lo Stelvio come un gatto delle nevi, scappa dal lockdown e lo fa in “grande stile”, à la Dennis, con tanto di post sui social che recitava più o meno: “Giorno 34, mi sono stufato e sono uscito di casa. Covid-19 puoi baciarmi il sedere”. Tempo prima Dennis si era affidato a uno psicologo dello sport, David Spindler, che come prima cosa gli fece chiudere tutti i suoi profili social. «Aveva bisogno di azzerare lo stress e divertirsi: gli ho detto di cancellare i suoi profili sui social network, intanto. Leggeva tutto quello che si diceva di lui, offese e cattiverie incluse. Gli ho fatto capire che i social network non importano poi molto e che il divertimento, di cui aveva assolutamente bisogno, lo avrebbe trovato altrove». Quell'altrove che in questo fine 2020 è sembrato trovarlo al Giro, ma mai dare nulla per certo, lo abbiamo detto, con Rohan Dennis non ci si annoia mai.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


Claudia Cretti: «Ho imparato a sognare»

Claudia Cretti ricorda bene il pomeriggio in cui i suoi genitori le posero una domanda: «Claudia sei sicura di voler tornare a correre in bicicletta? Perché non fai qualcos'altro? Possiamo cercare assieme un lavoro. Ci pensi?». Era già passato diverso tempo da quel 6 luglio 2017 quando Claudia cadde rovinosamente durante la settima tappa del Giro d’Italia femminile. Il gruppo era in provincia di Benevento, in discesa, e la velocità era folle: 90 km/ora. Da lì la corsa in ospedale, tre settimane di coma e due operazioni alla testa: «Qualche giorno prima telefonai a mamma, le dissi: ''Mi sento bene, le sensazioni sono davvero buone. Perché non vieni a vedermi a Napoli? Quella tappa te la vinco”. Sappiamo come siano andate le cose». Claudia oggi è felice e racconta quei momenti con una serenità che può sorprendere l'interlocutore: «Sono sincera, a me spiace molto di più per i miei familiari che, a livello psicologico, hanno sofferto molto più di me. Non si può neanche immaginare cosa voglia dire per un genitore arrivare di corsa in ospedale e temere che un medico esca da una stanza dicendo che la figlia non c'è più. I miei genitori hanno avuto questa paura, la stessa dei miei fratelli e delle persone che mi vogliono bene. Ho i brividi solo a pensarci».
Lei, da quando è tornata ad essere cosciente, ha avuto subito quell'idea: «La bicicletta è sempre stata il mio tutto, la mia vita. Senza bicicletta mi sarei sentita persa, non potevo rinunciarci. Per ora non posso correre tra le professioniste e ho intrapreso questa strada nel paraciclismo. Sai che è la mia spinta vitale? Mi sono posta dei traguardi e provo a raggiungerli. Spesso non si pensa a quanto questo possa fare la differenza». La differenza, a dire la verità, la bicicletta nella vita di Claudia l'ha fatta sin da piccola: «Tutto è iniziato quando sono andata con i miei genitori a vedere una gara di mio cugino. Mentre tornavo a casa continuavo a ripetere a mio papà che volevo diventare una ciclista. Lui non era molto convinto ma io so essere testarda. Al pomeriggio vedevo il Giro d'Italia e rimanevo incantata dalle imprese di Marco Pantani; l'apice fu la sua vittoria a Montecampione, non lontano da casa mia. Insistetti talmente tanto che, la notte di Natale, papà mi regalò un paio di scarpette da ciclista fucsia, il mio colore preferito. Avevo nove anni». La voce si rompe quando, parlando dei suoi idoli di infanzia, Claudia Cretti ricorda Alex Zanardi: «Alex è unico. Lo ho conosciuto ed è un vulcano di vita. Ride e scherza sempre. Sarà difficile uscire da questa situazione, per lui è la seconda volta, ma io sono sicura che ce la farà, deve farcela. Non può mollare, ce lo ha insegnato lui, no?». Ma cosa significa non mollare? «Vuol dire che quando le gambe ti fanno male, quando tutto ti fa male devi trovare il coraggio di continuare ad insistere ancora. E non sai quante volte succede nella vita di tutti i giorni».
Sono tante le persone che le sono state accanto, Claudia vuole citarne due in particolare, Ana Covrig e Francesca Porcellato: «Quando mi hanno trasferita nel secondo ospedale, Ana veniva quasi tutti i giorni a trovarmi. Quanto tempo abbiamo passato assieme, quante cose ci siamo dette. Francesca è speciale. Mi ha insegnato tantissimo, mi ha raccontato di lei e mi ha dato tanta forza». Ci sono tutte le cose che sono cambiate e che Claudia sta affrontando, fuori e dentro il ciclismo, e quelle emozioni che, dopo l’incidente, hanno iniziato ad uscire e a lasciarsi scorrere. Si è iscritta a un corso di inglese per tornare a parlarlo come una volta ed è sicura che, un domani, dopo la carriera ciclistica finirà l'università. Qualche mese fa, al Giro delle Marche, a Recanati, è tornata in sella fra le professioniste: «Certe emozioni non puoi neanche raccontarle, sono troppo belle. Magari non succederà, magari non potrò più correre con loro ma io voglio credere che un giorno questo sarà possibile. Io ci credo». Per il domani invece c'è un sogno immenso ma è bello così, altrimenti che senso avrebbe? «Voglio arrivare alle Olimpiadi, voglio arrivarci meritandomi quel posto con i risultati nel paraciclismo. Per me è tutto più difficile perché non sono abituata a questo modo di correre. In volata io era protetta dalla squadra, ora devo spingere sui pedali dal primo all'ultimo istante. Ma ci sono diversi segnali che mi danno la voglia di sognare. Per esempio quando incontro i bambini e mi guardano come solo loro sanno fare, mi fanno domande e poi scoppiano in quell'applauso. Ecco, io lì mi vedo nel futuro. Mi immagino alle Olimpiadi durante l'inno o durante la sfilata. E mi commuovo».


L'aerodinamica di Top Ganna

Per commentare la posizione in bicicletta di Filippo Ganna ci siamo rivolti a qualcuno che di aerodinamica se ne intende, Simone Origone. In sintesi? L'uomo più veloce del mondo senza l'ausilio di mezzi meccanici.

Dodici coppe del mondo, sei ori mondiali, un argento. Tre record mondiali consecutivi e un miglior tempo personale che oggi resta la seconda prestazione di sempre. Un tempo realizzato che solo a leggerlo fa strabuzzare gli occhi: 252,987 km/h. Su un paio di sci.

Simone Origone è una leggenda dello sport italiano; nello specifico è una leggenda di uno sport che mi permetto di definire un po' folle – non me ne voglia, ma lo saprà meglio di tutti - e che ti lascia una sorta di strana ebrezza solo a chiudere gli occhi e pensarlo: la velocità sugli sci.
Ma Origone è anche un appassionato di ciclismo. «Solo un semplice appassionato» specifica, quando gli chiedo a fine chiacchierata se darebbe qualche consiglio a Filippo Ganna sulla sua posizione in bicicletta. Filippo Ganna che ancora non è leggenda, ma che da tempo si sta affrettando a scrivere il suo nome nei libri di storia. «Non mi permetterei mai di dargli un consiglio» risponde, accompagnando il tutto con una fragorosa risata.
Gli abbiamo dato una foto di Filippo Ganna in azione a cronometro, in posizione. Origone la guarda, la analizza e ci spiega qualcosa, frutto della sua sensibilità e della sua esperienza.

«Ganna in bici è praticamente perfetto. Oltre a delle doti fisiche pazzesche lui ha una fortuna: quella di avere delle forme fisiche aerodinamiche. È alto, longilineo e come succede nel nostro sport i longilinei sono avvantaggiati. Il fatto di essere alto lo aiuta in qualche modo e quando lo vedi pedalare è sempre composto. Il profilo della schiena è piatto, fermo, la posizione delle mani e quella dei gomiti è perfetta: è il frutto di quello su cui ha studiato e lavorato in questi anni per ottenere il massimo della efficienza. E poi non va messo in secondo piano il fatto di correre in una squadra che non lascia nulla al caso e si vede. E anche lui non lascia nulla al caso: lo capisci da questa ricerca della perfezione che puoi cogliere in tutti i minimi particolari: anche solo nella posizione in cui tiene le mani. C'è talento, ma dietro c'è una maniacale cura del dettaglio» .

Viene naturale chiedere a Origone come si arriva, oltre a doti naturali, ad ottenere questa perfezione, sia nel ciclismo, sia nella sua specialità dove l'attenzione a ogni minimo particolare può fare la differenza, può permetterti di limare quei centesimi che poi risultano decisivi quando si corre contro un cronometro, quando si corre contro il tempo, mai termine più adatto nel caso della velocità sugli sci. E naturalmente il discorso cade sulla galleria del vento. «Lavorare in una galleria del vento è fondamentale. È essenziale sia nel mio sport, sia nel ciclismo. Il mio primo record del mondo senza galleria del vento non lo avrei fatto. Era l'autunno 2005 quando andai da Pininfarina e imparai dettagli sulla posizione che sulla neve non avrei capito. A parità di prestazioni tecniche e fisiche se riesci a migliorare l'aerodinamica migliori l'efficienza. Quando io andavo in una galleria del vento ho trovato spesso parecchi ciclisti: per un corridore al top come Ganna è essenziale curare al meglio la posizione e raggiungere il più possibile la perfezione» Ma un lavoro in galleria del vento non basta, ci dice Origone. «La galleria del vento ti dà la possibilità di fare tuoi dettagli che altrimenti non riusciresti a capire, ma poi la parte più difficile è portare quello che sviluppi in galleria del vento sulla strada nel caso dei ciclisti, sulla pista da sci per noi».

Origone spiega poi come sia fondamentale un passo successivo che non riguarda solo l'efficienza della posizione, ma anche lo studio dei materiali «Una volta che trovi la tua posizione migliore, in galleria del vento inizi a lavorare anche sui materiali, soprattutto sui body». Infine, gli pongo la domanda fatidica: ma questa benedetta posizione perfetta, esiste? «Si dice che la forma aerodinamica perfetta sia la forma a goccia, io posso dire che quello che ognuno può fare è adattare la posizione alle proprie forme fisiche». Tra Ganna e Origone, il risultato sembra ben riuscito.

Foto Ganna: Gabriele Facciotti/Pentaphoto
Foto in galleria del vento: Andrea Gallo


Un racconto di fango e pietre oppure una stagione senza Roubaix

Che strazio: un anno senza Parigi-Roubaix. Che paura guardare Arenberg vuota, ferma e silenziosa come una vecchia fotografia invernale. Non ci può essere più scherzo bislacco di una Roubaix bagnata, con freddo e vento e che non si può disputare.

Immaginatevi: una nebbiolina avvolge la foresta e una mandria di corridori imbizzarriti ci si lancia dentro, dove a sfidarsi in prima fila ci sono i Diòscuri del ciclismo, van Aert e van der Poel. E invece è l'horror vacui. Come quando il re dei sogni scende all'Inferno e lo trova svuotato da tutte le anime dannate.
Immaginatevi. Chiudete gli occhi e fate volare il pensiero verso Arenberg, l'infame. Quel pavimento lastricato che compone il suo settore: veleno per le gambe dei corridori. Immaginatevi le pietre che lo ricoprono, ricche di insidie e di aneddoti. Pietre che hanno visto cavalieri ritornare a casa dopo lunghe battaglie e soldati feriti marciare; carri trasportare carbone o mezzi agricoli dissestarne la pavimentazione. Sassi tagliati in modo ingiusto e che ridono malignamente quando le ruote fanno loro il solletico e si sentono colpevoli quando durante la Parigi-Roubaix qualcuno finisce a terra e si fa male. E oggi? Oggi i corridori vivranno stati d'animo schizofrenici: ci sarebbe potuti essere e avrebbero rischiato, si sarebbero fatti male, avrebbero sofferto. Invece non ci sono ma sognano di esserci.

Immaginatevi quel tratto: un sentiero oscuro chiamato anche Drève des Boules d'Hérin, dove boules sta per bocce, oppure qualcosa di simile a bouleaux, betulle, come quelle che circondano i duemila e quattrocento metri di strada fino all'uscita.
Durante l'anno, da quelle parti, tutto sembra immobile e appartenente a un'altra epoca - un po' come accadrà oggi. L'area è protetta, in letargo. C'è una sbarra: il transito è vietato alle automobili. Sopravvissuta alla legge dell'asfalto, dal 1992 è monumento nazionale. Sul sito dell'associazione "Les Amis de Paris-Roubaix", uno slogan recita: "Senza pavé non c'è la corsa", loro, come guardiani di questo tempo perduto, hanno il compito di scovare nuovi tratti in pavé, restaurarli e salvaguardarli, in barba a contadini, agricoltori e amministrazioni; tra febbraio e marzo si piegano sulle gambe per sistemare le pietre sconnesse. Angeli a guardia dell'inferno. Quest'anno resta il pavé, ma non la corsa.

Allora quella possiamo solo continuare a immaginarla, a studiarla, a ricamarla. Possiamo sentirla: come l'aria di quelle parti tutta intrisa di carbone, o raccontarla. Come Emile Zola che scrisse di Étienne Lantier, il quale, dopo aver preso a schiaffi il suo datore di lavoro, fu licenziato e si trasferì a lavorare nelle miniere della vicina Anzin. Frustrato dalle condizioni di lavoro organizzò diversi scioperi e rimase bloccato in una delle gallerie a seguito di un'esplosione organizzata dall'anarchico Souvarine.

Le miniere tutte intorno producevano carbon fossile collante adatto alla produzione di metalli, e il terreno grigiastro e polveroso che sfila lungo il pavé a schiena d'asino ne è la prova. Jean Stablewski, diventato poi Stablinski, ne è testimone; cresciuto a Wallers, da dove passa la corsa e da dove nasce e muore Trouée d'Arenberg, fu lui a rivelare agli organizzatori dell'epoca l'esistenza di questo tratto; su questo ciottolato ci passava in bicicletta nelle ore libere dal lavoro, prima di fuggire da quelle miniere e rifugiarsi nel ciclismo. «Sono l'unico uomo al mondo che è passato sotto le gallerie che tagliano la Foresta e che poi c'ha pedalato sopra». Ora una stele all'entrata lo ricorda.

Qui è difficile costruire un successo, mancano troppi chilometri alla conclusione, se cadi o fori hai tempo per recuperare, ma al termine del suo segmento l'acido lattico ti arriva fino alle orecchie. Qui Johan Museeuw rischiò di porre fine alla sua carriera. Cadde, si frantumò il ginocchio che si infettò a causa di merda di cavallo e rischiò l'amputazione. Redento, ritornò e la vinse altre due volte. Lo scorso anno van Aert cadde e provò una rimonta malriuscita: quest'anno sarebbe andata diversamente, ci potremmo giurare.

Questo posto ha tanti nomi, come uno spauracchio, come un demone. Pierre Chany fu il primo a chiamarlo Tranchée d'Arenberg, perché la sua cupezza ricordava i condotti tagliati dalle trincee durante la prima guerra mondiale. È Trouee d'Arenberg, è la Foresta di Arenberg, o semplicemente Arenberg, l'infame. Per i corridori è solo l'inizio dell'incubo e la fine dei sogni che da qui in poi si tramutano in brusco risveglio, per la Parigi-Roubaix è un segno identificativo.
Le azioni decisive qui sono state fatte di rado, perché ha più senso, in una corsa che non ne ha, attaccare sul settore di Mons-en-Pévèle quando mancano una cinquantina di chilometri all'arrivo e la strada è tutta polvere e buche. Ci provò Štybar senza successo un paio di anni fa, zigzagando tra le canalette e respirando sabbia a pieni polmoni; Boonen, per la sua quarta vittoria alla Roubaix, staccò Terpstra, suo compagno di squadra, a Auchy-lez-Orchies, quando mancavano più di cinquanta chilometri a Roubaix. Sul settore di Templeuve attaccò Ballerini nel 1995 e al traguardo ne mancavano poco più di trenta. Sagan si differenzia sempre e per vincere nel 2018 sceglie un anonimo tratto d'asfalto per salutare la compagnia. Qualcuno opta per il Carrefour de l'Arbre (Cancellara per la sua prima Roubaix dopo aver selezionato il gruppo già dalla Foresta) o dintorni: per la sua prima volta Boonen nel 2005 sceglie Gruson.

Inserito nel finale e dove la gara si può ancora decidere o rimescolare, il Carrefour de l'Arbre è un tratto con curve malefiche, tifosi che rischiano di invadere la strada, terreno dissestato tra sassi e lastre d'asfalto che creano vere e proprie buche; qui Vanmarcke nel 2016 provò l'azione risolutiva, ma fu ripreso e poi Hayman beffò Boonen nel velodromo di Roubaix. Dove prima o poi, per fortuna o purtroppo, si arriva e tutto finisce.

Immaginatevi, infine, cosa sarebbe potuto essere nel 2020, a ottobre, con van der Poel e van Aert, con la pioggia, il vento e il freddo con Arenberg gotica e il suo abito spettrale e con tutti gli altri settori dai denti aguzzi pronti a lacerare la carne; non lo sarà, ma forse lo rivedremo tra pochi mesi. Arenberg l'infame, la Roubaix e ancora altre storie da raccontare.

Foto: ASO / Pauline Ballet


Chi ha paura di João Almeida?

Fatevi avanti coraggiosi, oggi, sulle non-troppo-ripide rampe che portano verso Piancavallo. Salita nervosa, irregolare a tratti, trampolino per impavidi, appiglio per timorosi, ma che tra freddo e vento in faccia potrà provocare dolore.

Fatevi avanti se volete ribaltare la corsa, perché fino a oggi avete avuto paura di un ragazzo che di anni ne ha ventidue, come Pogačar o Hirschi: quest'anno pare che non ne abbiamo ancora avuto abbastanza.

Quando un corridore indossa la maglia rosa, la narrazione, scritta o parlata, dà fondo a quello che è il sunto della retorica. La maglia rosa fortifica, quadruplica le forze, è un segno di eleganza e chi la indossa appare più bello e distinto di quello che è in realtà. Ti fa correre più forte, è una medicina, allevia la fatica, dà soddisfazione, alleggerisce nel suo essere un fardello, è come lo slogan su un giornalino degli anni '70: indossami - sarai soddisfatto. La squadra che ti scorta all'improvviso diventa una fratellanza, i ragazzi con i quali condividi ogni istante si tramutano in fedeli che si alimentano dall'energia che irradia il colore che porti addosso.

Il 2020 anche nel ciclismo è un anno che più strano e complicato non si poteva e immaginatevi la faccia di João Almeida che inizialmente non doveva nemmeno essere al Giro. Quando è passato sembrava già aver visto il meglio alle sue spalle, spremuto da una febbrile attività giovanile. Non ha mai vinto una corsa, non ha mai disputato un Grande Giro, l'unica Monumento non l'ha nemmeno portata a termine, e invece, a suon di costanza, scalava le gerarchie. Doveva esserci solo per dare conforto a Evenepoel, e poi eccolo lì.

Visto quanto va forte sul passo, e visto lo spunto veloce, dopo il terzo giorno è in maglia rosa e lo è ancora alla vigilia della quindicesima tappa. Per trovarne altri con più di dieci giorni in maglia rosa a meno di ventitré anni, bisognerebbe scomodare nomi di enormi talenti precoci e che per bontà lasciamo negli appunti.

Non vi fa paura uno così? Ne diciamo un'altra: quattordici tappe al Giro d'Italia 2020, mai fuori dai venticinque; quattro volte sul podio di tappa. Certo, di "salite vere" - corsi e ricorsi retorici - non ne abbiamo ancora viste e oggi, lo diciamo fuori dai denti, la possibilità di perdere la maglia rosa c'è ed è concreta - Kelderman, gettonatissimo.

In Portogallo si dice "Barriga cheia cara alegre" - pancia piena volto allegro - a noi, ammiratori di facce, il viso di Almeida sembra sempre attento e in tensione, la maglia rosa fa paura e cura la tristezza.

Un giorno, sul petto di un uomo alla deriva, e descritto alto e biondo come una birra, fu trovato scritto un messaggio: "Sono nato per rivoluzionare l'Inferno". Almeida forse (ancora) non osa così tanto, ma agli altri sembra far davvero paura.

Foto: Gabriele Facciotti/Pentaphoto


Sono Jhonatan Narvaez e arrivo dal freddo

Scruto negli occhi i miei avversari e vedo visi solcati dalla fatica, facce intrise di paura, agonismo e agonia. La pioggia picchia sulle nostre teste, passa attraverso un rigagnolo creatosi tra occhio e naso, e va a formare una valle di lacrime. Cambi regolari. Spengo la radiolina e poi la riaccendo come un tic nervoso. La strada è pericolosa e riflette un cielo diventato nero. Ho le mani fredde ma pedalo come se nulla fosse. Mi sposto per far passare un avversario, chiudo il buco, si sale e si scende: quale sporca abitudine. L'acqua si infila dappertutto, ci prende a schiaffi e ci fa soffrire.

Mi chiamo Jhonatan Narvaez. Ho la pelle scurissima tanto che mi hanno sempre scambiato per colombiano. In effetti sono nato al confine con quella terra e per diventare seriamente ciclista spesso mi sono spostato di là. Chi mi ha scoperto è andato in giro per l'Europa a dire che sono forte, addirittura fortissimo, che assorbo facilmente quello che mi viene spiegato, ma non vorrei che si sapesse troppo che imparare l'inglese per me è stato più difficile che andare in salita.

Sono forte sul passo, ho vinto titoli in pista e a cronometro. Ho spunto veloce. La prima volta che sono venuto in Europa mi hanno sottoposto a dei test fisici dai risultati, a sentir loro, sbalorditivi. Io sono sempre “andato”, senza preoccuparmene. Salita, discesa, pianura, volata, pista: insomma davvero forte ovunque.
Salita. Per arrivare a casa mia ho percorso migliaia di volte un “puerto”, come diciamo noi in spagnolo, di cinque chilometri. Mi allenavo in montagna e quindi le salite al Giro non mi fanno troppa paura. Leggo dappertutto scritte che richiamano al Pirata Pantani. Lui davvero andava forte in salita, davvero non aveva paura in bicicletta. Quando vinceva il Giro, io avevo un anno, e dalle nostre parti non si faceva che parlare di quella volta che c'è stato il Mondiale in Colombia e lui arrivò sul podio.

Pista. Ho fatto il record mondiale di inseguimento giovanile sui tremila metri. Non sono Ganna, è vero, ma nemmeno uno sprovveduto.
Tra questi compagni di sventura in fuga non sono molto conosciuto non fosse per la squadra in cui corro. Non ho la verve di Pellaud, quello attaccherebbe anche nelle tappe di riposo; non parlo con l'accento toscano come Clarke, non sono a caccia di un contratto come Rosskopf e Campenaerts, non sono amato da tutti come Benedetti: lui si mette davanti al gruppo e non si sposterebbe per nessun motivo. Però vado forte nelle giornate come quelle di oggi e gli altri forse non lo sanno.

In Ecuador scrivono di me che vengo dal cielo perché sono nato e ho vissuto a tremila metri di altitudine dove la temperatura media è di dieci gradi e fa sempre freddo. E piove. Cosa volete che sia un'atmosfera così per uno come me? Pensate: oggi mi sembra di stare nei Paesi Baschi, non in Romagna, un posto che adoro perché piove sempre e fa freddo. Almeno quando vado in bicicletta.

Mi chiamano “avioneta”, l'aeroplano. E quindi attacco, plano dopo l'ultima salita con un ucraino che parla in bergamasco. Lui fora. Che sport di merda il ciclismo, vero? Me ne vado, pennello le discese, un po' presuntuoso mi paragono ad un'artista. In alcuni tratti appaio indeciso perché tiro il freno e prendo meno rischi possibili: se sentiste quello che mi stanno urlando nella radiolina rallentereste anche voi. Dicono che sia timido, ma con una volontà di ferro. Conoscete ciclisti senza carattere?

Ho peccato di superbia: tre anni fa Carapaz, Caicedo ed io abbiamo fatto baldoria. Abbiamo bevuto un po' troppo durante il ritiro della nostra nazionale prima dei Giochi Bolivariani, ci hanno beccati e cacciati. Fu una leggerezza. Ci hanno espulsi ma siamo tornati. Caicedo ha vinto una tappa pochi giorni fa, Carapaz ha vinto il Giro lo scorso anno, e la storia che a casa ha un grosso tacchino che fa da guardia al Trofeo Senza Fine non so se sia vera, ma è incredibilmente affascinante.

Pianura. Guardo dritto in posizione da cronometro, faccio il mio passo, mi frullano per la testa mille pensieri. Portal, quello che so del ciclismo lo devo tutto a lui; la mia terra, Playón de San Francisco, quello che sono lo devo all'Ecuador. Mio fratello, la scuola di Medicina che mi avrebbe accolto se non mi trovassi dove sono oggi, le corse in Francia dove mi sembravano tutti matti, ma se ho imparato a correre è perché lì si fa sul serio. Vedo il mare, ci sono delle giostre chiuse che sembrano carcasse di mostri giganti. Poco più in là il traguardo. La pioggia: anche in una giornata come oggi è benedetta, mi è amica. Quanto mi piace la pioggia? Quello che per gli altri sono schiaffi per me sono carezze. E un clima così? Non potrei volere altro. D'altronde sono Jhonatan Narvaez e arrivo dal freddo.

Foto: Gabriele Facciotti/Pentaphoto


Il numero 94, il numero 1 e altre storiellette

Fa freddo e c'è vento. È quasi buio pur essendo passato da poco mezzogiorno. Le mani sono intirizzite. Cerco di scaldarmele come posso e la possibilità migliore me la dà una vecchia osteria con i mattoni a vista che ha la fortuna di affacciarsi sul rettilineo d'arrivo.

So che i corridori passeranno almeno tre volte sul traguardo e quindi c'è tempo di bere qualcosa per provare sollievo e acclimatarsi per bene scambiando due chiacchiere e scattando pure qualche foto. Arriva un massaggiatore di una squadra che funge da vivaio per un team di professionisti. Anticipa il gruppo, entra nel bar e chiede di riempire le borracce con del tè caldo. La barista sgrana gli enormi occhi verdi ed esclama: «Abbiamo fatto fuori trecento bustine di tè!» gli dice «E non possiamo nemmeno muoverci da qui perché la strada è chiusa» alludendo al passaggio dell'ultima tappa del Giro del Friuli.
Perché se fa freddo per noi che siamo chiusi al caldo con la compagnia di un bicchiere di rosso della casa, immaginarsi chi sta in strada. C'è bisogno di qualche bevanda calda per i ragazzi e di ogni malizia. Ogni tanto vanno strigliati perché «oggi non ce la faccio» dicono, ma è stata una corsa dura e si chiude un occhio, e se qualcuno preferisce fermarsi questa non è la giornata per usare il bastone «perché nei momenti di sconforto vanno sempre supportati» mi raccontava un direttore sportivo proprio nei giorni scorsi.

L'abbigliamento è importante mi dice il componente dello staff di un'altra squadra, anche lui passato al volo in quel bar chiedendo «Tè caldo, per favore!» per riempire qualche borraccia. «Se oggi sbagli qualcosa sei letteralmente fottuto». Testuale. E di quel gruppo di centoquaranta ragazzi, di fottuti, per usare il termine che mi frulla ancora per la testa, ne sono quasi la metà. «Vestirsi in modo adeguato è fondamentale, il problema però sono le gambe: scoperte e al freddo per tutto il giorno».

Arriva il primo corridore ritirato; lo avevo già notato alla partenza un paio di ore prima, si era staccato subito dopo il via mentre la pioggia era forte, quasi una bufera, sembrava bava appiccicosa. Poggia la sua bici, una Scott gialla con il numero novantaquattro, su una botte ornamentale fuori dall'ingresso dell'osteria. Entra battendo i denti, completamente grondante pioggia come una bistecca al sangue. Lo sguardo è perso, il viso assume tratti violacei. «Bevi qualcosa di caldo» gli faccio. «No, grazie. Fra un po' arriva l'ammiraglia» risponde lui. Un'ora dopo è ancora lì, impietrito verso la porta, continua a battere i denti come stesse parlando l'alfabeto della fatica e dello strazio e nel frattempo il bar continua a riempirsi di corridori. Ci sono i bulgari: si ritireranno tutti in un colpo dopo aver chiuso regolarmente in coda ogni tappa. Volevano onorare la corsa e lo hanno fatto, ma il livello è davvero alto. A loro importava soltanto esserci.

Arriva un corridore dietro l'altro; si fermano, cercano l'ammiraglia. Alcuni sembrano reduci, altri naufraghi: hanno diciannove, venti, ventuno, ventidue anni, alcuni anche venticinque o ventisei e persino più di trenta. Un ragazzo si è fermato, ha poggiato la bici e si è tolto gli scarpini. Ha i calzini fondi d'acqua e ora corre sul marciapiede in mezzo alle pozzanghere cercando qualcuno, forse un parente, un collega o forse scappa semplicemente perché non sa che fare come quando un ciclista va in fuga sapendo di essere ripreso. Sono spaesati, contriti, chi gliela fa fare? chiedevo giorni fa a un ex corridore. «La crudeltà di questo sport è che pedali con ogni tipo di clima, e fai fatica, fisica e mentale e poi non sai nemmeno se l'anno dopo continuerai a correre o se quello che stai facendo diventerà il tuo mestiere».

Il mestiere che sarà di sicuro quello del numero uno della corsa, un norvegese alto con i capelli rossi e le lentiggini, ha dominato e l'anno prossimo correrà tra i grandi mentre tutti bisbigliano: “è un predestinato”. A fine gara la sua fame non è placata nemmeno dalle tre maglie conquistate e dalle due tappe: divora una pizza in meno di cinque minuti.

Resta tempo per accennare alla storia di quel ragazzo che arriva terzo di tappa, illuso ed esultante convinto di aver vinto: un grido di gioia che se potesse tornare indietro strozzerebbe in gola o legherebbe ben stretto con un fil di ferro. La rabbia è la sua, la delusione è quella del secondo arrivato; ha gli occhi rossi di chi non ha smesso di piangere. E non smette di piangere nemmeno un altro corridore in maglia giallo fluo. Fermo per minuti che appaiono sia a me che a lui interminabili, dietro il palco delle premiazioni. La testa è retta dal palmo delle mani e ha una caviglia gonfia e fasciata. Eppure è venuto a prendere lo stesso il premio dei traguardi volanti.

Torno indietro e passo davanti al bar e il numero novantaquattro è ancora lì che aspetta. Sta cercando di farsi caldo strusciando le mani su tutto il corpo ancora mezzo scoperto. Indossa gli indumenti di gara e chiacchiera con un altro ragazzo, lombardo sembrerebbe dall'accento. Il viso ha preso un po' più di colore, forse l'hanno convinto a bere qualcosa. Entrambi continuano a sbattere i denti e forse si capiscono così. Io invece li guardo e non capisco, ma apprezzo e domandandomi ancora una volta chi gliela fa fare, non posso che provare empatia per chi fa questo mestiere disgraziato.


Adam Hansen e l'ultimo ballo di un formidabile genio

Chissà a cosa pensa Adam Hansen mentre pedala per l'ultima volta nella sua corsa preferita «Il Giro d'Italia, dove la gente a bordo strada ti adora: qui ho trovato i veri tifosi del ciclismo». Fanno ventinove grandi Giri totali disputati con quello che sta correndo: chissà se ci penserà o gli verrà in mente qualcosa di bizzarro, geniale, struggente.

Chissà se penserà a quella volta sullo Zoncolan nella quale pedalava urlando di gioia in una delle salite più dure del mondo, abbracciato a un tifoso italiano che lo riprendeva con una GoPro; o se gli verrà in bocca il sapore di quella birra presa al volo e scambiata con una borraccia sul Monte Grappa o all'improvviso avrà il ricordo di quello scatto sull'Alpe d'Huez nel quale si vede lui, tranquillo, con una birra in mano come se stesse facendo la cosa più naturale del mondo.
Chissà se penserà ai suoi trentanove anni che lo hanno portato a fare una scelta di vita, nemmeno troppo inconsueta per uno così. «Alla fine di questo Giro, mi darò al Triathlon». Avrà la possibilità, Hansen, di staccare il cordone da quel mondo riluttante alle innovazioni. Lui studia, sperimenta, analizza, sceglie, ma l'UCI poi gli mette sempre delle regole che lui, fine ricercatore, cimentandosi nell'Iron Man potrà agilmente superare. «Non essere più vincolati dai paletti della Federazione Ciclistica Internazionale per me è fantastico» racconta a José Been sulle colonne di Cyclingtips. «Sarò come un bambino in un negozio di dolciumi. Potrò sbizzarrirmi con l'aerodinamica; potrò scegliere i miei sponsor, fare tentativi di ogni genere per la posizione in bici e per quella del manubrio».
Perché Hansen, oltre a realizzare scarpe da ciclismo ultraleggere, a stampare mascherine chirurgiche nel periodo del lockdown («C'era carenza, mi pareva una buona idea») in quello che è un vero e proprio laboratorio tecnologico nella sua casa di Frýdlant nad Ostravicí in Repubblica Ceca prova ogni sorta di innovazione perché la sua testa non sa mai stare ferma e viaggia più veloce delle sue gambe.
«Utilizzando il software Leomo testo le diverse posizioni in sella, in particolare per le prove contro il tempo. Se l'UCI non mi faceva fare nulla, con il Triathlon potrò davvero scatenarmi».
È l'uomo dei record, Adam Hansen: venti grandi giri consecutivi corsi e conclusi, uno pure con una frattura alla mano, costruisce lacci elettrici per le scarpe come fosse in Ritorno al Futuro: «Al posto di un sistema a cricchetto, un motore elettronico». Ha vinto una tappa al Giro in quello che sembra un secolo fa, è stato (lo sarà ancora per qualche giorno) un perfetto uomo squadra, pilota per velocisti e involucro umano per gli altri capitani.
Cyclist Magazine lo definisce: «Un programmatore di grande talento» tanto da tenere lezioni alla James Cook University del Queensland e aver sviluppato un software per quella che ancora per poche settimane sarà la sua squadra.

Vegano, d'inverno molla la bici e si dà allo sci di fondo, al trekking, all'escursionismo, gioca in borsa e investe nel settore immobiliare, ha persino raggiunto un campo base sull'Everest a 5.430 d'altezza, e si prepara alle corse mangiando verdura. «Noi ciclisti professionisti in realtà siamo tutti vegani» sostiene. «Durante la gara la nostra principale fonte di energia sono i carboidrati provenienti dai gel o dalle barrette energetiche».
Dice che il suo segreto è quello di pensare poco alle corse. «Gli altri interessi mi aiutano a mantenere l'equilibrio: sarei diventato matto in poco tempo se l'avessi vissuta come un'ossessione». Si definisce versatile e crede che la deriva presa dai suoi colleghi non possa portare a nulla di buono. «Molti corridori dimenticano che esiste una vita oltre alla bicicletta, certi ragazzi mi spaventano un po'. Penso che bisognerebbe inventare un programma per aiutare i ciclisti ad adattarsi al mondo reale». Paradossale.

Fra pochi giorni Adam Hansen smetterà di pedalare in gruppo, ma già ci mancherà. Trovatene un altro così.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


Daniel Felipe Martínez non è una fisarmonica

La vita di Daniel Felipe Martínez non assomiglia all'elogio di una triste fisarmonica. In lui non c'è, come scriveva Gabriel García Márquez a proposito di quello strumento “un’adolescenza dissipata, oscura, fitta di albe turbolente. I suoi migliori anni si sono dipanati nell’angolo anonimo, greve di vapori di una taverna tedesca”. Malinconico come una fisarmonica lo è piuttosto il luogo da cui proviene.

Soacha, dove nasce Dani Martínez ventiquattro anni fa, è diventata nota per il dramma legato alle “Madri di Soacha”. Nel 2008 in un paese a nord della Colombia venne ritrovata una fosse comune con quattordici corpi. Erano ragazzi spariti tempo prima da quella zona povera nei sobborghi di Bogotà, uccisi perché apparentemente coinvolti nella guerra del narcotraffico. Era tutta una messinscena, una copertura portata avanti da diversi anni per far vedere che la lotta al terrorismo funzionava. Erano i “falsos positivos”. Così riporta La Stampa: «I ragazzi venivano sequestrati o reclutati da un intermediario con la falsa promessa di un lavoro. Poi erano portati a settecento chilometri di distanza, vicino alle roccaforti delle Farc, e consegnati ai militari. Lì venivano freddati e fatti passare per guerriglieri. Con montature piene di incongruenze: l’uniforme immacolata non aveva traccia dei fori di proiettile; gli stivali, simbolo dei guerriglieri, erano infilati nei piedi sbagliati; ai cadaveri veniva messa una pistola in mano, sempre nella destra, anche ai mancini. Human Rights Watch stima che i casi di «falsos positivos» siano stati oltre tremila».

Martínez ha dodici anni all'epoca, vuole giocare a calcio e sogna di diventare l'attaccante della sua squadra del cuore, l'Atlético Nacional. «Mamma se vuoi regalarmi qualcosa, regalami un pallone» diceva. Si immagina vestito di biancoverde mentre simula le urla dei suoi tifosi raschiando il fondo della gola; lo stadio Atanasio Girardot è lo scenario e a ogni marcatura parte il grido: “Dani! Dani! Dani!”. Nella sua illusione tutti provavano per un attimo a dimenticare gli orrori che la Colombia viveva in quei decenni.

Perché a Soacha nel 1989 – Martínez non era nemmeno un pensiero – Escobar fece uccidere Luis Carlos Galan, candidato presidente. E poi c'è tutto quello che conosciamo: sequestri, ritorsioni, e ancora omicidi legati a corruzione e narcotraffico. Questo è il contesto.
Dani Martínez è ancora un bambino quando si ammala. Lo ricoverano a causa dei “nacidos” ovvero una sorta di foruncoli causati da batteri che gli si formano in tutto il corpo come una mappa delle stelle. Viene curato con antibiotici che gli fanno perdere moltissimo peso. Sua mamma dirà: “E dove sono finite le sue guance?”, racconta un giornale colombiano.

E Daniel Martínez anche a causa di quel problema si mette a fare sport per recuperare il tono muscolare, mentre a scuola si distingue come studente modello. È il primo della classe e oggi racconta che se non avesse fatto il corridore avrebbe studiato Marketing Internazionale all'Università. Lavora come commesso in un negozio e arrotonda vendendo a scuola i dolci che i genitori gli regalano. Con i pesos guadagnati un po' alla volta, si comprerà l'attrezzatura per correre in bicicletta andando a sostituire la sua vecchia monareta, una sorta di piccola Graziella che gli aveva dato suo fratello maggiore.

Ma prima di salire su una bicicletta l'episodio che cambia la sua vita. Insieme al suo amico di sempre, con il quale combinavano guai da ragazzini e grazie ai quali si riuscivano a tirare fuori dai veri problemi legati alle gang e alla droga, devono presentarsi l'ultimo giorno utile per iscriversi alla scuola calcio di quartiere. Il suo amico, però, manca l'appuntamento. Martínez è talmente deluso che scappa via piangendo. Suo fratello lo porterà a correre in bicicletta quella sera, e da lì, Dani Martínez non smetterà mai più di intonare la sua musica iniziando a trovare conforto e ispirazione proprio da chi, prima di lui, andava in bici. Quel qualcuno era proprio Yeyo, suo fratello. Hanno solo una bici e Yeyo la presta al piccolo Dani il giorno delle gare. Dani abbassa il sellino e poi batte tutti nelle kermesse di quartiere.

La sua prima gara vera e propria, invece, è un disastro. Partecipa a un criterium vicino Bogotà con un mezzo imprestatogli da un autista di autobus appassionato di ciclismo che nei suoi viaggi aveva sentito quel ragazzino blaterare di ciclismo per ore e ore, finendo per diventarne un suo tifoso – e pare lo sia ancora. La sua corsa termina dopo poche centinaia di metri. Cade, Martínez non è abituato a una bici di quel genere: ha persino i cambi!
E da lì prosegue dritto per la sua strada, un cammino che lo porta a vincere ogni settimana un trofeo sempre più importante, e con i soldi guadagnati facendo lavoretti, oltre alla bici si compra una divisa dell'Astana: Alberto Contador è il suo secondo idolo, dopo il fratello maggiore.
Lo chiamano Correcaminos, Dani, l'uccello che noi conosciamo come Roadrunner, “Beep beep”, il nemico di Willy il Coyote. Ed effettivamente è difficile da prendere quando va via. Piccolo, ma non uno scricciolo come tanti altri scalatori colombiani; teso come una corda di violino, ma sempre sorridente, Dani Martínez è uno dei corridori più riconoscibili in gruppo.

Gomiti larghi e appuntiti, schiacciato sulla sua bici, appena arrivato in Europa ha corso per un periodo in Italia con la squadra di Luca Scinto. In sordina rispetto ad altri suoi connazionali giudicati dotati di maggiore talento, Martínez ha sempre avuto la nomea di corridore perfetto per le corse a tappe. E lo dimostra la capacità di vincere sia a cronometro che in salita – proprio come Contador.

Nel 2018, mentre si allena sulle strade italiane a inizio stagione, un'automobile lo butta a terra. Martínez reagisce mandando a quel paese il guidatore che scende dalla macchina e lo massacra di botte: finirà in ospedale con un trauma cranico.

Oggi Dani Martínez è un puzzle quasi completo, porta con sé i diversi episodi della sua vita ed è uno dei più forti corridori in gruppo. Vola in salita e plana a cronometro, ma prima di vincere il Criterium del Delfinato e poi una tappa al Tour poche settimane fa, durante il lockdown ha vissuto un momento drammatico. Stava pedalando per la prima volta fuori di casa dopo due mesi. Non ce la faceva più di rulli, Zwift e tutto il resto: aveva bisogno di ributtarsi in strada, riassaporare l'avventura, l'aria, il vento. Salendo verso l'Alto de Las Palmas, un po' per far fatica un po' per godersi la vista panoramica sopra Meddelin, inizia a stare male. Vertigini, freddo, vedeva tutto nero: stava andando in ipotermia. Pensava di doversi fermare e chiamare sua moglie per farsi venire a prendere e invece resta in sella per altri settanta chilometri e torna a casa. Da lì, di nuovo, non si è mai fermato come quando suo fratello lo portò in bicicletta per la prima volta. «Non puoi pedalare e preoccuparti allo stesso tempo. Non avresti pace e tranquillità per fare ciò che ti piace di più» ama ripetere. Più che nostalgico e malinconico come una fisarmonica, è calmo come una vista su quella sua meravigliosa terra.

Foto: Bettini