Adam Hansen e l'ultimo ballo di un formidabile genio

Chissà a cosa pensa Adam Hansen mentre pedala per l'ultima volta nella sua corsa preferita «Il Giro d'Italia, dove la gente a bordo strada ti adora: qui ho trovato i veri tifosi del ciclismo». Fanno ventinove grandi Giri totali disputati con quello che sta correndo: chissà se ci penserà o gli verrà in mente qualcosa di bizzarro, geniale, struggente.

Chissà se penserà a quella volta sullo Zoncolan nella quale pedalava urlando di gioia in una delle salite più dure del mondo, abbracciato a un tifoso italiano che lo riprendeva con una GoPro; o se gli verrà in bocca il sapore di quella birra presa al volo e scambiata con una borraccia sul Monte Grappa o all'improvviso avrà il ricordo di quello scatto sull'Alpe d'Huez nel quale si vede lui, tranquillo, con una birra in mano come se stesse facendo la cosa più naturale del mondo.
Chissà se penserà ai suoi trentanove anni che lo hanno portato a fare una scelta di vita, nemmeno troppo inconsueta per uno così. «Alla fine di questo Giro, mi darò al Triathlon». Avrà la possibilità, Hansen, di staccare il cordone da quel mondo riluttante alle innovazioni. Lui studia, sperimenta, analizza, sceglie, ma l'UCI poi gli mette sempre delle regole che lui, fine ricercatore, cimentandosi nell'Iron Man potrà agilmente superare. «Non essere più vincolati dai paletti della Federazione Ciclistica Internazionale per me è fantastico» racconta a José Been sulle colonne di Cyclingtips. «Sarò come un bambino in un negozio di dolciumi. Potrò sbizzarrirmi con l'aerodinamica; potrò scegliere i miei sponsor, fare tentativi di ogni genere per la posizione in bici e per quella del manubrio».
Perché Hansen, oltre a realizzare scarpe da ciclismo ultraleggere, a stampare mascherine chirurgiche nel periodo del lockdown («C'era carenza, mi pareva una buona idea») in quello che è un vero e proprio laboratorio tecnologico nella sua casa di Frýdlant nad Ostravicí in Repubblica Ceca prova ogni sorta di innovazione perché la sua testa non sa mai stare ferma e viaggia più veloce delle sue gambe.
«Utilizzando il software Leomo testo le diverse posizioni in sella, in particolare per le prove contro il tempo. Se l'UCI non mi faceva fare nulla, con il Triathlon potrò davvero scatenarmi».
È l'uomo dei record, Adam Hansen: venti grandi giri consecutivi corsi e conclusi, uno pure con una frattura alla mano, costruisce lacci elettrici per le scarpe come fosse in Ritorno al Futuro: «Al posto di un sistema a cricchetto, un motore elettronico». Ha vinto una tappa al Giro in quello che sembra un secolo fa, è stato (lo sarà ancora per qualche giorno) un perfetto uomo squadra, pilota per velocisti e involucro umano per gli altri capitani.
Cyclist Magazine lo definisce: «Un programmatore di grande talento» tanto da tenere lezioni alla James Cook University del Queensland e aver sviluppato un software per quella che ancora per poche settimane sarà la sua squadra.

Vegano, d'inverno molla la bici e si dà allo sci di fondo, al trekking, all'escursionismo, gioca in borsa e investe nel settore immobiliare, ha persino raggiunto un campo base sull'Everest a 5.430 d'altezza, e si prepara alle corse mangiando verdura. «Noi ciclisti professionisti in realtà siamo tutti vegani» sostiene. «Durante la gara la nostra principale fonte di energia sono i carboidrati provenienti dai gel o dalle barrette energetiche».
Dice che il suo segreto è quello di pensare poco alle corse. «Gli altri interessi mi aiutano a mantenere l'equilibrio: sarei diventato matto in poco tempo se l'avessi vissuta come un'ossessione». Si definisce versatile e crede che la deriva presa dai suoi colleghi non possa portare a nulla di buono. «Molti corridori dimenticano che esiste una vita oltre alla bicicletta, certi ragazzi mi spaventano un po'. Penso che bisognerebbe inventare un programma per aiutare i ciclisti ad adattarsi al mondo reale». Paradossale.

Fra pochi giorni Adam Hansen smetterà di pedalare in gruppo, ma già ci mancherà. Trovatene un altro così.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


Daniel Felipe Martínez non è una fisarmonica

La vita di Daniel Felipe Martínez non assomiglia all'elogio di una triste fisarmonica. In lui non c'è, come scriveva Gabriel García Márquez a proposito di quello strumento “un’adolescenza dissipata, oscura, fitta di albe turbolente. I suoi migliori anni si sono dipanati nell’angolo anonimo, greve di vapori di una taverna tedesca”. Malinconico come una fisarmonica lo è piuttosto il luogo da cui proviene.

Soacha, dove nasce Dani Martínez ventiquattro anni fa, è diventata nota per il dramma legato alle “Madri di Soacha”. Nel 2008 in un paese a nord della Colombia venne ritrovata una fosse comune con quattordici corpi. Erano ragazzi spariti tempo prima da quella zona povera nei sobborghi di Bogotà, uccisi perché apparentemente coinvolti nella guerra del narcotraffico. Era tutta una messinscena, una copertura portata avanti da diversi anni per far vedere che la lotta al terrorismo funzionava. Erano i “falsos positivos”. Così riporta La Stampa: «I ragazzi venivano sequestrati o reclutati da un intermediario con la falsa promessa di un lavoro. Poi erano portati a settecento chilometri di distanza, vicino alle roccaforti delle Farc, e consegnati ai militari. Lì venivano freddati e fatti passare per guerriglieri. Con montature piene di incongruenze: l’uniforme immacolata non aveva traccia dei fori di proiettile; gli stivali, simbolo dei guerriglieri, erano infilati nei piedi sbagliati; ai cadaveri veniva messa una pistola in mano, sempre nella destra, anche ai mancini. Human Rights Watch stima che i casi di «falsos positivos» siano stati oltre tremila».

Martínez ha dodici anni all'epoca, vuole giocare a calcio e sogna di diventare l'attaccante della sua squadra del cuore, l'Atlético Nacional. «Mamma se vuoi regalarmi qualcosa, regalami un pallone» diceva. Si immagina vestito di biancoverde mentre simula le urla dei suoi tifosi raschiando il fondo della gola; lo stadio Atanasio Girardot è lo scenario e a ogni marcatura parte il grido: “Dani! Dani! Dani!”. Nella sua illusione tutti provavano per un attimo a dimenticare gli orrori che la Colombia viveva in quei decenni.

Perché a Soacha nel 1989 – Martínez non era nemmeno un pensiero – Escobar fece uccidere Luis Carlos Galan, candidato presidente. E poi c'è tutto quello che conosciamo: sequestri, ritorsioni, e ancora omicidi legati a corruzione e narcotraffico. Questo è il contesto.
Dani Martínez è ancora un bambino quando si ammala. Lo ricoverano a causa dei “nacidos” ovvero una sorta di foruncoli causati da batteri che gli si formano in tutto il corpo come una mappa delle stelle. Viene curato con antibiotici che gli fanno perdere moltissimo peso. Sua mamma dirà: “E dove sono finite le sue guance?”, racconta un giornale colombiano.

E Daniel Martínez anche a causa di quel problema si mette a fare sport per recuperare il tono muscolare, mentre a scuola si distingue come studente modello. È il primo della classe e oggi racconta che se non avesse fatto il corridore avrebbe studiato Marketing Internazionale all'Università. Lavora come commesso in un negozio e arrotonda vendendo a scuola i dolci che i genitori gli regalano. Con i pesos guadagnati un po' alla volta, si comprerà l'attrezzatura per correre in bicicletta andando a sostituire la sua vecchia monareta, una sorta di piccola Graziella che gli aveva dato suo fratello maggiore.

Ma prima di salire su una bicicletta l'episodio che cambia la sua vita. Insieme al suo amico di sempre, con il quale combinavano guai da ragazzini e grazie ai quali si riuscivano a tirare fuori dai veri problemi legati alle gang e alla droga, devono presentarsi l'ultimo giorno utile per iscriversi alla scuola calcio di quartiere. Il suo amico, però, manca l'appuntamento. Martínez è talmente deluso che scappa via piangendo. Suo fratello lo porterà a correre in bicicletta quella sera, e da lì, Dani Martínez non smetterà mai più di intonare la sua musica iniziando a trovare conforto e ispirazione proprio da chi, prima di lui, andava in bici. Quel qualcuno era proprio Yeyo, suo fratello. Hanno solo una bici e Yeyo la presta al piccolo Dani il giorno delle gare. Dani abbassa il sellino e poi batte tutti nelle kermesse di quartiere.

La sua prima gara vera e propria, invece, è un disastro. Partecipa a un criterium vicino Bogotà con un mezzo imprestatogli da un autista di autobus appassionato di ciclismo che nei suoi viaggi aveva sentito quel ragazzino blaterare di ciclismo per ore e ore, finendo per diventarne un suo tifoso – e pare lo sia ancora. La sua corsa termina dopo poche centinaia di metri. Cade, Martínez non è abituato a una bici di quel genere: ha persino i cambi!
E da lì prosegue dritto per la sua strada, un cammino che lo porta a vincere ogni settimana un trofeo sempre più importante, e con i soldi guadagnati facendo lavoretti, oltre alla bici si compra una divisa dell'Astana: Alberto Contador è il suo secondo idolo, dopo il fratello maggiore.
Lo chiamano Correcaminos, Dani, l'uccello che noi conosciamo come Roadrunner, “Beep beep”, il nemico di Willy il Coyote. Ed effettivamente è difficile da prendere quando va via. Piccolo, ma non uno scricciolo come tanti altri scalatori colombiani; teso come una corda di violino, ma sempre sorridente, Dani Martínez è uno dei corridori più riconoscibili in gruppo.

Gomiti larghi e appuntiti, schiacciato sulla sua bici, appena arrivato in Europa ha corso per un periodo in Italia con la squadra di Luca Scinto. In sordina rispetto ad altri suoi connazionali giudicati dotati di maggiore talento, Martínez ha sempre avuto la nomea di corridore perfetto per le corse a tappe. E lo dimostra la capacità di vincere sia a cronometro che in salita – proprio come Contador.

Nel 2018, mentre si allena sulle strade italiane a inizio stagione, un'automobile lo butta a terra. Martínez reagisce mandando a quel paese il guidatore che scende dalla macchina e lo massacra di botte: finirà in ospedale con un trauma cranico.

Oggi Dani Martínez è un puzzle quasi completo, porta con sé i diversi episodi della sua vita ed è uno dei più forti corridori in gruppo. Vola in salita e plana a cronometro, ma prima di vincere il Criterium del Delfinato e poi una tappa al Tour poche settimane fa, durante il lockdown ha vissuto un momento drammatico. Stava pedalando per la prima volta fuori di casa dopo due mesi. Non ce la faceva più di rulli, Zwift e tutto il resto: aveva bisogno di ributtarsi in strada, riassaporare l'avventura, l'aria, il vento. Salendo verso l'Alto de Las Palmas, un po' per far fatica un po' per godersi la vista panoramica sopra Meddelin, inizia a stare male. Vertigini, freddo, vedeva tutto nero: stava andando in ipotermia. Pensava di doversi fermare e chiamare sua moglie per farsi venire a prendere e invece resta in sella per altri settanta chilometri e torna a casa. Da lì, di nuovo, non si è mai fermato come quando suo fratello lo portò in bicicletta per la prima volta. «Non puoi pedalare e preoccuparti allo stesso tempo. Non avresti pace e tranquillità per fare ciò che ti piace di più» ama ripetere. Più che nostalgico e malinconico come una fisarmonica, è calmo come una vista su quella sua meravigliosa terra.

Foto: Bettini


Primož Roglič: il mondo in un istante

Nel momento in cui tagliava il traguardo della cronometro de La Planche des Belles Filles al Tour, Primož Roglič aveva una faccia che non poteva generare alcun tipo di malinteso. I suoi pensieri non li potevamo conoscere, ma erano facili da intendere; la faccia non mentiva, mentre saliva a fatica, brutto da vedere sulla sua bici, come non si era mai visto prima, e non serviva essere dentro la sua testa – per altro coperta a fatica da un casco antiestetico che pareva andare da tutte le parti - per cercare di interpretarlo.

Il mondo, quello sportivo, pareva essergli crollato addosso in un istante. Tutto, insieme alle sue certezze e a quelle della sua squadra, sembrava assumere contorni nebulosi. Una scampagnata nei Vosgi trasformata in un martirio. Soccombeva a chi arrivava prima di lui al traguardo; dopo di lui, in una presunta linea temporale di nascita, a pochi chilometri di distanza, se invece tutto ciò vogliamo ridurlo a una storia di provenienza.
Una settimana dopo, Primož Roglič si batteva come poteva: dalla Francia a Imola, avremmo potuto intitolare. Pogačar, quel ragazzo più giovane e descritto sopra in poche righe, gli apriva la strada; lui cercava di tenere il ritmo dei migliori, chiudeva sesto, beffato in corsa e umiliato da fischi e critiche da chi, dal Belgio, ripeteva: «Ma come si è permesso di non aiutare van Aert dopo quello che van Aert ha fatto per lui al Tour?» E niente, forse per qualcuno lo stato delle gambe non contava, ma va beh.

E contavano, invece, gambe e facce, e tutto sembrava uno scritto occulto, ieri, sul traguardo di Liegi. Alaphilippe? Una saetta ubriaca. Scartava da tutte le parti con quel suo modo sempre febbrile di interpretare le corse, quelle sue sceneggiate in bicicletta che sono forza, ma a volte anche limiti. Metteva giù la testa, e quasi in modo metaforico sembrava puntare una bandiera slovena sventolante a bordo strada. A destra, poi a sinistra rischiando di far cadere “tutti”. Sul traguardo alzava le braccia per godersi quel momento e farlo suo, soltanto suo, ingannando se stesso e fotografi, ingannando una corsa che da oltre un secolo bacia la primavera belga – e per una volta fa l'amore con l'autunno.

Alzava le braccia, Alaphilippe, spadaccino infilzato da Primož Roglič che non aveva compreso la portata di quell'istintivo colpo di reni. “Istant Karma”, lo ha definito Tylor Phinney prendendosi gioco di Alaphilippe, pochi minuti dopo il verdetto dei giudici che declassavano il francese al quinto posto.
Dalla Francia al Belgio passando per Imola e dagli sberleffi belgi, quel destino ci ha messo un po' di tempo prima di ingraziarsi nuovamente il talento di Primož Roglič. Uno che faceva altri sport, che faceva l'amatore, che sembrava non avere nulla a che fare con il ciclismo: scambiato per sgraziato oppure per inscalfibile. Per una volta, dopo interminabili settimane, nuovamente cavaliere di ventura e col mondo ai suoi piedi.

Foto: Bettini


Alessandro Tonelli spiega la fuga

Se vi capita di scorgere la lista di partenza di una qualsiasi corsa e di leggere "Alessandro Tonelli" fra gli iscritti, allora già sapete che lui, molto probabilmente, andrà in fuga. Solo di recente è successo alla Milano-Sanremo, ha proseguito poi alla Tirreno-Adriatico come fossero azioni collegate l'una all'altra, ma in realtà accade così tante volte da non riuscire nemmeno ad avere un dato certo. «Ma non è che io vada in fuga tanto per fare» esordisce così Alessandro Tonelli, ventottenne della provincia di Brescia, per la precisione di Bornato, come spiega qualsiasi guida che parla di quella zona e come sottolinea lui, fiero, «Nel cuore della Franciacorta dove si produce il famoso vino».

«Andare in fuga è l'unico modo che ho per vincere» ribadisce. Al Giro d' Italia di due anni fa, l'unico al quale abbia partecipato fino a oggi, il ragazzo della Bardiani-CSF-Faizanè ci provò almeno tre o quattro volte: non è sicuro nemmeno lui del numero preciso, mentre ce lo racconta.
Tuttavia, Alessandro Tonelli è un ragazzo pratico; lo capisci dal primo scambio di parole: per lui le fughe non sono mai un romantico sogno d'evasione, quanto un concreto atto verso la libertà. E quando ci sei dentro non è che hai tempo di pensare ad altro, se non alla corsa. Un gioco macabro con il gruppo che ti insegue, acqua che prova a spegnere il fuoco, una partita a scacchi a dimensione umana e dove i muscoli e le gambe muovono le pedine. «E la testa fa la sua parte. Perché la fuga, se vuoi che arrivi, devi saperla gestire, devi batterti con il gruppo, provare a ingannarlo, ma non tutti ci riescono e soprattutto, il bello o il brutto dipende dal punto di vista, è che la fuga non sempre va all'arrivo». Che sia quello il suo fascino? Che sia quello il motivo che ci spinge a raccontare più spesso e volentieri l'ultimo del gruppo oppure le storie di anarchici fugaioli, piuttosto che cannibali e tiranni? «Io da sempre vado all'attacco: era così da ragazzo, è così adesso. L'unica corsa che ho vinto tra i professionisti, nel 2018, l'ho vinta dopo un fuga».

Puoi metterci tutta la forza che hai, puoi sbizzarrirti con tutta la tattica che vuoi, ma «Il destino di una fuga alla fine lo decide il gruppo. Due anni fa al Giro gli attacchi da lontano non arrivarono quasi mai, lo scorso anno sono arrivati praticamente tutti. Classifica generale e squadre dei leader ne condizionano il buon esito». Lo abbiamo definito macabro, ma appare quasi ingiusto: sembra di avere il proprio destino stretto nelle mani di qualcun altro, ma non c'è solo questo. «Prendere la fuga non è mai semplice. A parte nelle tappe che sai che finiranno in volata e allora va via una fuga all'inizio che verrà ripresa, andare all'attacco diventa questione di gambe. Di colpo d'occhio, di tempismo. In fuga ti ritrovi anche signori corridori. Alla Tirreno-Adriatico ero con van der Poel e Visconti, alla Milano-Sanremo eravamo i bresciani: Cima, Frapporti e io. C'è stata una tappa alla Tirreno dove ci sono voluti settantacinque chilometri per portare via, di forza, la fuga».

E per una volta che non va in fuga Alessandro Tonelli rischia di lasciarci la pelle e non è un modo di dire. Siamo in Cina al Tour of Qinghai Lake. È la sesta tappa. Il gruppo sbanda a causa di una folata di vento «Fa un'onda, come si dice in gergo, e io, che ero all'estremità del plotone, mi trovo sbalzato contro un paletto: da cinquanta chilometri orari a zero nel solo impatto. Svengo, non ricordo più nulla e mi risveglio in ospedale. Dieci costole rotte, la scapola fratturata e uno pneumotorace. Resto in Cina per quarantatré giorni: una quindicina di ospedale a Xining a quasi 2.500 metri di altitudine. Il problema era che non potevo tornare a casa in Italia, senza aver pienamente recuperato. E allora avevo una badante che mi aiutava a cambiarmi e a mangiare, una traduttrice dal cinese all'inglese per riuscire a farmi capire almeno dai dottori, e per fortuna dopo qualche giorno anche mia sorella: la Cina è lontana e avevo bisogno dell'affetto di un familiare» racconta sereno, cosciente che quell'episodio, inevitabile, fa parte oramai del suo bagaglio d'esperienza.

E quanto Alessandro Tonelli sarebbe voluto andare in fuga da lì! «Ma non potevo» afferma con una mezza risata, prima di farsi serio «Dovevo pensare a stare bene fisicamente; semplicemente perché il ciclismo è solo una parentesi della nostra esistenza, mentre il corpo devi mantenerlo tutta la vita e quindi la mia preoccupazione maggiore era quella di non aver subito alcuna conseguenza fisica da portarmi dietro per sempre. E così mi consigliarono, una volta guarito, di scendere verso Pechino per iniziare a recuperare e allora mi sono goduto il resto dei miei giorni in Cina come turista infortunato e quello che ho visto... le differenze tra loro e noi. Ho girato il mondo e non ho mai visto tante contraddizioni. Sono avanti dal punto di vista tecnologico, ma tutte le informazioni che arrivano a loro sono filtrate. Hanno Google e i vari Social bloccati perché il governo decide quali informazioni dare e quali no. Non hanno WhatsApp, usano WeChat e i mendicanti in giro per la strada lo sfruttano per chiedere l'elemosina. Sì, avete capito bene: fanno l'elemosina col telefonino; anche i poveri hanno il conto in banca collegato a WeChat e tramite il QR Code chiedono i soldi» E poi ci racconta del cibo: «Solo pollo e riso» e di come per strada trovi, testualmente «Gente che rutta e scatarra: e per loro è una cosa del tutto normale!». E poi ancora: « Oppure una volta ero al ristorante a fare colazione, la sala vuota, il posto davanti a me libero: un signore si è seduto al mio tavolo come se nulla fosse» racconta divertito.

E se viaggiare diventa «uno dei fattori che più appagano le mie scelte di vita», stare tutto il giorno al vento contribuisce a fargli amare un mestiere che non fa sconti. «Non sono un vincente, non lo sono mai stato e allora mi devo far piacere altre cose, altre situazioni: come amare la fatica oppure pedalare in solitudine sulle montagne intorno alla mia zona. Perdermi a osservare la natura - cosa che faccio anche nel tempo libero facendo trekking con gli amici di sempre». E poi si torna lì: la fuga. «Sono sempre stato un attaccante e quindi non mi disturba stare sempre in fuga, anzi, per certi versi faccio meno fatica davanti che in gruppo. E poi l'ho scelto io, perché amo spostare i miei limiti e provare fino a dove posso arrivare con il mio fisico e con la mia mente». Sognando che prima o poi una fuga con lui dentro possa andare fino all'arrivo, magari al Giro d'Italia. “Le antiche arene sono un cerchio chiuso dal quale nulla può scappare” scriveva Elias Canetti. Diteglielo a uno specialista della fuga come Tonelli, e vediamo.

Foto: Bettini/per gentile concessione dell'Ufficio Stampa Bardiani


Un ciclismo diverso: Antwerp Port Epic

Il porto di Anversa si presenta come ogni... porto. Container colorati come piccoli mattoncini lego, luci azzurrognole sfumate all'orizzonte come fuochi fatui, enormi gru, sirene che segnano il cambio del turno e cicalii che evidenziano il movimento di grossi tir. Una litania di omini in arancione e casco giallo segnalano, sventagliano, dirigono, controllano: il porto di Anversa si presenta come ogni porto.

La sua importanza però è superiore a quella di "ogni porto". Ad esempio la sua estensione, che supera di gran lunga quella della città di Anversa - circa quattrocentotrenta chilometri di strada, quasi duecento di moli, oltre un migliaio di linee ferroviarie - non è quella di "ogni porto". Ne ha fatta di strada, se così si può dire, quel piccolo insediamento sul fiume Schelda da quando «nel 1803, l'imperatore Napoleone compì la sua prima visita in città e dette il via a importanti lavori in vista della costruzione di due moli». Oggi è il secondo porto in Europa come volume di traffico.

E tutto intorno strade di sabbia, ciottoli e asfalto che tagliano in ogni maniera il polder, campi di grano che delimitano vie d'accesso, principali e secondarie. Lì, da un po' di anni, si corre la Antwerp Port Epic. Esaltazione dell'umana concezione dello spirito agonistico: fango e polvere come nella migliore delle tradizioni. Il vento, poi, soffia in faccia in modo così violento che devi essere per forza un belga o un olandese per farti piacere questa corsa.
E quando sei belga e ciclocrossista, qualche vantaggio ce l'hai. Gianni Vermeersch ha vinto l'ultima edizione dopo aver fatto gara d'attacco «perché è l'unica tattica che ti puoi permettere in corse di questo genere».

Meglio stare davanti che dietro, meglio aprirsi un varco nella polvere che mangiare quella del tuo avversario e una volta tanto non in senso figurato come fosse un dialogo di Tex. Vermeersch di fango si è ricoperto a sufficienza nel ciclocross dove stringe un rapporto tale con van der Poel da aiutarlo come un fedele compagno in ogni corsa, da esaltarsi come quando l'olandese vinse l'Amstel Gold Race. «L'unica cosa che sentii quel giorno fu il frastuono nelle cuffie e allora capii che qualcosa di bello era successo».

Ed è belga anche Bert De Backer, quattordicesimo all'arrivo dell'Antwerp Port Epic e che a fine stagione potrebbe smettere di correre. Bert De Backer doveva fare il Tour e invece lo dirottano a nord: ventinove chilometri di pavé e trentanove di sterrato. Non che a uno come lui diano fastidio, d'altronde pare abbia scelto la Paris-Roubaix per abbandonare il ciclismo. «L'undicesimo posto nel velodromo di Roubaix è il risultato di cui vado più orgoglioso nella mia carriera. Sapevo che non avevo il talento dei leader ma quella volta mi resi conto che era inutile continuare a lamentarmi. Faccio il lavoro più bello del mondo e guadagno più di quello che avrei guadagnato con il diploma. È la mia corsa e so che potrei arrivare anche a giocarmela. Se mi ricordo come si vince? Mica tanto. L'ultima volta che ho alzato le mani dal manubrio stavo simulando una vittoria tornando da scuola in bici. Provai anche ad impennare e finii per terra con tutto lo zaino».

E lo sguardo di De Backer a fine corsa dice tutto. Esprime la durezza di una competizione che va a inserirsi nel contesto di un ciclismo che sceglie la via dell'antico per selezionare i gruppi, vendere spettacolo e marcare le differenze; sterrati anche all'interno di grandi giri, arrivi con paesaggi mozzafiato, corse come Strade Bianche o Tro-Bro Léon che fanno il giro del mondo, oppure le modifiche a un percorso tradizionale come quello della Paris-Tours che ora riscopre i sentieri per diventare ancora più attraente. Vecchio e nuovo mescolati per ridare aria a un ciclismo altrimenti spesso così monotono come una tappa di pianura con i suoi interminabili passaggi su strade che sembrano autostrade con le rotonde.

E Bert De Backer esprime stupore più che sofferenza. Ha lo sguardo di chi è passato in mezzo alle pannocchie, ha fatto tribolare i suoi muscoli per stare in piedi, ha bestemmiato quando ha forato. Uno sguardo che abbaglia quanto l'orizzonte affabulatore che si staglia da dietro la corsa. Piccoli ciclisti colorati e sullo sfondo, in mezzo alla polvere granulosa, enormi ciminiere, antenne, pale eoliche che sembrano appartenere a un vecchio Luna Park ormai dismesso.
Si parte e poi si arriva nella Het Eilandje, la "piccola isola", a rendere ancora più forte la contraddizione. Quartiere di Anversa ricostruito come fosse la scena di un film patinato. Invece della polvere, mangi anguilla dello Schelda in salsa verde oppure sogliola e bistecche. Dalle cattedrali gotiche, come una piccola Gotham City disegnate dallo sfondo del porto vero e proprio, alla novità di una zona totalmente alla moda con magazzini ed ex mattatoi ricreati ad arte come una New York espressionista.

E intanto, lo sguardo di De Backer resta ugualmente pieno di polvere, più che smarrito ora è dubbioso, mai sofferente. Era lì per giocarsela, ma si fa riprendere a trecentocinquanta metri dall'arrivo. Per ogni corridore che arriva in fondo - quel giorno solo in quarantatré - queste corse sono sempre una scoperta.


Paolo Bettini racconta quel 28 settembre 2008

Paolo Bettini racconta in un video che cos'è per lui il 28 settembre. Oggi sua figlia Veronica compie diciassette anni e per lui diventa l'occasione per rievocare corsi e ricorsi. Perché quel 28 settembre 2008 ha significato la sua ultima gara, una scelta (quasi? forse?) doverosa dopo aver legato in maniera indissolubile la propria carriera alla maglia iridata.

Perché dopo averla inseguita per un decennio arriva, ma la vita gli porta via suo fratello. Nel 2006 a Salisburgo Bettini vince il Mondiale, dieci giorni dopo suo fratello muore in un incidente stradale e passano pochi giorni perché Bettini domini il Giro di Lombardia, in maglia iridata, appesantito dal dolore e dalle lacrime. Sauro, il fratello, come narra chi li conosceva da vicino, era una parte di lui. E Paolo, cresciuto nel mito di quel ragazzo che in bicicletta da giovane vinceva praticamente sempre, era straziato.

Paolo Bettini racconta di quando durante la Vuelta del 2008 aprì la valigia e trovò un biglietto scritto da sua figlia. Uno di quei disegni fatti a mano da un bambino che sembrano tutti uguali ma che per ogni genitore ha un significato unico e difficile da spiegare. Su quel biglietto c'è un disegno, il papà di Veronica con i colori iridati – che poi non sono altro che quelli dell'arcobaleno, avrà pensato lei – sopra la testa, e poi un messaggio scritto a penna: “non andare più in bici”.

Paolo Bettini quella decisione l'aveva già presa o forse no. Lui dice che la scelta era già stata fatta, ma pensare che quello sia stato il momento decisivo sembra appartenere a ciò che ci piace raccontare. E il 28 settembre del 2008, Veronica compiva cinque anni, e per Bettini sarà l'ultima corsa. E il 28 settembre 2008 sarà l'ultimo Mondiale vinto da un italiano. “Ballaaaan! Ballaaaan!” lo abbiamo ripetuto tante volte quell'urlo nella nostra testa, mentre Ballan, in maglia azzurra, dilaniava il centro di Varese.

Bettini restava dietro in gruppo mentre altri erano a lottare per le medaglie, come tante volte aveva fatto lui. Si prenderà il giusto tributo dai colleghi che lo scortarono fino al traguardo, mentre noi ci domandavamo perché uno così forte doveva abbandonare il ciclismo a soli trentaquattro anni e poche settimane dopo aver vinto due tappe alla Vuelta con la maglia iridata.

Lui lo ha raccontato oggi, 28 settembre, mostrando, con orgoglio, un momento intimo, privato. Quel messaggio scritto da una bambina che all'epoca aveva cinque anni e oggi diciassette. Sono passati dodici anni e sembra ieri: la gioia di Ballan, le lacrime di Bettini, il messaggio di sua figlia e Ballerini in ammiraglia. E pensare quanto stride il fatto che nessuno ci ridarà mai indietro il tempo passato.

Foto: Paolo Bettini/Facebook


Guillaume, Benoni e scacciare i cattivi pensieri

4 luglio 2017, Tour de France. Guillaume Van Keirsbulck è appena partito in fuga. Le televisioni gracidano al vento, in modo incomprensibile, il suo nome, mentre lui nella radiolina continua a ripetere: «Ca**o, ma dove vado da solo... non è forse meglio che torni indietro?». L'ammiraglia gli risponde di tirare dritto, che tanto qualcuno prima o poi si sarebbe unito alla danza; è un Tour de France e nessuno si farebbe sfuggire l'occasione. Tutto a un tratto, però, invece che colleghi in bicicletta, arrivano cattivi pensieri.

Il 27 giugno del 2011 Guillaume Van Keirsbulck stava procedendo verso casa di suo nonno per festeggiare, con un barbecue, la firma sul contratto con la Quick Step. Un salto in avanti per quel virtuoso ragazzo che aveva già mostrato tutto il suo potenziale; ora c'è la possibilità di studiare nella migliore scuola per uno cresciuto addentando biscotti e pavé e capace di vincere, da giovanissimo, la versione junior della Paris-Roubaix.

Era solo in macchina, Van Keirsbulck, la sua ragazza, Emilia, lo seguiva su un'altra auto perché l'indomani avrebbe dovuto alzarsi presto per andare a dare un esame all'università. All'improvviso l'auto della ragazza sbandò, probabilmente Emilia stava cercando di afferrare qualcosa sul sedile, tanto da slacciarsi la cintura di sicurezza. Il movimento costrinse l'auto su una pista ciclabile, poi un dosso, una sterzata improvvisa. Emilia, presa dal panico, finì sulla corsia opposta colpendo in pieno un motociclista che arrivava in senso contrario. La tragica corsa si spense contro un albero. Tutto questo Guillaume lo vide dallo specchietto retrovisore. L'auto si ridusse ad un ammasso di lamiere e fu proprio Guillaume che provò a liberarla. «Morì tra le mie braccia» racconta.

Lungo da sembrare infinito, elegante con lineamenti quasi irritanti come fosse un Fonzie belga, Guillaume Van Keirsbulck si porta dietro la tragedia. Poche settimane prima di quell'incidente, al Giro d'Italia si consumò la fine dell'esistenza di Wouter Weylandt, amico di Guillaume. Al funerale del corridore belga c'era anche Van Keirsbulck a portare la bara.

Intanto Guillaume al Tour resta solo e al vento. Nessuno lo ha raggiunto, vestito dei colori blu cenere della Wanty Gobert ha percorso una sessantina di chilometri in solitaria. Più che brezza quella che spira dappertutto è una masnada di pugni in faccia; la fuga solitaria al Tour in una tappa di pianura appare quasi strategia del terrore. Già, quel terrore che attanaglia la sua esistenza e lo butta giù.

Racconta a Cyclingnews: «Subito dopo quell'incidente mi rimisi subito in sella per provare a vincere per lei e ci riuscii», ma la notte doveva ancora arrivare e quei terribili pensieri non andavano via. «A fine stagione finii in un buco nero». Staccò dalla bicicletta, iniziò a uscire tutte le sere, a bere. «Se fossi rimasto a casa sarei impazzito».
Prosegue Van Keirsbulck al Tour sulle strade che portano a Vittel, nei Vosgi. C'è gente ovunque da non capire nulla, la gola secca mentre i rumori si fondono con le immagini e i pensieri continuano a viaggiare ancora più veloci.

Come quelli del nomignolo il “nuovo Boonen”: una condanna. Affascinante come il fuoriclasse a cui è stato paragonato, Van Keirsbulck non è mai riuscito minimamente a sfiorare le imprese del quattro volte vincitore della Parigi-Roubaix. E intanto il tempo passa.
Così come i chilometri in fuga in solitaria. Il suo diesse prova a fargli coraggio, ma ora non serve, i cattivi pensieri sembrano andare via, sono come uno schizofrenico boomerang e quando sono distanti, Guillaume è attraversato da una sorta di aura di tranquillità. «Quasi duecento chilometri in fuga al Tour? Mi sono divertito! Era pazzesco vedere quanta gente mi incitava e per una volta ero da solo a godermi il momento». E poi di nuovo altri pensieri.

Come quelli su suo nonno, Benoni Beheyt. Un reietto per il sacro impero di Van Looy e del ciclismo belga. Siamo ai campionati del mondo di Ronse, Belgio. Come in un viaggio nel tempo all'improvviso è l'11 agosto del 1963. Tutto è apparecchiato per il terzo titolo di uno dei più grandi della storia. Qualcosa però non va come deve andare – ci verrebbe da dire che è il ciclismo, la vita, eccetera. Van Looy vuole a tutti i costi il terzo titolo – che mai conquisterà - come l'altro grande Rik Van belga (Rik Van Steenbergen), e muove la corsa quasi a suo piacimento. Si arriva in volata, Van Looy è davanti, all'improvviso Benoni (quel nome è un omaggio al nonno di origine italiane) Beheyt lo affianca, toglie una mano dal sellino, sposta il suo capitano - lo trattiene o lo spinge non si è mai saputo per certo -, lo brucia sul traguardo: è il tradimento di Ronse. Beheyt da quel momento verrà trattato come homo sacer, diventerà un reietto con Rik Van Looy che passerà le stagioni successive boicottandolo e ostracizzando ogni suo intento. Un infame agli occhi del popolo belga e di un gruppo che subisce il fascino dell'Imperatore di Herentals. A ventisei anni abbandona il ciclismo. Resterà in gruppo come motociclista al seguito delle corse e si racconta (verità o leggenda?) che un giorno, pulendo il fucile in una battuta di caccia, uccise per sbaglio uno dei suoi figli. In una recente intervista rilasciata a Marco Pastonesi, dice che Van Looy non gli ha rivolto la parola per decenni e che solo negli ultimi tempi si sono scambiati qualche buongiorno e buonasera.

Ma è ancora fuga al Tour: Van Keirsbulck porta avanti la sua personale sfida col gruppo che inizia ad organizzarsi per la volata, pianura ce n'è ma anche un paio di salitelle sulle quali Van Keirsbulck prova a forzare. Le gambe, atrofizzate, spingono, dalla radiolina arrivano urla di sostegno, ancora una volta il suo sforzo è mirato ad annebbiare i pensieri.
Come quelli che lo rimandano all'incidente stradale di un anno prima. Usciva da una stagione difficile per problemi fisici e da un fastidio alla schiena. Usciva ubriaco da una discoteca. Si schiantò contro un albero «ma ne uscì illeso. Di ferito ci fu solo la sua reputazione» riportano i media tempo dopo. Quegli stessi media che lo crocifissero sulle prime pagine trattandolo come un cattivo ragazzo.
Ora al Tour lo riprendono. Siamo in vista del traguardo. Quasi duecento chilometri di fuga. Si arriva in volata e mentre lui si fa sfilare, esausto, ma felice - «Per una volta tanto meglio che starsene in gruppo a saltellare su una ruota oppure bello tranquillo in scia ad una moto» - Démare vince e Sagan viene squalificato per una scorrettezza nei confronti di Cavendish.

Oggi Van Keirsbulck corre ancora, è un ragazzo giovane - ha ventinove anni – ma sembra abbia bruciato tutto con la velocità di una felce secca intorno al fuoco e la felicità per lui resta un fatto relativo. Fatica in mezzo al gruppo, ma non lascia il segno. Non sarà al via del Mondiale di Imola, non sarebbe potuto essere altrimenti. Nelle prossime settimane ci sarà modo di correre vicino casa e l'anno prossimo persino il Mondiale in Belgio: chissà che non ci stia pensando. Chissà che ne abbia ritrovato il tempo. Chissà che sia riuscito a scacciare i cattivi pensieri. Anche solo questo sarebbe una grande vittoria.

Foto: Van Keirsbulck/Twitter


Landismo o del vagare senza meta

Abbiamo percorso gli oltre dieci chilometri della Sella Chianzutan. Salita non troppo ripida, né lunga, non così dura se la fai con una bici di adesso. A piedi, invece, non è il massimo, soprattutto quando hai scarso feeling con questo esercizio. Oltre due ore di camminata con scarpe poco adatte, lo zaino che oltre a pesare ti lascia chiazze di sudore sulla schiena che provocano brividi ogni volta che ti infili sotto l'ombra, ma hai almeno qualche birra sul groppone, trangugiata in un paese lungo la strada, e che fa sempre il suo effetto. Euforia che prova a farti dimenticare le vesciche che vengono a formarsi man mano che si sale. E poi il gran caldo, quello non te lo levi mai. Passano le prime macchine, ma non sono quelle della carovana e infatti hanno un rombo particolare.

L'indomani si correrà la tradizionale Verzegnis-Sella Chianzutan, corsa in montagna per auto di ogni genere e anno e quelle che vediamo stanno testando il percorso e studiando le frenate. Passa un ragazzo a torso nudo e con la maglia avvolta sulla testa, pedala su una graziella grigia, ci supera e si ferma lungo un tornante in attesa del passaggio dei ciclisti. La corsa vera e propria, o per meglio dire quella che ci interessa, è il Giro d'Italia 2017, ma è ancora lontana. È partita da poco da San Candido anche se, tra Passo Monte Croce Comelico e Sappada, leggo sul telefono che qualcuno ha provato ad attaccare, ma la squadra di Dumoulin, che vincerà quel Giro, ha gli occhi vigili e chiude in discesa. Dopo Tolmezzo, per noi, e più tardi anche per loro, si sale verso questa salita che è meta succulenta per gli amatori locali. Non troppo dura abbiamo detto, una bella strada ampia, qualche tornante che ti permette di rifiatare sia a salire che a scendere. Arriviamo in cima, si pranza e iniziano ad arrivare le auto delle squadre con i massaggiatori che attendono il gruppo per distribuire bevande e panini e i tifosi sempre più numerosi. Se la maggior parte è lì per Nibali, c'è anche chi aspetta - parola chiave - un altro corridore.

Mikel Landa ha spesso gli occhi nascosti da un paio di lenti riflettenti. Mai capito se lo fa per vezzo, marketing, comodità, fatto sta che nasconde due palle rotonde leggermente solcate da un accenno di rughe che gli danno uno sguardo perennemente in sospeso. Quello è lo sguardo del Landismo.
Lo avevamo lasciato due stagioni prima scattare sul Colle delle Finestre: oggi sembra un'epoca mica un lustro. Mikel Landa non aveva ancora conosciuto la pressione né tantomeno la delusione. Il Landismo era ancora in divenire e assomigliava più a un nietzschiano slancio vitale.

Mani basse sul manubrio, schiena perfettamente arcuata, il corridore basco provava da subito a fecondare l'idea che un ciclismo nuovo sarebbe arrivato: niente più attendismo, andiamo allo sbaraglio.
Ritorniamo sulla Sella Chianzutan. Mi avvicino a un massaggiatore dell'Astana e gli domando: «Chi vince oggi?».
«Quello che aspettiamo sempre, mi pare ovvio». Ci penso un attimo. «Mikel Landa?» gli faccio. «Chi sennò?» mi risponde. «Ma non corre più con voi!» ribatto. «Sì ma noi gli vogliamo tutti bene». La tappa quel giorno, con arrivo a Piancavallo e un vento in faccia che pareva il Palio degli schiaffi, la vincerà Landa – e sarà anche la sua ultima in un grande giro.

In pochi anni la storia di Landa si trasforma in mito. Il Landismo diverrà un cul-de-sac ciclistico. Lo aspetti e lui si ritira per un virus gastrointestinale dopo essersi fatto fotografare nel giorno di riposo davanti a una grigliata organizzata dalla sua squadra.
Arriva quarto al Tour facendosi battere per un secondo da Bardet (che lo passa nella cronometro) dopo aver infiammato la salita, ma con moderazione, correndo sempre con un filo di gas, come si direbbe, per non dar troppo fastidio al capitano Froome. Arriva quarto al Giro dopo essersi fatto scavalcare nella cronometro finale da Roglič. Arriva di nuovo quarto al Tour pochi giorni fa, dopo aver dato un saggio completo del Landismo. Fa tirare i suoi tutto il giorno e poi si stacca nel momento clou come uno qualunque – quale non è - con gli occhi che non sono più in sospeso come un ciclista in difficoltà, ma sgranati come dopo aver letto una cattiva notizia. Il giorno successivo uno scatto con il rapporto duro, le mani basse, eccetera... un vantaggio che mai si dilaterà venendo risucchiato vilmente dal gruppo mentre chissà quali pensieri torbidi gli saranno passati per la mente. L'ennesimo piazzamento al di fuori del podio: si diceva che avrebbe dovuto avere la squadra per sé, che uno così era sprecato per fare il gregario. Il risultato non cambia, è Landismo.

Il Landismo diventa così il vagare senza meta di Andreas Kartak per Parigi, i suoi piazzamenti sono un dono, il talento è un po' sprecato. Il Landismo si tramuta nell'attesa sul Col de la Loze e quando gli altri scattano lui si stacca. Il Landismo è vederlo arrivare di nuovo quarto dopo aver guadagnato una posizione in classifica a cronometro più per demeriti altrui che per meriti propri. Il Landismo è, come ci spiega bene Remo Gandolfi, «esempio inequivocabile di cosa rappresenta il ciclismo rispetto ad altri sport. È emozione che spesso non coincide con vittoria. Il Landismo è dove nella sconfitta questo sentimento si rafforza, si auto alimenta e rinasce con vigore nella tappa successiva. Nel ciclismo è facile innamorarsi di chi perde, perché è cuore, prima che cervello. È passione prima che calcolo. Landa è tutto questo: è attesa dell'emozione che diventa illusione o persino delusione. Ma allo stesso tempo è talento: perché sai che può arrivare. Ad ogni tappa, a ogni salita, al prossimo tornante».

Il Landismo è fregarsene che poi in carriera non abbia mai vinto un Giro, un Tour o una Vuelta (e probabilmente mai ci riuscirà) perché tanto a lui sta bene così. Ci basta vederlo ancora scattare mani basse sul manubrio, schiena arcuata, perfetto stile e farci aspettare, aspettare, aspettare e poi dire: eccolo lì, quello è il Landismo. E non c'è modo di spiegarlo se non leggendolo nei suoi occhi.

Foto: Bettini


Tim Merlier: il ritratto della tranquillità

Tim Merlier cresce all'ombra di van der Poel e di van Aert. Non ha il talento del primo, né la tenacia del secondo, eppure, che sia strada oppure cross, da un po' di tempo il suo nome inizia a farsi sentire sempre più forte. Era un sibilo inizialmente. Un discorso da bar tra appassionati di ciclismo, qualche messaggio scambiato sui forum, poi arrivano i primi piazzamenti, le prime vittorie pesanti, come il tricolore belga del 2019 che da quelle parti ha un fascino a volte difficile da comprendere.

Pochi giorni fa il successo in una irriconoscibile Bruxelles che con tutta quella pioggia sembrava un villaggio di gnomi fatto di cera e sciolto nel fondo di una bottiglia. Passa qualche giorno e vince a Senigallia, alla Tirreno-Adriatico, città altrettanto interessante, e di sicuro più luminosa, e Merlier, che arriva dal solito monotono paesello delle Fiandre orientali tutto grano e pavé, si guarda indietro continuamente sparato a settanta chilometri orari, sgrana gli occhi, e lascia il segno. Come abbiamo sgranato gli occhi noi per quanto bella è stata la sua progressione in volata.

Tim Merlier viene dal fango. Probabilmente preferisce mettersi una bici sulle spalle saltando barriere, ma il mestiere su strada lo sa fare egregiamente – e quanto volte glielo ha ripetuto Mario De Clercq, suo compaesano e leggenda del ciclocross. Merlier darebbe la vita per gli altri e si sente frustrato quando un capitano non vince: tempo fa raccontava dell'imbarazzo vissuto nel cross serale di Diegem quando van Aert gli cadde davanti e lui non riuscì ad evitarlo. Lo aspettò per aiutarlo: «Mai avuto un compagno di squadra così in gamba» disse van Aert.

A inizio carriera correvano assieme: i due hanno subito legato. «Sì posso dire che siamo migliori amici» sosteneva tempo fa van Aert, eppure, vittima dell'assurdo, Merlier indossa oggi la stessa maglia di club di van der Poel – si fa per dire la stessa maglia, l'olandese veste quella da campione nazionale, ma queste sono sottigliezze - il più grande dei rivali del suo amico. Forse qualcosa più di rivali: lo yin e lo yang del ciclismo contemporaneo, guerra e pace, uomo e donna. Agli antipodi, ma assolutamente necessari. Due che se potessero farebbero a meno anche di incrociare gli sguardi.

E lui sta in mezzo a prendere qualcosa dell'uno e dell'altro come un fedele rampollo, anche se poi è van Aert a invidiare una caratteristica fondamentale del carattere dell'amico: «La tranquillità che irradia. Sembra che se ne freghi, ma invece è semplicemente fatto così. È sempre in ritardo, ma è la sua forza: non subisce la pressione. A maggio del 2019 si allenava con una maglia nera perché era senza squadra. Pensate che la cosa lo abbia scalfito in qualche maniera? Un mese dopo ha vinto il campionato belga!».

E poi c'è quella sua capacità di stupirsi, che ha qualcosa di fiabesco. Dopo essersi laureato campione belga (su strada), due mesi dopo ancora non se ne rendeva conto. Tirava fuori la maglia dalla lavatrice e sorrideva. La stendeva e pensava non fosse nemmeno la sua. Usciva per l'allenamento: casco, occhiali, maglia tricolore e si ritrovava a guardare il suo riflesso nella finestra per capire se era vero quello che gli stava succedendo. «Semplicemente non ci si abitua, questo è ciò che lo rende così divertente. Io campione del Belgio: immagina. Per anni ho pensato che un giorno avrei potuto diventarlo nel ciclocross. Ma questo... questo batte davvero tutto».

Tim Merlier è un figlio del fango, non un Golem, forse un sassolino, un pezzo di terra che rotola, e in breve tempo diventa strada. Da anni gli dicono «faresti meglio a fare ciclismo su strada, sei più tagliato per quello» e lui risponde: «Io ho due biciclette. Una per il cross e una per la strada. Mi piacciono entrambe, mi diverto: non vedo perché dovrei cambiarle». E chi siamo noi per convincerlo del contrario?

Da un po' di tempo Merlier divide la sua vita con Cameron, la figlia di Frank Vandenbroucke, troppo talentuoso, troppo veloce ad andarsene. «Grazie a lei ho imparato a puntare la sveglia presto la mattina». Quando invece torna a casa, Tim Merlier aiuta sua madre nel bar di famiglia a Wortegem-Petegem, nella piazza vicino la chiesa, a un tiro dal traguardo di Oudenaarde che caratterizza il Giro delle Fiandre. Serve caffè e frittelle nonostante lo status di corridore che da quelle parti equivale a essere una star. «Quando ho vinto il campionato belga hanno iniziato a chiedermi interviste, a dedicarmi prime pagine sulle gazzette, ma io sono rimasto sempre quel ragazzo tranquillo che ama versare il caffè nel bar di sua madre». Quella madre alla quale, poco dopo il lockdown, chiese di organizzare una corsa nel suo paese: «Ho corso così poco con questa maglia che mi sembrava una buona idea» racconta placido a una televisione belga. Se van der Poel è genio e van Aert carisma, Tim Merlier è il ritratto della tranquillità.

Foto: Bettini


E pensare che gli avevano detto di smettere

Aveva 16 anni Umberto Poli. Aveva sete, fame di cibo dolce e una gola continua di bevande zuccherate. Era pieno di dolori e si sentiva sempre stanco. «Passavo la notte a fare la pipì e non capivo, anche perché all'epoca ero un ragazzino e non avevo mai sentito parlare di questa malattia» ci racconta con pragmatica naturalezza.

Un giorno cambiò tutto. «Categoria Allievi. Ultima gara della stagione: il 7 ottobre del 2012». Manda a memoria quella data. Erano settimane che sentiva che c'era qualcosa che non andava, in allenamento si staccava dai suoi compagni, si sentiva svuotato di ogni energia e si doveva continuamente fermare: dava la colpa al fatto di essere a fine stagione. «Devo staccare e ripartire, ripetevo tra me» e invece. «Vado in fuga, come sempre, e succede una cosa strana che non dovrebbe mai accadere: mi stacco e mi ritiro quasi subito».

Svuotato da tutte le energie, Umberto, a fine gara, è intento ad ascoltare il suo allenatore. «Guarda che non è mica normale sta cosa, devi andare a farti vedere». Torna a casa, mangia, inizia a sentire forti dolori alla schiena, allo stomaco e decide di farsi portare in ospedale da sua madre. «Mi misurano la glicemia: la macchinetta sembrava rotta. In realtà non misurava oltre cinquecento come valore massimo e decidono di farmi un prelievo. Codice rosso, ricoverato d'urgenza e trasportato dall'ospedale di Bovolone a quello di Legnago. “Hai il diabete di tipo 1” mi dicono. Realizzo un po' alla volta che dovrò farmi iniezioni di insulina per tutta la vita».

Scoraggiarsi non fa parte del bagaglio tecnico di chi ogni giorno dopo scuola si allenava in bicicletta. «Ho iniziato a correre in bici a 6 anni con la GS Look Bovolone, poi ho smesso e ho ripreso qualche anno dopo» e poi c'era quella strada da inseguire: l'anno dopo sarebbe passato nella categoria junior – un salto importante verso il sogno di diventare un corridore professionista.
«Immaginatevi il ritornello dei dottori: “non se ne parla nemmeno, non puoi mica pensare di fare il corridore”. Un muro da affrontare, ma a volte quei muri vanno superati. Bisogna trovare il giusto equilibrio e io l'ho fatto. Oppure immaginatevi la difficoltà nel trovare una squadra disposta a prendersi la responsabilità di avere un corridore diabetico tra le proprie fila». Missione impossibile, una parete verticale da scalare o dalla quale calarsi. Usate l'immagine che preferite.

Umberto Poli, tuttavia, la stagione successiva va a correre con la FDB. «Sono stato fortunato» una parola che ricorre spesso nell'intervista, perché Poli coglie al volo l'attimo, trasforma un problema in un'occasione, una ferita in uno spunto per emergere. Prende la malattia e ne ribalta il suo significato. «Ero preoccupato: mi sono ritrovato dall'essere un qualsiasi spensierato adolescente che ha l'unico problema nel come divertirsi, a vivere questa situazione. La squadra di Remo Cordioli, però, mi ha aspettato, ha atteso che mi dessero il permesso di correre. E dopo un po' che avevo ripreso l'attività ecco che mi contatta Vassili Davidenko, il mio attuale Direttore Sportivo alla Novo Nordisk per andare a fare uno stage con loro negli Stati Uniti».

La proposta è allettante, anche se Umberto vive un paradosso: nonostante il diabete, viene chiamato a fare sul serio dall'altra parte del mondo. Confuso, ma deciso, accetta. «Ovviamente ho detto sì. All'inizio ero contento, ma la realtà fu ben diversa». Gli Stati Uniti non si rivelano come l'America narrata, cercata e poi trovata, ben descritta spesso nella letteratura. «Vivevo in una casetta, come quelle dei dilettanti in Italia. Ma mi sembrava che si facessero le cose in maniera meno seria che da noi. Si correvano Criterium, una sorta di circuiti dentro le città, gare da un paio di ore. Ero un po' deluso. Poi tornai a casa e seguendo vari consigli, trai i quali quelli di Elia Viviani, cambiai il mio atteggiamento. La mentalità fa tutto in questo sport e me ne sono accorto subito: ho svoltato, mi sono presentato più propositivo, con un altro modo di intendere la realtà che mi circondava e infatti riuscì ad affermarmi e a firmare un contratto con la Novo Nordisk che mi porta a essere qui, ancora oggi, con loro».

E la sua scelta di continuare con il ciclismo è come un motore che lo spinge a salire velocemente in vetta, una propulsione che lo fa maturare. «Quando sei ragazzo e fai corse di cinquanta, sessanta chilometri, sai che devi mangiare, ma non è che stai proprio attento a quando e come. Se hai fame, mangi: finisce lì. Perché sei ancora giovane e devi fare esperienza. Io invece col diabete ho dovuto bruciare le tappe: ho dovuto subito capire come gestire l'alimentazione. Questo mi ha dato una mano prima degli altri miei compagni. Grazie a questa malattia ho imparato a conoscere meglio il mio corpo. I primi periodi erano un po' al buio perché fai delle prove con quello che assumi, provi una barretta, ne provi un'altra. E poi lentamente ogni anno capisci sempre meglio di cosa ha bisogno il tuo corpo. Con la squadra (la Novo Nordisk ha al suo interno solo corridori diabetici N.d.A.) abbiamo studiato sempre di più come va alimentato il nostro corpo, come il diabete risponde alle assunzioni di zucchero, agli sbalzi della temperatura, persino alle emozioni. Perché anche quelle influiscono. Prendi l'adrenalina: ti alza la glicemia e quindi devi imparare a gestirti mentalmente, devi imparare a gestire la tensione prima di una gara».

E avere il diabete facendo il ciclista di mestiere per Umberto Poli è un connubio che va avanti in modo naturale. «L'unica cosa che mi pesa della mia malattia è la siringa di insulina prima di mangiare, perché per il resto in bici non dà nessun handicap. Anzi sono convinto sia un vantaggio: perché ciò che impariamo noi lo applichiamo in più e in meglio rispetto ad altri corridori. Perché sono conoscenze del proprio corpo che loro non hanno. Questo stato lo definirei: la conoscenza totale del proprio corpo. Come reagisci a ogni cosa che buttiamo dentro, come reagisce a livello di zuccheri nel sangue: non è una cosa da sottovalutare quando lavori tutto il giorno con il tuo corpo».

Il ciclismo che retoricamente è scuola di vita. Anzi ancora di più: per Umberto Poli prende una forma allegorica. Ci racconta di come debba tutto a lui. “al Ciclismo”. Di come gli abbia insegnato a diventare più grande più in fretta, rispetto a quelli della sua età. Ci dice di aver fatto tanti sbagli che lo hanno fatto crescere, di come grazie a lui ha visto il mondo con gli occhi privilegiati di un corridore, ha conosciuto persone di ogni genere e affrontato culture diverse. «E questo è il massimo dell'insegnamento che posso ritrovare nella vita che ho condotto fino a oggi. È un valore aggiunto. Mi ha fatto distinguere le persone: approfittatori e coerenti, egoisti e altruisti. Mi ha insegnato a non mollare mai, a lavorare più degli altri per arrivare al risultato. A diventare tenace, mi ha abituato al sacrificio, a non avere vacanze a Natale, a pedalare sotto il sole, sotto la neve, con il caldo e con il freddo. A crederci, a fare doppi allenamenti. A soffrire, soffrire e soffrire». E lo fa, Umberto Poli, mica perché è matto – forse un po' lo è, come tutti i ciclisti. Lo fa perché gli piace, lo fa perché gli insegna ad affrontare le situazioni più controverse.

«Gli sportivi sono testardi. Quando ci impuntiamo su una cosa noi andiamo dritti per la nostra strada e portiamo avanti il risultato che vogliamo ottenere». Tenacia, resistenza. Alzare l'asticella della soglia del dolore, del proprio livello mentale. «Lo sport è una questione di testa ancora più che fisica. Mi ha rinforzato come uomo e ogni giorno, a ogni allenamento, ha qualcosa da insegnarmi». Ha 24 anni, oggi, Umberto Poli. E pensare che gli avevano detto di smettere.