Jacopo Guarnieri, l'ultimo uomo
Di volate e di spallate, di vittorie e di cadute, di crescita e di paternità, di diritti e opportunità, di un mondo che cambia e di un ciclismo che vorrebbe o dovrebbe cambiare.
E di musica. E di un Giro d’Italia che sta per partire e che, quando toccherà a lui, lo vedrà ancora una volta protagonista.
La seconda puntata della seconda stagione di Parole Alvento ci porta a Castell’Arquato, in provincia di Piacenza, a casa di Jacopo Guarnieri. Siamo andati a trovarlo per registrare un’intervista di una quarantina di minuti, è durata il doppio, e sarebbe potuta andare avanti ancora, a chiacchierare di ciclismo e oltre il ciclismo.
Intervista: Filippo Cauz
Sound design: Brand&Soda
Il richiamo delle Fiandre
Le Fiandre, per chi ama il ciclismo, sono un Paese speciale.
Storia, tradizione, riferimenti culturali: tutto rimanda alla bicicletta.
Siamo andati a pedalare sul percorso dei Campionati del Mondo 2021, quelli vinti da Julian Alaphilippe con quell’attacco fulminante a pochi chilometri dall’arrivo del circuito cittadino di Lovanio.
Ma abbiamo anche trascorso tre giorni a guardarci in giro, ad assaggiare birre e parlare con le persone del luogo.
Volete leggere il nostro speciale Fiandre? Ecco il link
Per tutto il resto, non vi resta che ascoltare questa puntata di Parole Alvento in compagnia di Filippo Cauz che racconterà tutto quello che non ci stava (o non si poteva dire) nel servizio pubblicato sulla rivista.
Il richiamo delle Fiandre – ep. 14
Intervista: Claudio Ruatti
Ospite: Filippo Cauz
Sound design: Brand&Soda
Pauline Ferrand-Prevot e... i leoni da tastiera
Torniamo sul rapporto tra social network e atleti professionisti, dopo il post di qualche giorno fa sulle dichiarazioni di Chris Froome. Non prendeteci per ripetitivi, nemmeno per ossessionati. Semplicemente riteniamo che il rispetto della persona venga prima di tutto, prima del tifo e delle aspettative di prestazione.
È per questo che ci piace dare voce agli atleti che provano ad opporsi a questa brutta deriva. Magari il messaggio arriverà a poche persone, ma se riuscisse ad ingenerare un piccolo cambiamento, sarebbe già un successo.
Dopo le gare dei Mondiali di MTB della Val di Sole, Pauline Ferrand-Prevot, vera superstar del settore (nel 2014/15, a soli 23 anni, ha indossato la maglia iridata di campione del mondo in tre discipline ciclistiche diverse contemporaneamente, prima volta nella storia del ciclismo maschile e femminile), affida ai suoi canali social un messaggio di risposta ai numerosi attacchi ricevuti a seguito di quelle che sono state ritenute dai suoi fan delle prestazioni deludenti ai recenti Campionati del Mondo di Mountain Bike.
«La vita non ha a che fare solo con la vittoria o la sconfitta.
La vita di una persona ha piuttosto a che fare con l’essere o meno felici.
Non ho letto i commenti delle persone sulla mia gara di ieri perché non voglio che qualcuno possa decidere come mi devo sentire. Quello che posso dire a tutti è che sono molto felice della mia vita, anche se non ho vinto la medaglia olimpica e se non indosso la maglia iridata, e non ho alcuna intenzione di cambiare la mia vita per vincere un titolo olimpico o un mondiale.
La mia famiglia, i miei amici, la mia piccola Mauricette ed io siamo in salute.
Mi guadagno da vivere facendo ciò che più amo al mondo, correre in bici, e ho la fortuna di non definire tutto ciò ‘un lavoro’. Ho il privilegio di viaggiare per tutto il mondo, conoscendo nuove persone e potendomi confrontare con culture diverse dalla mia.
La vita non ha a che vedere solo con le vittorie o le sconfitte.
La vita ha a che vedere con l’imparare qualcosa, con i tentativi andati male ma con la possibilità di riprovarci.
Io vivo per raggiungere gli obiettivi che mi sono posta e non credo di averli ancora raggiunti tutti. Potrò sbagliare e potrò fallire, ma questo non mi impedirà di provarci ancora. Fino a quando non li avrò raggiunti».
Foto: Red Bull Content Pool
La tempra di Jay Vine
Non si sarà portato a casa il combativity prize alla Vuelta Jay Vine, come molti di noi si sarebbero aspettati, ma dobbiamo ammettere che lo spirito del giovane corridore australiano della Alpecin-Fenix ci piace un sacco.
Dopo la rocambolesca caduta dell’altro giorno, mentre tentava di recuperare una borraccia dall’ammiraglia, ed il terzo posto di tappa con una rimonta all’insegna della determinazione, Jay ha raccontato sui suoi canali social di essersi sentito ferito più nell’orgoglio che nel corpo: «È tutto così strano. Senza l’incidente sarei al settimo cielo e ora starei scrivendo un altro tipo di post. Racconterei di quanto sia stato fantastico salire per la prima volta sul podio in un Grande Giro, ma in questo momento mi sembra che il mio successo sia leggermente offuscato dall’imbarazzo per come è avvenuta la caduta».
Vine, che dopo l’incidente e i relativi controlli da parte del medico di corsa, è rimontato senza esitazioni in sella, ha detto di aver avuto l’impressione, nelle interviste post gara, che i giornalisti fossero alla ricerca di una qualche particolare pillola di saggezza da parte sua: «C’era questo giornalista che mi ha chiesto come mai fossi tornato in sella dopo la caduta. Credo che si aspettasse una risposta che fosse d’ispirazione e d’esempio per gli altri, ma io in realtà mi sentivo solo molto stanco e con la mia solita schiettezza ho risposto: “E perché no?».
Insomma, ci pare di capire che al giovane australiano non manchi sicuramente il carattere per far parlare di sé.
Foto: Luis Angel Gomez / BettiniPhoto©2021
Livigno Road Bike Tour
Salite leggendarie, ascese epiche che rappresentano la storia del ciclismo, scenari alpini senza eguali: Bernina, Stelvio, Gavia, Mortirolo, Foscagno, Forcola. Siamo nel cuore delle Alpi fra Valtellina e Grigioni, dove pedalare è magia. Scalare queste vette e lanciarsi in picchiata fra queste vallate bisogna farlo. Almeno una volta. E da quest’anno si può, grazie al Road Bike Tour proposto da Apt Livigno e grazie a un programma settimanale di percorsi con bici da strada e gruppi organizzati con van ammiraglia al seguito. Scollinamenti oltre i 2000 metri, salite infinite, serpenti di asfalto che si inerpicano fra la vegetazione; muri di roccia e lingue di neve che resistono. Scoprire, esplorare, avventurarsi. Elevarsi anche, perché attaccare questi mostri sacri rappresa un'esperienza unica.
Almeno una volta, ancora una volta. Per i più allenati, per i più avvezzi, ma anche per chi da poco ha scoperto il pianeta della bicicletta. Per chi spinge sulle salite, per chi attacca spavaldo queste cime sacre sfidandole, per chi si realizza con sudore e fatica. Ma anche per chi mette al centro della propria esperienza un viaggio esplorativo, conoscitivo, persino introspettivo. Per tutti i gusti insomma, per tutte le età, per tutte le capacità.
In sicurezza, scortati, perché Livigno offre a tutti la possibilità anche ai meno esperti, di raggiungere queste mete. Per tutti, proprio nel segno del ciclismo e nel suo tratto distintivo aggregante. Con la tua bici, oppure con Pinarello che è partner dell’iniziativa. Con una bici da strada, una gravel, una e-bike.
I PERCORSI SETTIMANALI
LUNEDÌ, GIRO DELL’ ENGADINA
Un giro ad anello non particolarmente impegnativo, con la salita più dura all’inizio per raggiungere prima il Passo Forcola (2315 m.) e poi, dopo una breve discesa, il Passo del Bernina (2328 m.). Si prosegue verso St. Mortitz e poi si percorre tutta l' Engadina per rientrare al tunnel Munt La Schera attraverso l’ultima salita di Ova Spin (1880 m.). Quindi si costeggia il lungolago fino a Livigno
Dislivello 1460
Distanza: 108 km
Cima Coppi: Passo del Bernina 2327 m.
Ritrovo: tra le ore 09.00 e le ore 10.00 c/o Bike Skill Center
Info e Prenotazione: +39 331 3322023 - info@bikelivigno.com.
MARTEDÌ, STELVIO DA UMBRAIL
Prevede la scalata del Passo dello Stelvio dal versante svizzero, Si transita dal Tunnel Munt la Schera ed ecco l’ascesa al Passo del Forno (2149 m.), seguito da una lunga discesa che, attraverso la Val Müstair, punterà a Santa Maria. Si sale così in direzione Stelvio dalla Valle dell'Umbrail, per giungere dopo 13 chilometri di ascesa i 2500 metri del confine con la Valtellina. Quindi i quasi 4 chilometri fino al Passo Stelvio. Poi la picchiata verso Bormio e il rientro verso Livigno con una salita divida in due sezioni: il Passo del Foscagno (2290 m.) prima e dopo una discesa il Passo Eira (2210 m.).
Dislivello: 3190
Distanza: 112 km
Cima Coppi: Passo dello Stelvio 2758 m.
Ritrovo: tra le ore 09.00 e le ore 10.00 c/o Bike Skill Center
Info e Prenotazione: +39 331 3322023 - info@bikelivigno.com.
MERCOLEDÌ: LA GIORNATA CON IL CAMPIONE
Ogni mercoledì ecco la giornata con il campione: i partecipanti avranno la possibilità di pedalare e scambiare opinioni per qualche ora con uno dei corridori professionisti presenti a Livigno per gli allenamenti. Ovviamente ammiraglia sempre al seguito e si potrà usufruire del servizio shuttle per il rientro verso Livigno.
Ritrovo: tra le ore 09.00 e le ore 10.00 c/o Bike Skill Center
Info e Prenotazione: +39 331 3322023 - info@bikelivigno.com.
GIOVEDÌ: FOSCAGNO E FORCOLA
Fra Alta Valtellina e la svizzera Val Poschiavo: la prima salita di 6 km è il Passo Eira (2208 m.) per proseguire per la seconda parte di ascesa di 4 km al Passo del Foscagno (2291 m.). Giunti a Bormio, si percorre la vecchia statale di Tirano (427 m.) per poi affrontare in territorio elvetico 35 km di salita con quasi 2000 metri di dislivello fino al Passo Forcola. Poi la discesa per rientrare a Livigno.
Dislivello: 2800 mt.
Distanza: 125 km
Cima Coppi: Passo della Forcola 2315 m.
Ritrovo: tra le ore 09.00 e le ore 10.00 c/o Bike Skill Center
Info e Prenotazione: +39 331 3322023 - info@bikelivigno.com.
VENERDÌ: FLUELA E ALBULA
Giro tutto in territorio elvetico: subito direzione Zernez, quindi Susch e si sale subito per 13 km. verso il Flüela Pass. La discesa poterà a Davos, celebre cittadina grigionese. Da qui si procede percorrendo la vallata che ci porterà a Filisur, dove si imboccherà la valle dell'Albula per la seconda fatica di giornata (2312 m.). La discesa riporterà in Engadina e poi successivamente si tornerà a Zernez.
Dislivello: 3070 mt.
Distanza: 117 km
Cima Coppi: Passo Flüela 2384 m.
Ritrovo: tra le ore 09.00 e le ore 10.00 c/o Bike Skill Center
Info e Prenotazione: +39 331 3322023 - info@bikelivigno.com.
SABATO E DOMENICA: STELVIO DA PRATO
Sua maestà lo Stelvio dal suo versante più epico, quello altoatesino di Prato Stelvio. Partendo da Livigno, si percorrerà il lungolago fino al tunnel Munt La Schera che attraverseremo con l'ausilio di una navetta. La prima salita porterà al Passo del Forno (2149 m.). Quindi attraversando la Val Müstair ecco Glorenza e successivamente Prato Stelvio dove inizierà la mitica ascesa allo Stelvio (2758 m.). Si scende a Bormio e poi la consueta doppia salita per rientrare a Livigno: Era e Foscagno.
Dislivello: 3640 m.
Distanza: 140 km
Cima Coppi: Passo dello Stelvio 2758 m.
Ritrovo: tra le ore 09.00 e le ore 10.00 c/o Bike Skill Center
Info e Prenotazione: +39 331 3322023 - info@bikelivigno.com.
https://www.livigno.eu/road-bike
Auguri, Sceriffo
La strada che sale a Maso Warth è ripida e tortuosa. Si arrampica tra le vigne, curate meticolosamente.
Siamo arrivati davanti alla cantina Moser alle 19, ormai era sera. Dalla mattina presto eravamo in giro attorno a Trento per scattare foto per un servizio sui Campionati Europei di ciclismo che si svolgeranno proprio nel capoluogo trentino a metà settembre. Non è che ci presentassimo benissimo, sudati, malconci, vestiti metà da bici e metà no. Fermate le auto davanti alla tenuta, non c’era nessuno, a parte un uomo, con due cani, che armeggiava in un garage con delle cassette di legno. Decido di scendere per chiedere informazioni. Quando quel signore alza la testa, mi pianta gli occhi in faccia e lo riconosco al volo: lo Sceriffo.
Immaginate di trovarvi in casa di Moser, davanti a Moser a chiedere informazioni su dove andare a parcheggiare l’auto.
«Ehm… Buonasera signor Moser, avevamo un appuntamento con Carlo. È un piacere, è un onore…».
Quelle cose lì che si dicono goffamente quando si è in imbarazzo e ci si ritrova davanti un’icona dello sport. Lui, dopo avermi squadrato e probabilmente dopo aver ricordato che avrebbero dovuto arrivare dei giornalisti e dei fotografi della rivista Alvento, invece non era in alcun imbarazzo. I due cani Lindsey (da Lindsey Vonn) e Tom (da Tom Boonen) - ho colto quando diceva questa cosa, ma non ho afferrato il perché si chiamassero così - hanno iniziato a saltarmi addosso per farmi le feste e per prima cosa si è premurato di ribaltare Lindesy pancia all’insù e mostrarmi una lunga cicatrice, spiegandomi il decorso clinico di un intervento a cui l’anziana cagnolona era stata da poco sottoposta.
«Non sopportava quell’ostia di collare, com’è che si chiama…».
«Elisabetta?»
«Ma no, si chiama Lindsey. Dicevo il collare!»
«Eh, sì, collare Elisabetta, quello che mettono ai cani perché non si lecchino le ferite».
«Ma no, insomma quel collare là che si mette ai cani. Ma non lo sopportava povera bestia. Allora ho preso una maglietta da ciclismo. Era di una granfondo, forse la Charlie Gaul del Bondone, e gliel’ho messa su, così stava bella protetta e non si leccava. Ah, è guarita una meraviglia, altro che il collare».
Insomma, dall'imbarazzo di quell'incontro casuale, avevo rotto il ghiaccio con Francesco Moser.
A seguire ha poi accompagnato me e il resto della banda di Alvento a visitare la sala degustazioni della cantina, le viti, le piante di ciliegie, avrebbe sciabolato un 51.151, il suo metodo classico dedicato al record dell’ora, e soprattutto ci avrebbe incantati mostrandoci la sala dei trofei e snocciolando un aneddoto dopo l’altro.
Noi, naturalmente, tutti a bocca aperta.
In bacheca, il Checco vanta un Giro d’Italia, 3 Parigi-Roubaix, 3 Giri di Lombardia, una Freccia-Vallone, una Gand-Wevelgem, una Milano-Sanremo, un campionato del mondo su strada e uno su pista nell’inseguimento individuale.
273 vittorie su strada da professionista: primo ciclista italiano per numero di successi, terzo al mondo dopo Eddy Merckx e Rik Van Looy.
Con il suo record dell’ora, stabilito a Città del Messico nel 1984, cambiò per sempre il ciclismo, spingendolo verso il futuro e i giorni nostri.
Oggi Francesco Moser compie settant’anni.
Tanti auguri allo Sceriffo del ciclismo italiano, uno dei più grandi campioni della storia di questo sport.
Foto: Jered Gruber
Leadville 100
Words: Paco Gentilucci
Voice: Luca Mich
Sound design: Brand&Soda
Nel 2012 dopo aver passato più di un mese girando in autostop e dormendo sui divani di sconosciuti, la mia ex ragazza decide di raggiungermi negli USA e le chiedo di accompagnarmi a Leadville.
Stando alle regole delle macchine a noleggio USA io avevo la patente da troppo poco tempo, pur essendo maggiorenne, il che è sensato, per loro, considerato il fatto che a16 anni già possono guidare la macchina.
Leadville è fondamentalmente un paese costruito su una strada. Una strada con dei fast food e un piccolo centro commerciale con un motel (in cui dormiremo) prima di arrivare in quella che viene definita downtown: un barbiere, un coffeee shop e un negozio di vestiti dell’usato, il tutto al lato della solita strada.
La mia ex ragazza mi fissa con quello sguardo che significa siamo sul serio venuti qui? mentre io svuoto la sacca delle attrezzature per correre – un paio di pantaloncini una tshirt, un paio di scarpe e un cappello bianco con la visiera acquistato al negozio dell’usato in downtown dieci minuti dopo essere arrivato. Un cappello di Oil the Machine, un brand produttore di olio per condire l’insalata utilizzato da molti ultrarunner oltreoceano: un vero pezzo da collezione, per intenditori. A dir la verità il cappello era già molto usato e sporco, non fu un grande affare, non contrattai e lo pagai effettivamente più di quanto valeva in sé, ma il prezzo mi sembrò appropriato, chissà chi lo avesse indossato prima di me, magari AK, Anton Krupicka; chi poteva saperlo. Lo pagai volentieri, lasciando anche due dollari di mancia.
Secondo la mia ex ragazza non era stato un grande acquisto. Me lo disse apertamente mentre eravamo seduti a bere il classico caffè lunghissimo e acquoso che qualsiasi italiano definirebbe acqua sporca: io lo adoravo.
Ce lo servì un signore in camicia di flanella pieno di rughe con la barba che indossa una tshirt scolorita con scritto Leadville 100.
Com’è stato? gli chiesi, indicandola col dito
Horrible mi rispose, aprendosi in un sorriso sdentato.
In quel momento pensai di trovarmi nel posto giusto, proprio quello in cui avrei dovuto essere.
Tornati in Italia la mia ex prese a portare con frequenza il cane a spasso con un tizio, con cui dopo qualche giorno iniziò ad andare a letto, prima di decidersi a scaricarmi, dopo qualche mese. Quando mi parlava del recinto per far giocare i cani assumevo la stessa espressione con cui lei mi guardava mentre dicevo che buono bevendo quel caffè: felice, come un bambino al luna park.
Leadville, 3094 metri di quota, città più alta degli Stati Uniti. Chiamarla città è eufemistico in quanto è più un villaggio, attorniato da questi collinoni enormi che arrivano senza difficoltà ai 4000 metri.
Cosa rende un posto degno di essere visitato?
Di sicuro Leadville non è tra le mete che strappano un “wow” o un “che fortunato” alle persone quando gli racconti dove sei stato, tipo le Hawaii o New York o il mar Rosso, ma tant’è.
Immagino che i luoghi assumano significato per le persone che ci abitano e ciò che vi succede, e ogni estate Leadville è una meta ambita per un certo tipo di persone.
Leadville nasce nel periodo storico della corsa all’oro, nel 1860. Intere generazioni di persone scommettono in un immediato futuro migliore andando a caccia della ricchezza facile, il dio denaro, che come sempre nella storia dell’uomo, offusca la razionalità. Una volta terminato il periodo dell’estrazione in California le famiglie emigrano dalla pianura alle montagne rocciose del Colorado, vestiti di stracci con in mano la speranza di un futuro migliore. Era l’isteria generale il motore della caccia all’oro, la prospettiva dei soldi, tanti e immediati, che smuoveva queste persone. Attraevano come gratta e vinci, i videopoker o un investimento spirituale in cambio del paradiso eterno. Non si trattava di cercare pagliuzze d’oro nel fiume con un retino, ma di un’estrazione sistematica, invasiva e senza tregua. La gente era disposta a tutto, lasciando la propria vita a caccia di questo materiale luccicante. Entro il 1860, Denver City, Golden City e Boulder City erano di fatto delle città che servivano le miniere. La rapida crescita della popolazione portò alla creazione del Territorio del Colorado nel 1861.
Le cose assumono il valore che le persone decidono di attribuirgli. Pensate che dei sassi sono molto più importanti della vita delle persone, possono migliorargli o rovinargli la vita per sempre.
Sassi per cui i Pellerossa o gli Indios sono stati sterminati, e per cui ancora adesso succedono guerre e che vengono mostrati come status sociale addosso alle persone in luccicanti anelli e crocifissi al collo.
Dei sassi luccicanti che influenzarono la vita delle persone, arricchendone molte, e conducendone molte di più al baratro. Nella metà del 1860 i flussi auriferi terminarono e molte persone si ritrovarono con un pugno di mosche in mano, i minatori senza lavoro e molte malattie per le condizioni di lavoro estreme e città che sarebbero diventate fantasma nel giro di pochi anni, come Uptop, intera città messa all’asta nel 2015 per un milione di dollari.
Oro City stessa, la cittadina che nasceva a un miglio dall’attuale Leadville, raggiungeva nel 1860 ben 5000 abitanti censiti, ma scomparse velocemente assieme all’oro dei giacimenti.
E Leadville?
Leadville fu fondata nel 1877 dai proprietari di miniera Horace Tabor e August Meyer durante la Silver Rush. Si, perché terminato l’oro, i minatori riuscirono a estrarre da quelle montagne martoriate dell’argento. Non fu mai un vero boom come quello per l’oro, ma Leadville, in precedenza chiamata Slabtown (in quanto giaceva nella desolata pianura sotto le montagne) venne ribattezzata Leadville e ben presto si sviluppò con illuminazione e gas, strade, scuole, banche e ospedali. Personaggi di spicco vissero lì, prima che Leadville tornò ad essere una cittadina quasi disabitata (circa 2000 persone ci abitano oggi) e tra tutti vogliamo ricordare la nostra connazionale Giuseppina Morlacchi, ballerina milanese emigrata negli stati uniti e stabilitasi lì per il resto della sua esistenza.
Chissà cosa avrebbe pensato di quegli individui che si sarebbero trovati nella sua cittadina per correre 160 km in bici, o a piedi, da lì a qualche secolo.
Il tasso di disoccupazione a Leadville è altissimo, più di 3000 persone si ritrovano senza lavoro a causa della crisi mineraria. Serve qualcosa di nuovo, ma la terra è già stata spremuta e non può più offrire niente alle persone del Colorado. Serve una prospettiva nuova e a trovarla sono Ken Chlouber e Merilee Maupin a guardare ciò che vedono ogni giorno dalla loro casa in modo diverso. Montagne, a perdita d’occhio, e strade sterrate percorse normalmente in jeep. Ken nato in Oklahoma giocava a football, come chiunque, da quelle parti e si laureò in biologia, dopo essersi arruolato nell’esercito. Un giorno, andando a caccia con gli amici per noia, si beccò un proiettile da un amico, proiettile che ancora adesso è nel suo ginocchio. Dopo essersi sposato e avuto un figlio si trasferì a Leadville, trovando lavoro in un’azienda di estrazione mineraria, negli anni 70 prima di approdare nella politica come Repubblicano ed essere eletto alla Colorado House of Representatives dove lavorò per 10 anni. Ken è però anche un appassionato corridore, trascorre molte ore sui sentieri e le grandi strade sterrate attorno Leadville.
Un giorno si trova a leggere il racconto di questa gara che è già sulla bocca di tutti – o per meglio dire, di tutti i fuori di testa pionieri dell’ultrarunning– chiamata Western States 100 Endurance Run. Una gara in california di 100 miglia (160 chilometri) che un ragazzo di Auburn ha inventato, iscrivendosi alla gara, allora corsa per cavalli (la Tevi’s Cup) correndo senza cavallo e coprendo la distanza a piedi, in meno di 24 ore. Una cosa così folle e avveniristica da smuovergli qualcosa dentro. Perché le persone non potrebbero correre 100 miglia qui?
“L’altitudine forse li ucciderebbe” provò a spiegargli il dottore del posto.
Ken alzando le spalle lo mandò a quel paese.
L’anno dopo, nel 1983, 45 corridori erano al via, nessuno di essi morì.
La Leadville 100 era ormai nata, ed è una tradizione che prosegue fino ai giorni nostri.
Leadville 100 è in assoluto una delle gare più importanti per qualsiasi ultrarunner al mondo. Nel percorso che parte da downtow, arriva a Hope Pass e torna indietro sulla stessa strada dopo aver girato attorno a un birillo, tutti i nomi più importanti della storia della corsa si sono dati battaglia. Dai record imbattuti dei leggendari Matt Carpenter in 15 ore e 42 minuti e Ann Trason in 18 ore e 6 minuti, arrivata seconda assoluta nel 1994 e vincitrice di Western States per 14 volte i sentieri della cittadina del Colorado trasudano storie e leggende. Dalla resurrezione di Rob Krar che è stato capace di tornare a vincere nel 2018 dopo la sua vittoria nel 2014 e una lunga assenza a causa di infortuni; alla consacrazione di Clare Gallagher che corse per la prima volta nella sua vita 100 miglia, bevendo litri di Coca Cola e mangiando cibo spazzatura stampando il secondo tempo più veloce della storia, senza aver praticamente mai gareggiato prima. Vogliamo parlare delle due vittorie di Anton Krupicka?
La prima volta questo capellone simile a Gesù corse a torso nudo, scarpe minimali a cui aveva tagliato via la suola e una borraccia infilata nel retro dei pantaloncini, staccando qualsiasi altro corridore, dopo una notte trascorsa dormendo nei bagni pubblici.
Una notte burrascosa trascorsa con i suoi pacer Julian Boggs e Alex Nichos durante la quale un ubriacone continuò a urlare fino all’alba, momento in cui Anton partì, per vincere la gara.
Tutti i grandi nomi dell’ultrarunning sono passati, almeno una volta, da Leadville: Jurek, Sherman, Sandes e in questo posto sperduto del Colorado il seme della distanza ha portato anche alla creazione della gara in mountain bike, corsa per la prima volta nel 1994.
Il percorso? Lo stesso della gara di corsa a piedi: vai avanti 80 chilometri, ti giri e torni
indietro fino all’arrivo. Out and back.
Follia?
No, una cosa sensata per tutti quelli che la capiscono.
La Leadville 100 trail MTB nasce appunto nel 1994 grazie a un’idea di Tony Post, uno dei pionieri dell’ultrarunning, nonché ex-vicepresidente di Rockport Company, sponsor dell’evento. Lo stesso Tony Post che diventò CEO di Vibram USA e poi diede vita al suo brand di scarpe da corsa, innovativo e da poco presente anche sul mercato italiano: Topo Running.
Con il benestare del solito Ken Chlouber la pioneristica gara in bici passò dall’essere una faccenda per pochi scoppiati al diventare una gara must dell’ambiente. Le 150 iscrizioni del primo anno finirono ad essere le1700 richieste di partecipazione dell’anno scorso. Richieste, si, perché per accedere alla gara non basta pagare e partire, ma bisogna guadagnarsi l’iscrizione per merito (vincendo una delle gare qualificanti, solitamente sulla distanza di 100km) o tramite un bacio della dea bendata, vincendo la lotteria a estrazione che si tiene prima della gara, lotteria ovviamente esistente anche per la gara di corsa.
La quota, la lunghezza e le condizioni climatiche che possono variare dal caldo asfissiante alla neve e al fango rendono questa gara un’esperienza memorabile per molti, che si tratti di lottare per il podio o per vincere la fibbia da finisher, che nella gara in mountainbike prevede il cutoff dopo 9 ore (per ricevere la big buckle) e di 12 come cutoff massimo per essere nella classifica.
E i primi? I tempi dei primi classificati rispecchiano l’evoluzione di questo sport, di bici sempre più performanti e preparazioni atletiche sempre più mirate per questo evento. Il primo vincitore e la prima vincitrice di Leadville Trail 100 MTB furono John Stamsad e Laurie Brandt coi rispettivi tempi di 7 ore e 52 minuti per la gara maschile e poco più di 9 ore per quella femminile. Per vincere la gara adesso bisogna essere in grado di percorrere i 160 km in poco più di 6 ore tra gli uomini e di 7 tra le donne. Il livello si è alzato di anno in anno, ma la svolta avvenne quando in griglia di partenza si presentò David Wiens, un ragazzo di Denver, nel 2003.
Già mountainbiker di buon livello, Wiens vinse la gara nel 2003 inanellando una serie di vittorie consecutive in questa gara, fino al 2007. Nel 2007 però in griglia di partenza c’era anche un ciclista non proprio qualsiasi: Floyd Landis. Era chiaro ed evidente a tutti che David avrebbe perso la sua imbattibilità, nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul ragazzo del posto, campione di mountainbike si, ma già ritirato dalla carriera, e che comunque, al prospetto di un grande mostro del ciclismo su strada, era un signor nessuno. Landis, al tempo ancora professionista su strada, nonché vincitore del Tour de France 2006 (prima che questo successo gli venne revocato per la orribile vicenda di doping in cui era coinvolto e che sconvolse il ciclismo di quegli anni e che venne sospeso l’anno seguente dalle competizioni) venne tuttavia battuto da Wiens, che compì il miracolo di vincere la gara abbattendo il muro delle 6 ore, per due minuti.
cosa successe l’anno dopo?
In linea di partenza c’era un texano che in bici aveva spadroneggiato, battendo qualsiasi altro corridore della terra, un corridore amato o odiato, che nell’armadio a casa collezionava varie maglie gialle. Anzi, più che varie dovremo dire, più di chiunque altro. Erano 7.
Si, proprio un certo Armstrong. Lance Armstrong.
Alla domanda ricevuta pochi mesi prima, un giornalista chiese a Lance come sarebbe voluto essere ricordato dopo la sua settima vittoria al Tour, Lance dichiarò:
«Come il campione che ha radicalmente cambiato il modo di avvicinarsi e vincere il Tour. Il lavoro invernale, la costruzione della squadra, gli stage su Alpi e Pirenei, l’approccio studiato nei dettagli. Per sette anni io ho vissuto per il Tour». E alla domanda
Addio definitivo? Nessun ripensamento?
Lance tuonò: «Nessuna possibilità di tornare alle gare col numero sulla schiena. Non farò come Michael Jordan. Andrò ancora in bici per restare in forma e potrei anche partecipare a qualche corsa di mountain bike o cross, giusto per divertirmi”
A differenza di quanto dichiarato, Lance sarebbe tornato l’anno dopo al Giro d’Italia. Lance si preparava quindi, non aveva mai smesso, e si allenava per il suo ritorno al ciclismo professionistico, e una cosa era certa: non si era iscritto a Leadville 100 per perdere. Lance non era il tipo di persona che si iscriveva alle gare per divertirsi e basta.
Ad ogni modo, in quell’estate del 2008 Lance non si stava divertendo molto.
Wiens gli era attaccato alla schiena, nonostante il ritmo forsennato da record di gara, a meno di 10 miglia dall’arrivo, e i due procedevano appaiati in salita.
A 20 minuti dagli inseguitori Lance non riusciva a scrollarsi David di dosso, e provò ad accelerare, ma Wiens non mollava. Successe l’impensabile, Lance si girò e dichiarò:
Sono distrutto – I’m done. Ordinando a Wiens di andare da solo all’arrivo.
Wiens, che veniva dai trails e non era abituato alla concorrenza assoluta della strada si trovò a rincuorare Lance, a tenere duro, gli disse di continuare, disse a Lance di non mollare e di proseguire.
Immaginate la scena: un signor nessuno che dice a Lance Armstrong, il corridore più tiranno e assetato della storia, che spadroneggiava su tutto il gruppo al Tour de France e che piazzava i suoi uomini della US Postal a tirare ai 60 all’ora solo per distruggere i sogni di gloria dei corridori fuori classifica colpevoli di non essergli simpatici, di tenere duro e arrivare assieme all’arrivo, semmai giocarsela in volata.
Fu la prima volta nella storia che Lance Armstrong disse ciò e ribadì il concetto con poche semplici parole: I’m done.
Wiens non si guardò più indietro e sollevò le braccia all’arrivo per la sesta volta consecutiva, battendo ancora una volta il record di gara, di due minuti.
Lo stesso Armstrong confidò che mai nella sua carriera aveva detto quelle parole a un avversario.
Non passò molto tempo che Lance affermò il suo ritorno al ciclismo professionistico e la sua volontà di rivincita su Wiens, a Leadville 100.
Grazie a questa vicenda Leadville Trail 100 diventò una gara sotto i riflettori della ribalta e il numero di professionisti del ciclismo aumentò di anno in anno. Lo stesso Armstrong tornò per vincere la gara, nel 2009, e il suo compagno di squadra alla Radio Shack Levi Leipheimer vinse l’anno dopo con il tempo record di 6 ore e 16 minuti, correndo per la prima volta su una mountain bike.
Leadville era polvere, sudore, una gara che portava al limite i corridori: anche i più forti atleti del pianeta dovevano soffrire almeno 6 ore per arrivare in fondo. Leadville era, ed è, la mecca per certe persone, non più a caccia di oro, ma di emozioni forti. Leadville è storia, leggenda ed è molto più di una semplice gara in mountain bike.
Il mio consiglio?
Al coffee shop del paese fanno un caffè squisito.
100% Daniel Oss
Questa puntata l’abbiamo registrata a poche ore dalla partenza del Giro d’Italia 2021 – che in questi giorni si appresta ad affrontare la terza settimana.
Siamo andati a trovare un Daniel Oss sereno e rilassato, anche se molto concentrato sulla Corsa Rosa. Non tanto per parlare di attualità, quanto per approfondire la sua visione del ciclismo, della professione di corridore. Per farci raccontare come lui stesso è evoluto in tutti questi anni in gruppo e come vede il suo futuro, in sella alla bicicletta ma non solo.
Daniel Oss è uno dei personaggi più riconoscibili del plotone, un professionista esemplare ma anche un grande comunicatore.
Godetevi questa oretta di freestyle, registrata a Trento a casa di Franz Perini, manager di Daniel.
Volete vedere anche la versione video di questo episodio? Ecco il link:
100% Daniel Oss – ep. 12
Intervista: Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda
Special thanks: Franz Perini
La locomotiva umana
Words: Gino Cervi
Voice: Luca Mich e Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda
Il 10 maggio 1931 è un giorno di grandi duelli. Sulle strade d’Italia, seppure a distanza di mille miglia, vanno in scena due appassionanti contese sportive. In Sicilia, sulle curve e i saliscendi delle Madonie, si corre la ventiduesima edizione della Targa Florio, una delle più antiche e illustri corse automobilistiche. Al volante di rombanti fuoriserie i piloti più forti del momento: su tutti spicca la sfida tra il vecchio, Tazio Nuvolari, e il giovane campione, Achille Varzi. Al termine dei quattro giri di circuito, 584 km, 9 ore, 0 primi e 27 secondi, alla media di 64,836 km/h, taglia per primo il traguardo di Cerda l’Alfa Romeo del Nìvola, il “Mantovano volante”; Varzi, su Bugatti, arriva soltanto terzo; in mezzo un’altra Alfa Romeo, quella di Mario Umberto Borzacchini. Completa la classifica dei migliori, Giuseppe Campari, quarto. Sembra una canzone di Lucio Dalla.
Dall’altro capo della penisola c’è un’altra sfida. Non schiacchiano i piedi su acceleratore, freno e frizione ma mulinano le gambe sulle pedivelle delle loro biciclette. Nella prima di tappa del Giro d’Italia, la Milano-Mantova, 206 chilometri e mezzo, piatti come una tavola e più o meno dritti come una ferrovia, il testa a testa è tra Alfredo Binda e un altro mantovano che non è ancora volante, ma sta per spiccare il volo: Learco Guerra.
Ci sono almeno due buoni motivi per appassionarsi all’ouverture dell’edizione numero 19 del Giro. Il primo è che da quest’anno la corsa si è data un colore che la accompagnerà per il resto della sua storia. Il leader in classifica generale indossa una maglia che lo distingue per eccellenza: una maglia rosa. Rosa come la carta sulla quale, fin dal 2 gennaio 1899, viene stampata “La Gazzetta dello Sport”. L’idea è “copiata” dal Tour: anche lì da qualche anno, il primo in classifica è riconoscibile per una maglia gialla, gialla come il colore delle pagine del giornale “L’Auto”, l’organizzatore della manifestazione.
Pare che a Mussolini e agli alti dirigenti dello sport fascista la scelta non convincesse per niente. Il rosa non è u colore che si addice agli eroi, virili e ardimentosi, dello sport. Forse per questo la novità viene poco enfatizzata dagli stessi organizzatori e dalla stampa. Il termine infatti compare timidamente sulle pagine della “Gazzetta” solo al termine della 7a tappa e, a Giro concluso, in una poco appariscente didascalia di una foto del vincitore. Col tempo tuttavia il colore “delle dita dell’aurora”, come scrive Omero che di epica se ne intende, conquistò anche i suiveur del Giro. Non solo la maglia del più forte, ma anche il Giro stesso divenne “la Corsa Rosa”.
Il secondo motivo è questo. Se vogliamo restare fedeli alla tradizione omerica, diciamo che Alfredo Binda e Learco Guerra si accingono quel giorno a diventare l’Achille e l’Ettore del ciclismo nazionale. Così, spalla a spalla, e col coltello tra i denti, si presentano i due avversari alle porte della pista del Te, che prende il nome dal vicino palazzo gonzaghesco a Mantova.
A poche decine di metri dall’ingresso in pista, mentre il gruppo compatto si accinge a preparare la volata, cade Antonio Negrini. Sei corridori si trovano in testa: Di Paco e Battesini della Maino, quindi Binda della Legnano, Guerra ancora della Maino, e poi Mara della Bianchi e, a chiudere, un altro “ramarro” della Legnano, Marchisio. Devono ancora percorrere un giro e mezzo di pista. Ma noi, per il momento, li lasciamo qui. E facciamo un passo indietro per raccontarvi da dove arrivano i due duellanti.
Se fossero vissuti a cavallo tra il I e il II secolo d.C. Plutarco, lo scrittore greco di cittadinanza romana, Alfredo Binda e Learco Guerra li avrebbe inseriti nelle sue celebri Vite parallele. Invece sono figli del XX secolo e ci tocca raccontarli in un altro modo, magari proprio in un podcast. Le vite di Binda e Guerra incominciano nel 1902, quasi appaiate: l’11 agosto nasce Alfredo, 14 ottobre Learco.
A Cittiglio, provincia di Varese, il primo; a San Nicolò Po, frazione di Bagnolo San Vito, provincia di Mantova, il secondo. Un lombardo di lago e un lombardo di fiume. Binda, decimo di quattordici figli, cresce in una famiglia quasi agiata. Il padre ha una piccola ditta edile: il piccolo Alfredo trova anche il tempo di studiare musica e suonare la tromba nella banda del paese. All’indomani della Grande Guerra, sulla “sponda magra” del Lago Maggiore non c’è però lavoro per tutti. E il giovane Alfredo, al seguito del fratello maggiore, Primo, emigra e va a cercar fortuna in Francia, come stuccatore e decoratore nelle belle case della Costa Azzurra.
Qui incomincia ad appassionarsi di ciclismo: all’inizio accompagna il fratello alle corse, poi scopre di avere un innato talento sui pedali.
A vent’anni comincia a correre. E comincia a vincere nelle gare a cui si iscrive, da dilettante, tra un lavoro e l’altro. Va talmente forte che presto diventa quello il suo lavoro. Nel 1923 in una corsa in salita aperta ai professionisti, la Nizza-Mont Chauve, batte tutti, francesi e italiani, Girardengo compreso.
Learco Antenore Giuseppe Guerra è figlio di Attilio, capomastro mantovano, e di Pasquina, combattiva casalinga di simpatie socialiste. Perché lo battezzino Learco nessuno lo sa. Che Learco in mitologia sia lo sfortunato figlio di Atamante, ucciso dal padre reso pazzo per vendetta da Era, o Giunone, non importa a nessuno. Learco suona bene e basta così. A Learco piace lo sport: è forte, atletico, resistente. Gioca a pallone. Vorrebbe anche provare a correre in bicicletta. Ma di tempo da perdere, in famiglia Guerra non ce n’è. L’unica bicicletta è un vecchio tandem. Lo inforca insieme a Papà Attilio per andare nei cantieri.
Nel Mantovano gli anni della guerra sono durissimi: l’alluvione del Po nel giugno del 1917, i disastri della ritirata di Caporetto in autunno; e poi, a guerra finita, le tensioni sociali. Il 3 e 4 dicembre 1919 a Mantova le Giornate rosse dei braccianti, sempre più poveri e sfruttati. Protestano contro il costo della vita e la disoccupazione. Manifestazioni e scontri di piazza degenerano in saccheggi e devastazioni. L’esercito interviene: 8 morti, 50 feriti, centinaia di arresti. Anche alcuni amici di Learco finiscono in carcere e sotto processo. I socialisti vincono le elezioni amministrative del 1920. Le squadre fasciste iniziano le spedizioni punitive nelle campagne. Nel 1921 devastano la cooperativa di San Nicolò.
Learco a vent’anni è chiamato alla leva militare e si toglie per un po’ da quella polveriera. Due anni dopo, al suo ritorno, nell’ottobre del 1924, è già papà. Nasce Gino Beniamino e la mamma è Letizia Malavasi, la sua “morosa” fin da prima di partire soldato. Si sposano qualche mese dopo. Ora che c’è una famiglia da mantenere, c’è ancora meno posto per le fantasie ciclistiche. Eppure Learco non smette di pensare a quegli aitanti ciclisti che corrono nel Pedale Mantovano, o per 23a Legione Bersaglieri del Mincio; e ai campioni locali di cui legge sulle pagine dei giornali. Alfredo Donini e Spartaco Boselli; Giacomo Gaioni e Aimone Altissimo; e Armando Maggiori, che nel 1927 corre il Giro da indipendente. Learco sente che, in sella a una bicicletta, non sfigurerebbe al loro confronto. Ma restano solo sogni.
Ad Alfredo Binda invece la bicicletta ha fatto svoltare la vita. Dopo aver vinto in Francia una trentina di corse, sul finire del 1924 torna in Italia per partecipare al Giro di Lombardia. Ha un obiettivo: vincere le 500 lire di premio messe in palio per chi passerà primo sul Ghisallo. Alfredo ce la fa. Scollina per primo con 2 minuti di vantaggio su Brunero e 3 e mezzo su Girardengo. In discesa viene ripreso da Brunero, che poi lo stacca a Viggiù. Al traguardo, arriva 4°, a 8 minuti da Brunero, il vincitore, ma insieme a molti navigati campioni come Girardengo e Linari. L’occhio lungo di Eberardo Pavesi, direttore sportivo della Legnano, lo nota. A corsa finita gli fa firmare un contratto con la Legnano. Per un decennio sarà la fortuna di Binda, ma anche di Pavesi.
L’anno seguente, con la maglia verde ramarro, il “Trombettiere di Cittiglio” – come hanno iniziato a chiamarlo sui giornali – vince il Giro d’Italia al primo tentativo e, a fine stagione, anche il Giro di Lombardia. Nel 1926 arriva secondo al Giro, ancora dietro a Brunero, ma vince sei tappe, si ripete al Lombardia e conquista il suo primo titolo di campione italiano su strada.
Nel 1927 ammazza il Giro: guida la classifica dal primo all’ultimo giorno e vince dodici tappe su quattordici. Sgomina la concorrenza internazionale al primo Campionato mondiale su strada, sul circuito del Nurburgring. Quindi ancora Campionato italiano e ancora il Giro di Lombardia.
Nel 1928 si “limita” al terzo Giro d’Italia (con sette tappe su dodici) e alla terza maglia tricolore.
Nel 1929 vince la prima Milano-Sanremo e poi cala il poker sia al Giro sia ai Campionati italiani.
Non è un dominio: è una tirannia. Binda pare imbattibile. In meno di cinque anni ha sbaragliato il campo, mettendo all’angolo un Campionissimo come Girardengo. Quello che sconcerta di più è la scientificità dei suoi successi. Tutto, nelle sue imprese, pare calcolato al millimetro: sforzi ed emozioni. Il varesino ha una gestione perfetta del proprio talento sportivo ma non entusiasma le folle. Anzi, i tifosi del ciclismo, abituati fin dalle origini alle rivalità e a i duelli – Gerbi e Cuniolo, Ganna e Galetti, Girardengo e Belloni – cominciano a irritarsi per questa incontrastata egemonia. Lo capiscono anche gli organizzatori del Giro d’Italia. Nel 1930, per non privare d’interesse la corsa, gli propongono questo accordo: «Tu resti a casa, noi ti paghiamo lo stesso il premio del vincitore: 22.500 lire». Binda accetta: così avrà modo di prepararsi meglio al suo primo Tour de France.
Cosa succede intanto dalle parti di Mantova al muratore Guerra?
Autunno 1927. Ferruccio Gatti, fascista della prima ora, è il presidente della società sportiva della 23a Legione Bersaglieri del Mincio, affiliata alla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Gli presentano Learco: ha già venticinque anni, non ha mai corso in bicicletta, però quel giovanottone massiccio, con le mani grosse da muratore, gli ispira fiducia. Learco si lascia alle spalle il suo passato di simpatizzante socialista: prende la tessera del partito e viene iscritto. Non vede l’ora di essere messo alla prova.
Nelle prime corse solo piazzamenti. La prima vittoria è nel Giro della Provincia di Ferrara: porta a casa 1200 lire, quel che ci vuole per rispondere alle perplessità della famiglia che non vede di buon occhio la passione ciclistica.
Si iscrive come indipendente al Lombardia: tiene fino a 10 km dall’arrivo, poi si ritira. Ci riprova nella “Coppa d’Inverno”. Arriva 11° e si merita una menzione da Emilio Colombo della “Gazzetta”:
«Atleta solido, ben piantato, munito di un fiato rimarchevole. Potrà certamente fare qualcosa».
Si batterà generosamente in altre corse, ma i risultati non arrivano. Manca qualcosa: forse la preparazione, forse l’assistenza tecnica. Forse è troppo tardi per lui: le grandi case, la Legnano, la Bianchi, non si accorgono di lui. A fine stagione sta per mollare tutto. Ma un amico, Gino Ghirardini, piccolo imprenditore mantovano, gli procura una bicicletta Maino e una maglia grigia. Gli dice di presentarsi a Milano alla partenza della Sanremo: la Maino gli ha procurato il materiale tramite Spaggiari, un loro rivenditore mantovano.
Learco è stupito: ma il 19 marzo è alla partenza della Classicissima di primavera. Si presenta a quelli della Maino, tra cui Antonio Negrini che si sta facendo massaggiare da Biagio Cavanna. Lo guardano storto: Guerra, timido e orgoglioso, gira al largo. Ma in corsa gira eccome. È l’unico tra quelli in maglia grigia ad arrivare al traguardo, anche se a 17 minuti e 35 secondi da Binda, che stravince. All’arrivo però non capisce perché nessuno della squadra gli rivolga una parola, una pacca sulla spalla, neanche uno sguardo. A stento riesce a trovare qualcuno che gli presti i soldi per tornare a casa in treno. In viaggio lo assalgono pensieri cupi. Una volta tornato a Mantova scopre la verità: non era vera la storia dell’invito della Maino. Era stato l’amico Ghirardini a comprare bici e maglia al rivenditore Spaggiari. Learco è mortificato.
Ma quella Milano-Sanremo “regalata” è la sua sliding door. Girardengo che non prendeva parte alla gara l’ha notato in corsa e convince il commendator Giovanni Maino a dare davvero una possibilità al muratore mantovano. Corre il Giro del Piemonte. Dopo aver dato l’anima per Negrini, che infatti vince per distacco su Binda, Learco è costretto al ritiro da due forature. Testardo, insiste. Giro di Romagna. Anche qui si batte alla morte per Giacobbe e Negrini, che arrivano alle spalle di Binda. Lui solo 17°. Alla Maino però hanno capito che ci si può fidare. E lo ingaggiano per il Giro d’Italia. Learco tocca il cielo con un dito: neppure un anno e mezzo prima la bici la usava solo per andare a lavorare. Al servizio Negrini e Giacobbe chiude 24° in classifica generale. Prima della fine della stagione vince la Coppa Appennino, a Vignola, e la Benevento-Napoli, 4a tappa del Giro di Campania; e poi, tra la sorpresa generale, i Campionati nazionali di mezzofondo su pista, a Carpi, battendo Binda e altri campioni come Piemontesi e Linari.
La stagione 1930 inizia con un 7° posto alla Milano-Sanremo. Ma è al Giro d’Italia, quello che si corre senza Alfredo Binda, pagato pur di lasciare il campo agli avversari, che Learco Guerra diventa finalmente protagonista. Dopo un anno di apprendistato tra i professionisti, grazie all’allenamento, a una migliore alimentazione e una maggior assistenza tecnica, Guerra inizia a esprimere tutte le sue potenzialità. È un formidabile passista, perfetto per le gare a cronometro. Sa battersi allo sprint ma ha anche notevole capacità di tenuta sulle lunghe distanze.
Ma soprattutto è un esplosione di temperamento. Così come Binda applica un metodo scientifico alla sua condotta di corsa, Guerra è al contrario un arrembante esplosione di vitalità. Per questo che i tifosi iniziano ad amarlo ancora prima che diventi un vero campione. E al Giro del 1930 Guerra parte all’arrembaggio. Vince due tappe (a Roma e a Forlì), arriva due volte secondo, una volta terzo e altre due volte quarto. Alla fine si piazza 9° in classifica generale, a 36 minuti e 10 secondi dal vincitore, Luigi Marchisio della Legnano.
Il giornalista della “Gazzetta” Valdo Cottarelli lo ribattezza “La Locomotiva Umana”.
La consacrazione a idolo dei tifosi avviene un mese dopo. Guerra è chiamato a far parte della squadra italiana che partecipa al Tour de France. Il patron Henri Desgrange, inventore e autorità assoluta della Grande Boucle, ha rivoluzionato la formula della corsa. Basta con le squadre-corsa delle marche di biciclette. Alla partenza cinque squadre nazionali, Francia, Belgio, Spagna, Italia e Germania, formate da otto componenti l’una; più una schiera di un ottantina di touristes-routiers, ovvero di corridori che correvano in autonomia, senza assistenza tecnica a supporto. La rappresentativa italiana è tutta votata al successo di Alfredo Binda: lo affiancano il vecchio Tano Belloni che ha già 38 anni, Domenico Piemontesi, Giuseppe Pancera, Leonida Frascarelli, Marco Giuntelli, Felice Gremo e, appunto, Learco Guerra, «il più taciturno, spesso appartato, quasi sempre imbarazzato»
Ma se al Tour tutti quanti attendono l’exploit internazionale di Binda, a stupire è proprio il campione mantovano. Vince la seconda tappa, la Caen-Dinan, e indossa la maglia gialla. Ha un vantaggio esiguo, 12 secondi, sul francese Charles Pellissier. L’uomo che tutti temono resta Binda. I francesi cercano di farlo fuori, non perdendo occasione per farlo innervosire. Nella volata di Bordeaux, Pellissier gli si aggrappa alla maglia e los supera di slancio sul traguardo. Pellissier viene penalizzato e retrocesso, ma il campione di Cittiglio vuole ritirarsi. Lo convincono a ripartire ma nella tappa seguente rompe un pedale e poi cade: accumula un ritardo di oltre un’ora. Binda è sempre più intenzionato ad abbandonare, ma c’è la maglia gialla di Guerra da difendere. Lo fa con successo nella Hendaye-Pau. Ma nel successivo tappone pirenaico, la Pau-Luchon, con Aubisque e Tourmalet da scalare, Guerra cede di schianto: Binda va a vincere per il secondo giorno consecutivo, ma la maglia gialla passa sulle spalle del francese André Leducq.
Nella Luchon-Perpignan, vittima dell’ennesimo incidente, si ritira infine anche Binda. Guerra, secondo in classifica, rimane solo, con Pancera e Giuntelli. Nonostante questo, e nonostante le provocazioni dei francesi, Guerra si batte come un leone. Si conquista anche la stima e la simpatia dei tifosi francesi, che lo chiamano Ghérà. Vince altre due tappe, a Cannes e a Grenoble, e a Parigi, sul traguardo finale, arriva secondo. Un secondo posto che vale 30.000 franchi di premi e la popolarità. Che vuol dire altri soldi. In Italia Guerra che corre il Tour de France suscita l’entusiasmo dei tifosi. In segno di gratitudine aprono cospicue sottoscrizioni a suo favore. A Mantova si raccolgono 13.358 lire. Un sarto si offre di tagliargli un abito su misura. Un barbiere gli assicura barba e capelli gratis per un anno. Attraverso le pagine della “Gazzetta” si arriva addirittura alla cifra di 111.761 lire. Per dare l’idea del valore, all’epoca un buono stipendio di un impiegato di banca era di 500 lire al mese. Albergatori di tutta Italia, da Montecatini e Ponte di Legno, lo invitano a soggiornare gratuitamente nelle loro strutture. Ma la stagione non è ancora finita. Il 30 agosto ai Campionati mondiali di Liegi 1930, Guerra è di nuovo al fianco di Binda nella lotta per la conquista del titolo iridato. Si corre in casa del campione belga Georges Ronsse, vincitore delle ultime due edizioni. Da alleati, Alfredo e Learco sono imbattibili. Nella fuga decisiva a quattro, vince il primo, lanciato in volata dal secondo: Ronsse è solo terzo.
Gli ultimi appuntamenti dell’anno sono le prove del Campionato italiano. La sera del 13 settembre parte la Predappio-Roma, 477 km, praticamente una Gran Fondo. La gara si decide a 60 km dal traguardo, quando Guerra parte in solitaria e stacca tutti. Arriva primo all’ippodromo di Villa Glori, portato in gloria dalla folla di tifosi. Si ripete il 5 ottobre, nell’ultima prova del Campionato tricolore: vince la Coppa Caivano, vicino a Napoli, e si aggiudica il titolo italiano, interrompendo la serie di quattro successi consecutivi di Binda. Da qui in poi tra i due sarà guerra, di nome e di fatto. A prendere le parti di Learco sono soprattutto i vecchi tifosi di Girardengo, che, ormai a fine carriera, è di fatto anche il mentore di Guerra alla Maino, come spiegano i commentatori più avveduti:
«Guerra è curato, consigliato, indirizzato da Girardengo al quale non par vero di buttare un tale ostacolo tra le ruote dell’aborrito rivale. Binda aveva vinto per quattro volte consecutive la maglia tricolore? Ebbene, al primo serio assalto di Guerra, egli dovrà cedergliela. Il dito di Dio! Sentenziano gli inconsolabili girardenghiani, d’incanto diventati guerriani per la pelle…».
E sono sempre loro a raccontarci che, soprattutto a Mantova, l’ex muratore di San Nicolò Po non conosce più la solitudine:
«Anche Virgilio, se potesse, verrebbe giù dal piedistallo e apparirebbe sotto i platani del Te con il suo bravo programma delle corse in mano».
Per le vie della città lo salutano affacciandosi alle finestre, le automobili rallentano, si fermano per strada. Se va a comprare il giornale, le edicole vengono prese d’assedio. Se entra in un bar a prendere un caffè, fuori fanno la fila per vederlo dalle vetrine. I bambini gli corrono dietro, le ragazze gli sorridono, le autorità se lo contendono.
Al Giro di Lombardia, gran chiusura di stagione, tra i due litiganti, secondo Binda e terzo Guerra, gode Mara, primo dopo la squalifica di Piemontesi per scorrettezze in volata. Mantova tutta gli prepara una gran festa. 15.000 spettatori assistono alla riunione su pista, dove sono invitati i più forti, da Binda a Charles Pellissier, in segno di pace dopo le scazzottature al Tour. La fa da padrone… il padrone di casa: a mani basse Guerra vince nella velocità, nell’inseguimento e a cronometro. Il giorno dopo, la domenica, a palazzo Aldegatti gran pranzo di gala. Ci sono tutti: da Giovanni Maino a Costante Girardengo, da Orio Vergani a Vittorio Varale, a Henri Desgranges. Emilio Colombo consegna a Learco il lauto incasso della sottoscrizione della “Gazzetta”.
Il 1931 la sfida continua. La Sanremo la vince Binda davanti a Guerra, non senza polemiche. Alfredo perde in casa nella Tre Valli Varesine, dove è primo Giacobbe, compagno di squadra di Learco. Guerra s’impone al Giro di Calabria. Alla vigilia del Giro del 1931 i duellanti si presentano così. Binda ha già praticamente vinto tutto: due Campionati del mondo, quattro Giri d’Italia, tre Giri di Lombardia, due Milano-Sanremo. Guerra ha un palmarès infinitamente più modesto: due tappe al Giro, tre al Tour e la maglia di campione italiano. Eppure quella che si preannuncia è una lotta tra titani.
E allora torniamo all’ingresso alla pista del Te, arrivo di quel 10 giugno 1931, prima tappa della XIX edizione del Giro. Riporta la cronaca del “Corriere della Sera”:
«Al primo giro, Binda supera i due grigi [Di Paco e Battesini] che gli stanno davanti, e si porta davanti in prima posizione. Guerra lo segue come un’ombra. All’entrata dell’ultima curva il mantovano supera il cittigliese e resiste vittoriosamente sul rettilineo al contrattacco del rivale». Learco Guerra vince e indossa la prima maglia rosa della storia del Giro d’Italia. Ma la battaglia è apertissima. Nella seconda tappa che arriva a Ravenna Guerra concede il bis. Ma nella terza paga dazio alle prime salite appenniniche e sul traguardo di Macerata accusa un distacco di 6 minuti da Binda, che arriva primo e balza in testa alla classifica.
Nella quarta tappa che giunge a Pescara il testa a testa è appassionante: allo sprint vince per un nulla Binda. All’arrivo a Roma, Binda cade a pochi chilometri dall’arrivo: si ferisce e viene scalzato in classifica generale da Mara. Il giorno dopo è costretto al ritiro.
Guerra allora si scatena: vince due tappe consecutive, a Perugia e poi a Montecatini, dove riconquista la maglia rosa. Ma nella successiva Montecatini-Genova, va in crisi sulla salita della Foce e cade in discesa, investito da altri corridori. Il freno di un’altra bicicletta lo ferisce alla schiena. Viene soccorso, si riprende ma a La Spezia, con la maglia rosa insanguinata, si ritira. A differenza della defezione di Binda, l’abbandono di Guerra suscita grande emozione tra i tifosi. Privato dalla malasorte dei duellanti tanto attesi, il Giro del 1931 viene vinto da Camusso.
Né Binda né Guerra partecipano al Tour de France. Entrambi puntano al Mondiale, in programma a Copenaghen, il 26 agosto.
La formula è inedita: una cronometro individuale di 172 km. Praticamente una maratona contro il tempo. Binda, il campione uscente, non è in forma e arriva solo sesto. Guerra stravince alla strepitosa media di 35,136 km/h e con 5’23’’ di vantaggio sul francese Le Drogo, un nome che forse oggi susciterebbe ben di più che un sospetto. Da Mantova seguono la corsa via radio. Alla trattoria Stella con campo di bocce, in Porta Pusterla, c’è anche il padre di Learco, Attilio. Corre a casa ad annunciare il trionfo e vorrebbe cambiare nome alla nipotina, nata solo da pochi giorni, il 13 agosto: «Cambiamo nome alla Carla! Chiamiamola Vittoria!». A Mantova la goliardia dei GUF inneggia in versi al trionfo del concittadino, prendendosi gioco dell’avversario:
«Lo disse Socrate
lo confermò Virgilio
che uno solo di Mantova
val cento di Cittiglio».
La strepitosa vittoria del Mondiale di Copenaghen sembra a molti un passaggio di consegne. Ma non è così. Due mesi dopo, Binda torna a vincere alla grande il Lombardia.
La rivalità si acuisce. Una rivalità, come scrive Bruno Roghi sulla “Gazzetta”, «sorda, caparbia, gelosa. Una rivalità senza parole e senza gesti, come se l’uno e l’altro fossero muniti di uno schioppo carico e si minacciassero continuamente la fucilata senza avere mai il coraggio di premere il grilletto».
1932 è l’anno del Decennale del fascismo. Ci si aspetta che al Giro si celebri la ricorrenza con un testa a testa tra i due grandi campioni. Ma, ironia della sorte, la corsa nazionale rischia di essere vinta da uno straniero. A lungo in maglia rosa è il tedesco Büse e lotta fino in fondo per la vittoria anche il belga Demuysere: per fortuna ci pensa il bergamasco Antonio Pesenti, il “mulo di Zogno”, a mettere d’accordo tutti. Guerra arriva 4°, anche se vince 6 tappe su 13. In una di queste la banda locale lo accoglie con le belligeranti note del coro «Guerra! Guerra!» della Norma di Bellini. Binda invece è solo 7°. Ma si prende la rivincita trionfando nel primo Campionato mondiale che si disputa in Italia, a Rocca di Papa. Guerra, attardato da una congestione, è 5°.
Il 1933 è di nuovo lotta all’ultimo sangue tra i due, che corrono l’uno con la maglia iridata di campione del mondo, l’altro con quella tricolore di campione d’Italia. Alla Sanremo Binda rompe una ruota a 20 km dal traguardo e Guerra ha via libera per la sua prima vittoria in Riviera. Al Giro, dopo la vittoria all’esordio, la sfortuna si accanisce contro Guerra, attardato in classifica già dalla seconda tappa. Si riprende, recupera in classifica, vince altre due tappe, prima di cadere di nuovo in volata a Roma, proprio per essersi toccato con Binda. È costretto al ritiro tra mille polemiche dei tifosi delle contrapposte fazioni. Binda conquista la maglia rosa a Foggia e la tiene fino all’arrivo di Milano: è il suo quinto Giro d’Italia. Ma è anche il suo canto del cigno. Guerra invece torna al Tour a dare spettacolo. È il leader della selezione italiana che però gli fa mancare il supporto decisivo. Da otto che erano rimangono in tre nelle tappe decisive tra Alpi e Pirenei. Nonostante questo, Guerra vince cinque tappe.
Vola a Charleville, città natale di Rimbaud, poeta «dalle suole di vento». Learco ha il vento nelle suole anche a Aix-Les-Bains e a Grenoble, quando nella discesa del Galibier rimonta un ritardo di oltre 10 minuti; poi ancora a Pau, nella massacrante tappa del Tourmalet. E infine nel gran finale sui Champs Elysées.
Guerra, come già tre anni prima, arriva secondo, dietro il francese Speicher. I baci della conturbante Joséphine Baker sono anche per lui.
Tra Binda e Guerra il duello non ha più storia nel 1934. Binda scompare dietro le quinte e Guerra trionfa. Dopo tante vittorie parziali, il Giro è un suo monologo: vince 10 tappe e finalmente è anche primo a Milano. Binda si ritira nella tappa di Napoli. Ai Mondiali di Lipsia una scorrettezza in volata del belga Kaers – non punita dai giudici – sottrae a Guerra il secondo titolo iridato. Learco si rifà vincendo il suo primo Giro di Lombardia e il suo quinto titolo di campione italiano. Nel 1935 la “Locomotiva umana” vince ancora cinque tappe al Giro ma anche il suo straordinario motore comincia a battere in testa. Mentre Binda si ritira dalle corse l’anno seguente, Guerra continua. Indossando la maglia che fu del rivale, quella della Legnano, nel 1937 vince la sua ultima tappa al Giro, la Roma-Napoli. Non poteva che andare così. Napoli, dopo Mantova, è da sempre la sua seconda patria: all’ombra del Vesuvio, accompagnato dal calore dei tifosi che da quelle parti lo idolatrano, ha ottenuto le vittorie entusiasmanti.
Lo ha scritto Mario Fossati, in questo bel ritratto parallelo dei due contrapposti campioni:
«Binda era un campionissimo che incantava i raffinati. Non era un freddo, un ingrato, un avaro come in fans di Girardengo sostenevano… Certo, con lo stile superiore delle sue imprese sapeva convincere i tecnici; certo, diceva una parola nuova; certo, mascherava lo sforzo con tanta eleganza da portare il primo pubblico femminile al ciclismo. Ma la corsa rimaneva sempre dentro di lui. Poi arrivò Guerra. Un volto aperto, i capelli nerissimi, la risata pronta, la generosità oltre ogni limite. Guerra osa perché non tramonta mai l’ora di osare. Osa per il bel gesto in sé. Binda scivola, arriva, espugna la trincea. Guerra la invade, a suo rischio, d’un balzo. Il pueblo è per Guerra».
Il secondo dopoguerra riserva al grande Learco una seconda carriera di successi da imprenditore – dà il suo nome a una fabbrica di biciclette – e da direttore sportivo. Con la Guerra-Ursus porta alla vittoria al Giro per la prima volta un campione straniero: lo svizzero Hugo Koblet nel 1950. Replicherà nel 1954 con l’outsider Carlo Clerici, altro svizzero di origini italiane. E poi ancora, con la Faema-Guerra, nel 1956 è l’artefice strategico della mitica vittoria di Gaul: nella giornata di tregenda sul Bondone, fa fermare Charly, gli fa fare un bagno in una tinozza calda, lo riveste con un cambio asciutto e lo rimette in sella. E l’Angelo della montagna conquisterà il suo primo Giro. L’accoppiata Gaul-Guerra farà il bis, tre anni dopo, nel 1959. Ma anche le Locomotive smettono di correre. Learco Guerra dà i primi segni di un improvviso cedimento – un tremore alla mano destra – quando ancora non ha sessant’anni. La diagnosi è una sentenza, per quegli anni: morbo di Parkinson. Learco Guerra si spegne a Milano il 7 febbraio 1963. Non c’è miglior finale di quanto ha scritto di lui Marco Pastonesi:
«Come un vulcano, uno tsunami, una bora. È un bisonte della strada. Come una moto, una macchina, un camion. Di più: la Locomotiva umana. Nell’immaginario popolare, se nel cognome sono rappresentati lo spirito del corridore, la strategia di corsa, la filosofia di gara, nel soprannome risuona il motore bicilindrico, si respira la polvere, si sente il vento. E Guerra indossa un paio di occhialoni alla Nuvolari, degni delle Mille Miglia».
Fonti
Renzo Dall’Ara, Locomotiva umana: Learco Guerra: l’avventura di un campione nella leggenda del ciclismo, Tre Lune Edizioni, 2002
Claudio Gregori, voce Ciclismo in Enciclopedia dello Sport Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2005.
Marco Pastonesi, Ritratto di Learco Guerra. Macchina da… Guerra, in Giro d’Italia. La grande storia. 1925-1935, La Gazzetta dello Sport, 2012
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Ne abbiamo realizzati in diversi formati, con soggetti molto creativi, studiati per essere attaccati alle biciclette senza impattarne l'estetica (perché sappiamo quanto sia importante per gli appassionati), ma anche per stare sui caschi o sulle borracce.
Ma non solo, perché il messaggio di Alvento è talmente trasversale che siamo contenti che venga portato dappertutto: sul laptop, sull'auto, sullo smartphone.
I nostri stickers sono portatori dei messaggi della community che si sta sviluppando attorno alla rivista, sempre più fedele e numerosa.
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