Eccola qui la tua Roubaix
Articolo e foto di Federico Guido
“Eccola qui la tua Roubaix”. Spesso, quando approccio una delle tante vie in pavé sparse per Milano, mi viene in mente questa frase che mio padre pronunciò, andando a memoria, quando avevo 13 anni. Quella volta, una soleggiata giornata di fine maggio, insieme decidemmo di prendere le bici per andare ad ammirare il colorato gruppo del Giro d’Italia che arrivava a Milano. Con la mia maglia ciclamino indosso e la mia Specialized rosso e argento percorsi al suo fianco gli ampi vialoni che da casa conducono in centro città finché non arrivammo in Corso Magenta, decumano della città noto per ospitare la sede del Cenacolo Vinciano e l’omonimo frequentatissimo bar.
Ai tempi, la via non era ancora stata oggetto dei tanti lavori di manutenzione che l’hanno portata ad avere l’aspetto attuale ma presentava un’omogenea copertura in masselli di pietra, quelli che ancora oggi a tratti si possono notare ai lati delle rotaie del tram. Nella fantasia di un tredicenne appassionato, percorrere quel duro mosaico marrone sulla propria esile bicicletta da corsa poteva davvero assumere i contorni di una volata sulla foresta di Arenberg, scenario che, puntualmente, mio padre con la sua esclamazione riuscì a farmi figurare davanti agli occhi. Le sue parole scatenarono immediatamente il mio spirito d’emulazione e, in breve, iniziai a pigiare forte sui pedali immaginando di essere il Tom Boonen o il Fabian Cancellara della situazione.
Quell’espressione ebbe fin da subito così tanta presa su di me che anche al ritorno, appena la mia ruota toccò i primi metri del Corso, cominciai a mulinare a tutta. Lì però la foga e l’inesperienza ebbero la meglio sulla lucidità e quasi all’altezza del Teatro Litta finii lungo per terra. In un istante, senza quasi il tempo di rendermene conto, persi il controllo della bici e saggiai quanto dure fossero le pietre di quella strada, ma per fortuna non mi feci granché. Più tardi, capii che anch’io, come altri prima di me, avevo avuto il battesimo del pavé milanese, forse il nemico più insidioso per i ciclisti meneghini nella triade completata da buche e rotaie.
Coi tre, negli anni, ho avuto modo di approfondire il rapporto, diventando più esperto e apprendendo le giuste nozioni per provare a neutralizzarli. Il processo, ovviamente, ha richiesto tempo e diverse centinaia di chilometri percorsi durante i quali, come sono cambiato io, è cambiata anche la città attorno a me. Anche il pavé in un certo senso, finito nelle mani di operai e a volte addirittura sostituito dall’asfalto, ha cambiato volto. La frase di mio padre invece, quella frase pronunciata in quella piacevole giornata di fine maggio, è rimasta dov’era, ancorata solidamente in un angolo della memoria e pronta a riaffiorare alla prima vibrazione prodotta dall’incedere della mia bici sulle pietre.
Ancora oggi mi capita spesso, specialmente laddove i sobbalzi in sella sono più violenti, di sentirla risuonare nei meandri della mia testa e di alzare l’andatura facendo di via Ausonio il mio Carrefour de l’Arbre, di via Mazzini il mio Mons-en-Pévèle e di Corso di Porta Romana il mio personale Camphin-en-Pévèle. Proprio come se fosse un incantesimo, al riecheggiare di quelle parole il contesto della Roubaix riesce per magia a prendere forma sotto i miei tubolari, stuzzicando la mia fantasia e facendomi immaginare come possa essere (e che tragitto possa avere) un eventuale Inferno del Nord “alla milanese”.
Anche se questo rimarrà un semplice sogno, nella realtà a ben vedere non mancano le assonanze e i punti in comune tra quello che ad aprile i corridori professionisti fronteggiano in Francia e ciò che i ciclisti milanesi, con le debite proporzioni, affrontano tutti i giorni lungo le strade della città. Senza fare uno sforzo eccessivo, si può riconoscere con facilità come entrambi abbiano a che fare con lastricati imperfetti, superfici insidiose, punti critici e, addirittura, la presenza o meno di (apprezzati) cordoli lato strada. Questi elementi contribuiscono tutti assieme, nel caso della Roubaix, a classificare i vari settori in base al loro grado di difficoltà, una pratica in cui, magari inconsciamente, anche qualcuno che ha solcato a lungo le vie in pavé di Milano si è cimentato.
Proprio con l’idea di stilare una classifica delle strade in lastricato più ostiche del capoluogo lombardo e avvicinare così la città che ha partorito il Giro d’Italia a quella sita nella regione dell’Hauts-de-France, nei mesi scorsi abbiamo provato a ripercorrere, a mo’ di ricognizione, tutti i tratti in masselli e sampietrini presenti all’interno di quello che, una volta, era il percorso delle mura spagnole di Milano.
La zona delimitata nasconde la stragrande maggioranza delle strade in pavé della città del Manzoni, un luogo dove i problemi creati dal lastricato oggi sono proporzionali tanto ai dibattiti suscitati tra i cittadini quanto al fascino conferito da esso a diversi angoli della metropoli. Il pavé, infatti, ha accompagnato l’evolversi di Milano nell’ultimo secolo diventandone sotto molti aspetti un elemento rappresentativo, un immobile serpente dalle squame di porfido che ha visto scorrere eventi e cambiamenti e che, se seguito nella sua interezza, sa ancora regalare una panoramica completa sulla varie anime di una città in costante movimento.
Al nostro passo (e con un occhio sempre rivolto alla strada), tra un’annotazione e l’altra, abbiamo provato ad apprezzarle tutte scoprendo o riscoprendo strade poco battute e, soprattutto, tratti più o meno sconnessi che, dopo aver valutato lo stato d’indolenzimento delle nostre braccia, ci hanno portato a stilare la graduatoria che potete leggere tra poco. Tale suddivisione, volendo restare assolutamente soggettiva, si presta ovviamente ad essere rigirata a piacimento e a divenire, si spera, spunto per possibili dialoghi e confronti costruttivi su un tema sempre attuale come quello delle condizioni delle strade milanesi.
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Via Torino-Carrobbio-Via Cesare Correnti (1000m): Settore tra i peggiori e più pericolosi della città. Alla difficoltà data dalla lunghezza si aggiungono quelle di un traffico piuttosto sostenuto e di un cordolo non praticabile. Obbligatorio, se si vuole stare in strada, percorrere la schiena d’asino al centro delle rotaie. Al Carrobbio, c’è la possibilità di tornare sulle corsie esterne ma per poco visto che, anche in via Correnti, si è costretti al centro dove il pavé procura qualche sobbalzo in più rispetto a quello di Via Torino.
Via Santa Margherita-Piazza Duomo-Via Mazzini-Corso Italia (1500m): Si parte con un pavé semplice e scorrevole passando da Piazza Duomo. Entrando in via Mazzini la musica cambia visto che si ripresentano due leggere schiene d’asino. Il cordolo affianco alle rotaie è per funamboli, la via più sicura è quella tra le rotaie dove ci si può risparmiare la difficoltà di dribblare spuntoni di pietre molto acuminati. Verso Piazza Missouri la strada si allarga e il pavé si ricompatta. In Corso Italia si ripresenta la situazione vista in via Mazzini ma il pavé è tenuto un filo meglio e consente (anche grazie alla leggera discesa fino a Piazza Sant’Eufemia) un’andatura spedita. Finale leggermente in salita e un pelo più scomodo quello che conduce allo “scollinamento” di via Santa Sofia. Da lì si prosegue in leggera discesa ma la sensazione di scomodità, anche a causa dei metri già percorsi, resta. Sempre nella corsia centrale, a zone irregolari, capita di fare qualche sobbalzo più importante degli altri. In corrispondenza di via Burgozzo una striscia laterale in asfalto consente di mettere fine a questo settore decisamente lungo.
Corso di Porta Romana (1400m): Tratto infinito. Dopo pochi metri da Piazza Missori, tolto l’impiccio delle rotaie, inizia un pavé che sostanzialmente è uguale per quasi l’intero settore e vede la presenza di lastre larghe, compatte ma per nulla levigate. A tutto ciò si aggiunge, nella parte iniziale, una leggera pendenza fino ad incrociare via Sforza, scollinata la quale lo spazio sulle corsie esterne consente di pedalare abbastanza tranquilli. A Crocetta si attraversano nuovamente le rotaie e da qui inizia l’ultima sezione, decisamente complicata. Finché si può stare sulle corsie esterne, la marcia, seppur con qualche sussulto, procede di buon passo. Con la comparsa dei parcheggi laterali (in corrispondenza della scuola Bertarelli-Ferraris) e il restringimento delle corsie esterne è obbligatorio passare al centro dove le cose sono terrificanti. A tratti si compiono dei veri e propri voli che ti spezzano le gambe. Negli ultimi (o nei primi, in senso inverso) 200-300 metri la carreggiata si allarga nuovamente e si può riprendere la corsia laterale.
Altri: Via Meravigli, Via San Giovanni sul Muro, Piazza Resistenza Partigiana-Corso Genova.
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Via dell’Orso-Via Monte di Pietà (600m): Settore a senso unico diviso in due dall’incrocio con via Verdi. Nel primo pezzo non c’è scampo: la vicinanza dei parcheggi obbliga a preferire la corsia centrale tra le rotaie dove il pavé è tutto sommato in discrete condizioni. Tutto cambia dopo via Verdi: la strada si allarga, le rotaie scompaiono ma il pavé diventa molto più sconnesso e i sobbalzi si susseguono con continuità. Il settore termina (per fortuna) all’incrocio con via Chiesa Rossa.
Via Manzoni-Via Santa Margherita (950m): Cardo del centro di Milano dove il pavé non lascia respiro. L’inizio è accettabile, poi verso l’Hotel Armani le condizioni peggiorano con sobbalzi continui e pietre piuttosto sconnesse. Si continua così fino a Via Romagnosi, nei pressi della Scala, dove gli evidenti lavori di manutenzione rivelano un pavé più compatto fino all’incrocio con Via San Protaso. Lungo e sfiancante. Le rotaie almeno non infastidiscono particolarmente.
Via Ausonio (350m): Settore non troppo lungo ma terribilmente sconnesso. Da leggere continuamente. Nelle prime decine di metri sei costretto a giocare con le rotaie inutilizzate: sulla destra lo spazio non manca ma la presenza dei parcheggi consiglia una via più sicura a centro strada. Qui le imbarcate non si contano e la mal disposizione delle pietre (molto evidente) ti obbliga a cambiare continuamente traiettoria per evitare il peggio. All’incrocio con via Carroccio le rotaie lasciano tregua per qualche decina di metri (tornano in fondo) ma la marcia resta complicata.
Altri: Porta Ticinese-Carrobbio, Via San Vittore, Via San Maurilio, Via Cappuccio-Via Luini, Via Broletto.
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Piazza Repubblica-Via Turati-Piazza Cavour (650m): Tratto con masselli larghi, molto compatto e ben tenuto dove i sobbalzi sono minimi e la scorrevolezza è eccellente. Tre stelle perché mediamente lungo e perché il passaggio nei pressi di Radio 105 comporta l’attraversamento delle rotaie.
Corso di Porta Vigentina (450m): Tratto a lastre larghe piuttosto irregolari, specie vicino alla circonvallazione interna. In quel pezzo si affrontano balzi piuttosto accentuati, per il resto il settore è abbastanza scorrevole e in leggera salita verso Crocetta (al contrario dal lato opposto). Per chi non vuole cimentarsi nello zig-zag tra le rotaie è preferibile imboccare e tenere in entrambi i sensi di marcia la corsia centrale.
Altri: Corso Magenta (fino ad angolo Via Carducci), Via Vico-Olivetani, Via Olivetani- Via San Vittore, Moneta-Ambrosiana-Sepolcro-Bollo, Via Santa Marta, Foro Bonaparte, Via Mercato-Via Ponte Vetero, Via Cusani, Via San Marco ang. Castelfidardo-Via Solferino, Via Battisti-Largo Augusto, Via Lamarmora, Via Armorari-Via Spadari.
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Corso Magenta (fino a via San Giovanni sul Muro), Cordusio-Via Orefici, Piazza S. Ambrogio (lato questura)-Via S. Valeria, Via Circo-Via San Sisto, Piazza San Marco-Corso Garibaldi, Via De Amicis-Corso Genova, Via Carroccio, Via Cesare da Sesto, Via Castelfidardo-Via San Marco, Via Olmetto, Via Cordusio, Via Bocchetto.
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Piazza S. Ambrogio (lato case), Via Dante, Via Sacchi, Via Brera, Via San Protaso, Via Porrone, Via San Marco-immissione angolo Via Castelfidardo, Via Chiossetto, Via Corridoni, Via della Palla, Piazza Sant’Alessandro, Via Lupetta, Via Zebedia, Via delle Asole, Via Cardinal Federico, Via Valpetrosa, Via Fosse Ardeatine, Via del Bollo e Via dell’Ambrosiana, Via della Posta, Giro Piazza della Borsa, Via Santa Maria Fulcorina.
Deda Elementi per idmatch
Deda Elementi e idmatch rafforzano la loro collaborazione.
L'occasione è stata la fiera internazionale Taipei Cycle Show, dove Deda Elementi e idmatch hanno segnato un nuovo step della loro collaborazione, svelando al pubblico una serie di componenti per bike fitting realizzati da Deda con speciali grafiche custom, appositamente sviluppati per la Smart Bike di idmatch e dedicati al simulatore automatizzato Smart Bike.
"Questa collaborazione rafforza ancora di più la presenza del nostro brand all'interno dei negozi di alta gamma che hanno scelto idmatch come partner per la valutazione biomeccanica del ciclista. Le diverse geometrie offerte nella nostra gamma rendono i componenti Deda ideali per il lavoro del bike fitter. Come azienda, infine, crediamo fortemente nella collaborazione tra marchi italiani del settore, un plus riconosciuto a livello mondiale", ha detto Fabio Guerini, responsabile marketing di Deda Elementi.
Idmatch infatti è l'unico sistema di bike fitting completo che, attraverso un'analisi scientifica dei dati, aiuta il ciclista a individuare la miglior configurazione e posizionamento in bici per migliorare la sensazione di comfort e benessere, oltre alla performance.
"Da molto tempo utilizziamo prodotti Deda nei nostri laboratori di bike fitting. L'ufficializzazione della collaborazione con un brand di riferimento per la componentistica non può che renderci orgogliosi e ci dà la consapevolezza di poter offrire ai nostri ciclisti informazioni di una ulteriore migliore qualità rispetto alla scelta dei corretti accessori per le loro bici" ha riferito Matteo Paganelli, idmatch di Brand Manager.
Prodotti Deda x idmatch
Manubrio Gravel 100, Manubrio Zero1,
Manubrio Zero100 Shallow,
Reggisella Zero1 Ø 31,6,
Manubrio MTB Peak Riser & Peak Flat,
Parabolica Uno, Parabolica Due,
Crononero Evo
Il questionario cicloproustiano di Marta Cavalli
Lo chiamano questionario proustiano, ma in realtà Marcel Proust non scrisse le domande: divennero famose le sue risposte poi trovate in un cassetto e pubblicate su una rivista letteraria. Quel manoscritto, come racconta Rivista Studio, è stato battuto all'asta qualche anno fa per centoduemila dollari. È diventato una sorta di "genere giornalistico" e noi lo chiameremo cicloproustiano, perché alcune domande verteranno più sul nostro sport preferito e inizieremo da Marta Cavalli, di mestiere corridore.
Il tratto principale del tuo carattere?
Umiltà
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Serietà
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Sincerità
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Lealtà
Il tuo peggior difetto?
Essere troppo testarda
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Cucinare
Cosa sogni per la tua felicità?
Di non lasciarsi ostacolare dalle difficoltà
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Che l'inverno durasse per sempre
Cosa vorresti essere?
La miglior versione di me stessa
In che paese/nazione vorresti vivere?
Austria
Il tuo colore preferito?
Blu
Il tuo animale preferito?
Aquila
Il tuo scrittore preferito?
Non ho uno scrittore preferito
Il tuo film preferito?
Avatar
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Sfera Ebbasta
Il tuo corridore preferito?
Mark Cavendish
Un eroe nella tua vita reale?
Il mio coach Flavien
Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma
Il tuo nome preferito?
Andrea
Cosa detesti?
Non vedere riconosciuti i meriti
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Erode
L’impresa storica che ammiri di più?
L'allunaggio di Neil Armstrong
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
La fuga solitaria in Yorkshire (Campionati del Mondo) di Annemiek van Vleuten
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d'Italia
Un dono che vorresti avere?
Teletrasporto
Come ti senti attualmente?
Ottimista
Lascia scritto il tuo motto della vita
Crederci sempre, arrendersi mai
DS Gaspa
La stagione del ciclismo su strada è ormai conclusa e per tutti sono stati mesi di gioie, di delusioni, di emozioni. Lo sono stati per i tifosi, per i corridori, ma anche per chi corridore non è più, e in questo 2022 ha conosciuto un nuovo esordio.
Per la nuova puntata di Parole Alvento siamo andati in Canton Ticino, a trovare Enrico Gasparotto, che ha appena portato a termine la sua prima stagione da direttore sportivo. Una lunga chiacchierata che parla di un Giro d’Italia vinto dall’ammiraglia ma anche e soprattutto delle relazioni umane che si instaurano in una squadra, e di come sia fondamentale coltivarle e tutelarle.
Intervista e voce: Filippo Cauz
Sound design: Brand&Soda
Silk Road Mountain Race
Con i suoi 1850 chilometri e 32.000 metri di dislivello, la Silk Road Mountain Race è verosimilmente la gara di adventure cycling più dura al mondo. E forse definirlo ciclismo è persino sbagliato, perché tra le brulle montagne del Kirghizistan capita che la bicicletta diventi persino un impiccio, un’ingombrante compagna di viaggio da spingere a piedi, su e giù per le pietraie, sperando di trovare presto il terreno per rimontare in sella. Un viaggio duro e selettivo ma non per questo meno spettacolare e affascinante, che lo si affronti in corsa o fuori. Federico Damiani e Claudio Ruatti si sono incontrati in Kirghizistan, uno reduce da una travagliata gara, l’altro in viaggio in bicicletta. Complice una bottiglia di prosecco, hanno condiviso con noi il loro racconto.
Voci: Claudio Ruatti, Federico Damiani
Sound design: Brand&Soda
Colombia es Pasion!
C’è chi ha lavorato nei campi, chi ha venduto biglietti della lotteria e chi si è svegliato all’alba per fare il giro dei mercati. C’è chi è cresciuto tra le bombe e con il rombo degli elicotteri militari e chi è stato costretto sin dall’infanzia a percorrere chilometri ogni giorno, su strade dissestate e pericolose.
La storia del ciclismo colombiano è una storia di fatica e di dolore, ma anche di coraggio e di tenacia. È la storia di una generazione di ciclisti che è riuscita a partire alla conquista del mondo dello sport, cambiando per sempre le vicende del proprio Paese. La raccontiamo insieme a Matt Rendell, autore dell’ultima uscita della collana Pagine Alvento, Colombia es pasión!
Voci: Filippo Cauz, Gino Cervi
Ospite: Matt Rendell
Sound design: Brand&Soda
Il fuciliere di Goodwood
È passata alla storia con un nome noto ad ogni appassionato, “la fucilata di Goodwood”. Ma dietro alla vittoria di Beppe Saronni al Campionato del Mondo del 1982 c’è una lunga storia fatta di sconfitte brucianti, di rivalità ricucite, di grandi maestri, di compagni pazienti, di piani riusciti. A 40 anni di distanza, e in occasione della settimana in cui si assegnano le nuove maglie iridate, torniamo a vivere quella corsa attraverso il racconto di Marco Pastonesi, intervallato dai ricordi in prima persona del protagonista iridato.
Testo e interpretazione: Marco Pastonesi
Ospite: Beppe Saronni
Intervista: Filippo Cauz
Sound design: Brand&Soda
TESTO INTEGRALE DELLA PUNTATA
La fucilata scatta a 300 metri dall’arrivo. Le prime quindici pedalate in piedi sulla bicicletta. La fucilata sibila a 200 metri dall’arrivo. Quattro pedalate seduto in punta di sella. La fucilata echeggia a 150 metri dall’arrivo. Nel vuoto degli avversari, nel pieno degli spettatori. La fucilata va a segno già a 50 metri dall’arrivo. Le mani in alto, le braccia al cielo, i capelli al vento, il sorriso alla storia. La fucilata di domenica 5 settembre 1982. La fucilata dei Mondiali di ciclismo professionisti su strada. La fucilata mondiale di Beppe Saronni. La fucilata di Goodwood.
Eppure la fucilata di Goodwood non è quella di un giorno e non dura solo un giorno. Comincia più di un anno prima e non finirà mai. Comincia il giorno dopo i Mondiali di Praga, domenica 30 agosto 1981, tutto in un solo giorno (donne, dilettanti, cronosquadre dilettanti, professionisti), quando la spedizione italiana torna in patria. Il volo sull’aeroporto della Malpensa. Alfredo Martini, il commissario tecnico degli azzurri, deve recuperare la sua macchina, alla Volkswagen di San Vittore Olona. Con Martini c’è (ci sarà sempre) Franco Vita, autista e molto altro: da meccanico a collaboratore, custode, confidente, testimone, in una sola parola amico. Con senso di rispetto e spirito di fedeltà, dal primo momento in cui si sono legati all’ultimo istante in cui si sarebbero lasciati. Ma prima di infilarsi in autostrada, per una vecchia sana abitudine, i giornali. Vita accosta, scende, acquista. La Gazzetta dello Sport, il Corriere dello Sport, Stadio, Tuttosport. I quattro – era un primato, quello italiano – quotidiani sportivi. Mentre Vita riprende il volante, Martini considera, subito, le prime pagine. E riconsidera la foto dell’arrivo, dello sprint, della volata. Primo Freddy Maertens, il belga, secondo Giuseppe Saronni, l’azzurro, terzo Bernard Hinault, il francese. Martini nota come Saronni tenga le mani alte sul manubrio, non basse. Alte da scalatore, non basse da velocista. Alte offrendo più resistenza all’aria, e al tempo, e alla storia, e non basse sfuggendo, sottraendosi, incorporandosi. “Una pugnalata alla schiena – sospira Franco Vita, ripensando alla muta e sofferta espressione di Martini – gli sarebbe stata meno dolorosa”.
Goodwood. Letteralmente: il legno buono, il bosco buono. Goodwood è una località, la residenza di campagna per i duchi di Richmond. Qui, nel 1802, un ippodromo. Qui, dal 1901, un campo da golf. Qui, durante la Seconda guerra mondiale, un aeroporto. E qui, nel 1948, intorno all’aeroporto, un circuito automobilistico e motociclistico. Qui, a un centinaio di chilometri e un paio d’ore in macchina da Londra, la sede dei Mondiali di ciclismo del 1982. Dalla loro istituzione, a Copenaghen in Danimarca nel 1921, solo una volta i Mondiali di ciclismo sono stati ospitati nel Regno Unito: a Leicester, nel 1970 (e a Leicester, anche in questo 1982, si disputa la rassegna iridata su pista). Così questa è la seconda volta, in una sessantina d’anni, che il Regno Unito ospita i Mondiali.
Il circuito ciclistico di Goodwood è lungo una quindicina di chilometri, in parte ricavato nel circuito automobilistico e motociclistico, e ha l’altimetria di un’onda, con una salitella prima e dopo l’arrivo. In 3 chilometri si sale da quota 41 a quota 161 metri. Nei primi millecinquecento metri la pendenza è dolce: una media del 3 percento, con punte che non sfiorano neanche il 4 percento. Nella seconda metà, altri millecinquecento metri, la pendenza si fa più dura: una media del 6 percento, con punte che non superano il 7 percento. E qui, dopo una curva a destra e un’altra a sinistra, il traguardo. Poi si rimane in quota, con un falsopiano, finché la strada scende. Quella salitella è la chiave del percorso. Lo sa Martini, lo sanno tutti. Gli esperti definiscono quella salitella come “pedalabile”, termine indefinito, generico, vago. Una salitella da fare con il rapportone, quello da pianura. Solo così si può fare la differenza. Interpretando la salitella come se fosse un vialone piatto. Ingannandosi. Perché, sia chiaro, questo non è un muro, non è uno strappo, non è neppure uno zampellotto. E’ solo una salitella. E’ materia da velocisti, da passisti veloci, da scattisti, da finisseur. E’ materia per esplosivi e resistenti, resistenti nell’esplosività, esplosivi nella resistenza. E’ materia da Saronni. Gli inglesi prevedono un “uphill sprint”: letteralmente, una volata su per la collina. Comunque – data la distanza: 18 giri di un circuito lungo una quindicina di km, totale più di 275 km – questa corsa sarà sempre materia da fondisti.
La squadra italiana è ufficializzata dopo la Coppa Placci. I nostri avversari la chiamano “la Squadra”. Sul suo diario, Martini ha già scritto la storia. Così.
1 Gavazzi Pierino Atala
2 Amadori Marino Famcucine
3 Argentin Moreno Sammontana
4 Baronchelli G. Battista Bianchi-P.
5 Bombini Emanuele (R) Hoonved-B.
6 Ceruti Roberto Del Tongo
7 Chinetti Alfredo Inoxpran
8 Contini Silvano Bianchi-P.
9 Leali Bruno Inoxpran
10 Masciarelli Palmiro Famcucine
11 Moser Francesco Famcucine
12 Petito Giuseppe (R) Alfalum
13 Saronni Giuseppe Del Tongo
14 Torelli Claudio Famcucine
E poi il personale: meccanici, massaggiatori, medico e, per la prima vota, il responsabile del settore alimentare. Si chiama Sergio Chiesa e anche lui sarà prezioso per creare armonia, equilibrio, eleganza, rispetto. Dalla tavola alla bici, dal riposo all’agonismo, dalla cucina al ciclismo, non è poi così grande la distanza.
La Squadra è costruita su Moser e Saronni con Gavazzi possibile terza punta. Da campione italiano merita rispetto. Moser è il più antico dei corridori moderni, o forse il più moderno dei corridori antichi, e sarà anche, fra qualche anno, pur sempre da corridore contadino, il primo corridore scientifico e tecnologico. Ha, nelle sue caratteristiche, un vantaggio che è anche uno svantaggio: per vincere, deve arrivare da solo. Gli riesce a crono, ovviamente, ma anche in linea. E le vittorie per distacco, in solitudine, sono quelle più gloriose. E’ in forma, ma non in formissima. Ed è al suo nono Mondiale: vanta una vittoria (nel 1977 a San Cristobal, in Venezuela) e due secondi posti (a Ostuni nel 1976 e al Nurburgring nel 1978). E’ un gigante, un monumento, un campione. Lo chiamano “lo Sceriffo”: detta legge.
Saronni, lo scrive Mario Fossati (“Il Giorno” del 4 giugno 1979), “è una sintesi del corridore ciclista. Possiede uno scatto da velocista e un corredo tecnico da pistaiolo. Si inciglia quando occorre nelle ruote del plotone e sempre quando occorre se la fila con un’esplosione di americanista”. E ancora: “L’intelligenza di Saronni non è unicamente funzionale. Saronni non è cresciuto in fretta. E’ semplicemente milanese ed essere milanese o milanese dell’hinterland è una soda esperienza”. Aggiunge: “Fuori dalla corsa il suo cervello fila”. E chiosa: “Come Moser, Saronni pensa a voce alta”. Ragazzo-prodigio, sfrontato il giusto, non accetta sudditanze. Professionista a 19 anni, sembra già appartenere al futuro: l’origine metropolitana, la simbiosi (e l’osmosi) fra pista e strada, la guida di uomini geniali come Ernesto Colnago artista-industriale della bicicletta e collaudati come Carlo Chiappano laureato all’università della strada prima da corridore poi da direttore sportivo. Beppe è già al suo sesto Mondiale: il primo, quello vinto da Moser, lo ha corso da “stagista”, e ha chiuso nono, poi quarto, ottavo, ritirato e secondo. Una vocazione per i piani alti.
Il circuito di Goodwood si adatta più a Saronni che a Moser. Martini lo sa. E lo sa anche Moser. Ma Martini – come avrebbe confidato in una puntata di “Sfide” per Rai3: “Non erano due che andavano a prendere il caffè insieme” – fa grande opera di diplomazia. Tre gregari a Franz: Amadori, Masciarelli e Torelli. Uno solo a Beppe: Ceruti. Alla ricerca dell’equilibrio fra Moser e Saronni, Martini ha previsto anche un meccanico per Francesco e uno per Beppe, un massaggiatore per Francesco e uno per Beppe. Le due riserve, Bombini e Petito, vengono ufficializzate il 30 agosto. Martini è un maestro anche di buon senso: sono giovani, non vanno caricati di responsabilità e bruciati per inesperienza, avranno altre occasioni con la maglia azzurra. Un po’ di delusione, ovvio. Ma proteste, zero.
Moser e Saronni costituiscono l’ultimo grande dualismo del ciclismo. Girardengo e Binda, Binda e Guerra, Bartali e Coppi. Ma anche Anquetil e Poulidor, Gimondi e Merckx, Merckx e Ocana. Più diversi di così, Moser e Saronni, difficile immaginarli. Trentino, Moser, e lombardo (anche se nato in Piemonte, a Novara), Saronni. Obbligato a una corsa dispendiosa e generosa, Moser, e costretto a una corsa calibrata e astuta, Saronni. Più forte e resistente, Moser, più veloce ed esplosivo, Saronni. Più vecchio, Moser, sei anni (1951 contro 1957) valgono quasi una generazione. E a questo punto 31 anni, Moser, e neppure 25 Saronni. Differenze nate subito. Di una civiltà contadina, meleti e vigneti, Moser, e di una industriale, calzaturifici, Saronni. Comunque appartenenti a due famiglie innamorate del ciclismo. Una rivalità vera, quella fra Moser e Saronni: autentica, genuina, istintiva, rusticana. Una rivalità che contrappone il tifo, separa gli spettatori, divide perfino giornalisti e fotografi.
Sul suo diario Martini precisa il “Programma”.
Partenza per l’Inghilterra
Partenza da Milano giorno 31 ore 9.35 volo AZ 458 dalla Malpensa arrivo a Londra
Partenza pullman per Goodwood
Giovedì 2 settembre
Preparazione con alcuni giri del circuito
Decidere per i rapporti
Venerdì 3 settembre
Preparazione con alcuni giri del circuito
Domenica 5 settembre
Goodwood – campionato del mondo
Hotel: Avisford Park Hotel Ltd
Walberton Arundel, West Sussex
Tel. Yapton 551215 STD Code 0243
Prima di partire per l’Inghilterra, Saronni ascolta un richiamo del cuore. E va a trovare Carlo Chiappano. E’ il suo direttore sportivo, anzi, era il suo direttore sportivo. Morto in un incidente stradale, il 7 luglio 1982, dalle parti di Casei Gerola. Sarebbe passato da Colnago, a Cambiago, poi sarebbe andato da Saronni, nel Varesotto, invece quel tragico incontro con il destino. Saronni: “Un colpo terribile. Il mio maestro, anche un amico di famiglia. Un giorno, senza dire niente a nessuno, vado alla sua tomba. E lì, davanti a lui, sento di poter vincere il Mondiale, sento di vincerlo, per me, per lui, per noi”. Di questa visita si saprà solo molto tempo dopo.
Nell’Avisford Park Hotel, Saronni è in camera con Ceruti, Moser con Masciarelli. Due gregari – Ceruti e Masciarelli – per custodire segreti, alleggerire tensioni, individuare strategie. Venerdì sera, a 36 ore dal pronti-via, nel segreto della loro camera, Moser e Masciarelli si confrontano. Se aiutiamo Saronni, lo sanno e se lo dicono, lui vince e noi perdiamo lo sponsor. Famcucine contro Del Tongo: guerra, duello, derby, sfida concorrenziale nell’ambito delle cucine componibili. Ma se non lo aiutiamo, lo sanno e se lo dicono, lui non vince e noi facciamo una figuraccia. Tutti quanti: Moser e Masciarelli, e tutti gli azzurri, Martini e i suoi collaboratori, il ciclismo italiano, altro che le notti mondiali del calcio. Masciarelli ricorda ancora quando alla porta della camera bussa Di Rocco. Non è momento da grandi giri di parole. Di Rocco, che per Martini e l’Italia si prodiga anche lui in un’opera diplomatica, domanda quali intenzioni abbiano. I due gli rispondono, all’unisono: se noi aiutiamo Saronni, lui vince, e se Saronni vince, noi perdiamo lo sponsor. Di Rocco li rassicura, qualcosa si farà, lui ha buone conoscenze, come Giovanni Giunco, mecenate del basket a Roseto degli Abruzzi, a Giulianova dirige la Gis Gelati, chissà, indagherà, chiederà, proverà. Forse per patriottismo, o forse tranquillizzato dalla mediazione di Di Rocco, Moser decide di aiutare Saronni. E Masciarelli, uomo-squadra, farà da collegamento, da interprete, da trait d’union. Perché i due, quei due, Moser e Saronni, continuano a ignorarsi, a evitarsi, a non parlarsi. Al momento opportuno, Masciarelli prende da parte Saronni e gli dice: se vuoi vincere il Mondiale, devi rischiare di perderlo. Gli ricorda, come se ce ne fosse bisogno, quello che è successo a Praga, e lo ammonisce: non correre dietro a tutti, non sprecare una pedalata. Gli impone la strategia: non ti muovere fino agli ultimi due giri, poi vedrai che la squadra ti aiuterà in tutto e per tutto. E Saronni si convince. Sapere di non avere Moser contro è un vantaggio, sapere di averlo con è un doppio vantaggio.
Gli avversari, e a indicarli non è soltanto Martini, si chiamano Bernard Hinault, francese, Greg LeMond, statunitense, e Sean Kelly, irlandese. Poi gli irlandesi. Fa meno paura il campione uscente, Freddy Martens, belga. Maertens è stato il nostro castigatore: mondiale nel 1976, su Moser, e mondiale nel 1981, su Saronni. Maertens si aggrega alla squadra dei belgi a Mondiali in corso, un paio di giorni prima della prova iridata, si dichiara in forma, ma non lo è, i compagni lo accettano, ma non lo accolgono.
La mattina del Mondiale, a colazione, anche lo chef-gastronomo-cuoco-albergatore Chiesa avverte la pressione e concede qualcosa alla tradizione invocata da Martini: prepara riso in bianco, filetto di vitello, spinaci con olio extravergine e parmigiano-reggiano grattugiato, caffè. Tuti già concentrati sulla volata perfetta. Un progetto, un obiettivo, un dogma. Tutti gli azzurri sanno che è indispensabile la volata perfetta.
Intanto Martini ha radiografato il circuito e organizzato la corsa. Tre i box: uno all’arrivo, gli altri due lungo il percorso, ma solo all’arrivo i corridori possono prendere borracce. Tre i box, dunque, tre gli uomini a presidiare quei punti fissi come sentinelle e come spie. Siccome non esistono telefonini né auricolari, Martini s’inventa un nazionalpopolare telefono senza fili: altri tre uomini (lungo il percorso per studiare le facce, captare gli sguardi, riferire impressioni in un collegamento con i “walkie-talkie”, le radio ricetrasmittenti. E non è tutto: ogni volta che s’imbocca il circuito automobilistico, Marino Vigna accosta l’ammiraglia, Martini ne scende, osserva personalmente gli azzurri e il gruppo, sente l’atmosfera, annusa l’aria, forse interroga – com’è sua abitudine – il tempo, scarpina per due-trecento metri, quindi si fa riprendere da Vigna al nuovo passaggio. Non è solo con la corsa, Martini, ma nella corsa, dentro la corsa. La vive, la respira e – a suo modo – la corre. A proposito: la delegazione italiana ha già anche ottenuto una piccola ma significativa e pratica vittoria: le auto al seguito della corsa tengono la destra, come in Europa, e non la sinistra, come nel Regno Unito.
Ed eccoci. Domenica 5 settembre. Cielo inglese. Tempo variabile. Sole, pioggia, nuvole, vento, caldo, umido, fresco. Ventimila, forse trentamila spettatori lungo il percorso. Camper, roulotte, auto. La zona della partenza. I corridori. Centoquarantuno iscritti, centotrentasei partenti, per venti nazioni. Saronni si è spillato il dorsale 96. Lo “starter” è Jimmy Kain, ha 98 anni, li porta con leggerezza, ed è stato un pioniere del ciclismo in Inghilterra. Ore 10. Pronti. Via. Il primo giro è di studio. Al secondo giro va in fuga, da solo, Bernard Vallet. Ventotto anni, francese, guadagna tempo e spazio, centinaia di metri e manciate di minuti, saranno al massimo 6’15” al sesto giro, quando Hinault accosta, si ferma, scende dalla bici, sale su un’altra bici e rientra in gruppo. Chissà se, forse scosso proprio da questa sostituzione, il gruppo alza la velocità e si avvicina al fuggitivo.
Gli azzurri controllano la corsa. C’è sempre qualcuno in testa al gruppo e c’è sempre qualcuno vicino a Moser e a Saronni. Moser e Saronni, finché possono, devono salvare la gamba, risparmiare le energie, conservare le forze. La corsa è economia, e anche ragioneria, non solo agonismo. La corsa inanella giri, trattiene emozioni, misura sentimenti. La cronaca è minima. E l’attesa s’ingigantisce. Lungo il percorso ci sono anche i nostri dilettanti e le nostre donne diventati spettatori.
All’ottavo giro si ferma Freddy Maertens. Vuoto, si è spento. Il re è nudo. Intanto, davanti, ci prova Tommy Prim. Ventisette anni, svedese, abita nel Bergamasco, corre per la Bianchi, è arrivato quarto al Giro d’Italia del 1980, secondo a quelli del 1981 e del 1982. Dietro, si ferma Hinault, ma stavolta quando scende dalla bici, non risale, si ferma e abbandona, abbandona e spiega che non è giornata. E’ l’undicesimo dei 18 giri. Martini tira un sospiro di sollievo: un pericolo in meno. Intanto, davanti, Vallet è stato al vento per 140 chilometri, e adesso il vento lo divide con Prim, un minuto sul gruppo. Hinault, il vento, un vento gelido e pesante, ce l’avrà invece dentro, senza sapere neanche il perché, certe giornate sono storte e basta. Vallet si esaurisce e al dodicesimo giro Prim, rimasto da solo, viene catturato e si ritira. Al quattordicesimo giro allunga Serge Demierre, svizzero di Ginevra. A quattro giri e una sessantina di chilometri dall’arrivo, la corsa entra nel vivo. I gregarioni italiani presidiano la testa del gruppo. Si ferma il primo degli azzurri: Leali. Ci sta. Ha dato. A tre giri e più o meno 44 chilometri dall’arrivo, in discesa allunga Moser: il primo dei favoriti a muoversi. “Lo Sceriffo” fa la prima selezione. L’andatura regolare ha mascherato la stanchezza e prolungato l’autonomia. Ma adesso la corsa esplode, il gruppo si allunga, si ricompone, finché si spezza, si frattura, si frantuma. Chi c’è, c’è. Fra chi non c’è, l’olandese Gerrie Knetemann, che proprio a Moser ha scippato il Mondiale del 1978 disputato in Germania lungo un altro circuito automobilistico e motociclistico, il Nurburgring, ma non ci sono neanche Argentin e Contini. Gli altri azzurri resistono. Ceruti è sempre l’ombra di Saronni, scivolato in coda al plotone. I due vengono affiancati dall’ammiraglia. Martini non si rivolge mai direttamente a Saronni, forse per non disturbarlo, forse per non deconcentrarlo, ma passa sempre attraverso Ceruti. Come sta?, gli domanda Martini. Bene, lo rassicura Ceruti. Perché siete in coda?, insiste Martini. E senza aspettare la mia risposta, aggiunge: manca poco. Ceruti e Saronni rimontano.
A due giri e una trentina di chilometri dall’arrivo, il gioco si fa duro. I francesi sono stati ghigliottinati del loro capitano Hinault, i belgi orfani di Maertens sembrano divisi dalle rivalità campanilistiche, gli olandesi appaiono come i più convinti e organizzati, si temono avversari incomodi e scomodi come gli spagnoli e gli statunitensi. Tentano la sorte gli arancioni d’Olanda Theo De Rooy, Hennie Kuiper e il più temuto di tutti, Jan Raas. Se gli olandesi attaccano, gli italiani difendono. Un catenaccio ciclistico. Davanti, Chinetti si prodiga. La vita del gregario può assomigliare alla vita del mediano. Un lavoro di spola e di servizio, oscuro e sporco. Nelle parole di Gian Paolo Ormezzano: “Il ciclismo è la fatica più sporca addosso alla gente più pulita”.
A un giro e una quindicina di chilometri dall’arrivo, un uomo solo al comando, ma di poco e per poco, lo spagnolo Marino Lejarreta, basco, soprannominato “il giunco di Bérriz”. Ma il gruppo tiene Lejarreta, come si dice, a bagnomaria: lo vede, lo controlla, lo lascia cuocere. Stavolta gli azzurri sono fratelli d’Italia. Masciarelli ha promesso che negli ultimi due giri la Nazionale sarebbe stata intorno, accanto, unita per Saronni. Così è. E così sarà.
Saronni ha resistito alla promessa di non sprecare energie, ma adesso non resiste alla tentazione di provarsi. E sulla salitella salta sui pedali e si specchia. Uno-due, uno-due, uno-due. La gamba c’è. In quelle tre pedalate sente il motore rombare, la bici schizzare, gli avversari trasecolare. Si ferma. Basta così. C’è.
L’ultimo giro è ancora attesa. Più snervante, più spasmodica. A 2 chilometri dall’arrivo Saronni è, più o meno, da solo. Fino a questo punto Moser e compagni lo hanno tenuto al coperto. Ma adesso, concluso il lavoro, all’andatura che sale, al ritmo che si impenna, agli scatti che si moltiplicano, gli azzurri si sfilano.
Ai piedi della salitella scatta ancora Lejarreta. Irriducibile e orgoglioso come un basco. Guadagna qualche metro. Chinetti, per istinto, ormai per abitudine, si alza sui pedali. Ma ha le gambe dure e si fa da parte. Adesso il gruppo, davanti, è frazionato. Per scattare è troppo presto. Saronni decide di continuare con il suo passo. E con il suo passo, riprende e salta chi lo precede. L’ultimo, da solo, davanti, è l’americano Boyer. E’ scattato a ottocento metri dall’arrivo, forse meno. Ha ancora una cinquantina di metri di vantaggio. Ma la sua azione si appesantisce, la sua bici oscilla, e lui s’ingobbisce. Dietro c’è l’olandese Johan Van der Velde, poi anche LeMond. E’ a questo punto che la corsa di Saronni non è più di attesa. E’ qui che comincia la sua volata perfetta.
La fucilata scatta a 300 metri dall’arrivo. Le prime quindici pedalate in piedi sulla bicicletta. La fucilata sibila a 200 metri dall’arrivo. Quattro pedalate seduto in punta di sella. La fucilata echeggia a 150 metri dall’arrivo. Nel vuoto degli avversari, nel pieno degli spettatori. La fucilata va a segno già a 50 metri dall’arrivo. Le mani in alto, le braccia al cielo, i capelli al vento, il sorriso alla storia. La fucilata di Goodwood.
Adriano De Zan, in diretta tv (Rai), emula quello che Nando Martellini ha fatto per gli azzurri per la terza volta mondiali nel calcio, ma personalizzandolo: “Saronni campione del mondo! Saronni campione del mondo! Saronni campione del mondo!”.
Primo, Saronni: 6h, 42’22”, a 41,022 km/h. Secondo, a 5”, LeMond. Terzo, a 7”, Kelly. Con lo stesso distacco seguono l’olandese Zoetemelk, Lejarreta, il belga Pollentier, lo spagnolo Fernandez, il tedesco Thaler. Nono è Gavazzi. Decimo Boyer. Moser è ventiseiesimo a 23”. Masciarelli e Ceruti arrivano insieme, trentaseiesimo e trentasettesimo a 1’39”. Argentin è quarantasettesino a 6’. L’ultimo è l’australiano Shane Sutton, a 20’22”. Cinquantacinque arrivati su centotrentasei partiti.
A chi andrebbero i diritti d’autore dell’espressione “la fucilata di Goodwood”? A Fulvio Astori. E’ lui, sul “Corriere della Sera”, il primo a consegnare la fucilata alla storia: “Alla destra dei due, come una fucilata, scatta Saronni con un rapportone irresistibile. Sembra un sasso lanciato da una fionda”. Martini, nel suo libro “Un secolo di ciclismo”, è definitivo: “Uno sprint come quello che fece Saronni, sulla rampa di Goodwood, non l’ho mai visto fare da nessuno”. E ancora: “Quella progressione negli ultimi 200 metri fu sorprendente, credo che sia uno dei gesti atletici più belli nella storia del ciclismo”.
E Saronni? Saronni ha il dono della leggerezza. Per sdrammatizzare, racconta come, dopo il traguardo, esca dolorosamente dallo stato di grazia per colpa di un terribile mal di piedi. Si è stretto i piedi nelle scarpe e le scarpe e nelle gabbiette dei pedali per cercare la massima aderenza e non disperdere energie. Ma stretti così tanto, da non far quasi circolare più il sangue. Così slaccia i cinghietti, estrae le scarpe dalle gabbiette, mette i piedi a terra. Intanto viene circondato dal servizio d’ordine, quello dei ‘policemen’, i poliziotti inglesi. Sei o sette energumeni, grandi e grossi. Lui piccolo, e ancora contratto nello sforzo, rannicchiato nella volata. Loro alti due metri. Lo proteggono, lo custodiscono, gli fanno ombra. Se Saronni alza lo sguardo, vede un pezzo di cielo. Se guarda in basso, vede le loro scarpe, sono scarponi neri, lunghi come pinne, numero – minimo – 50. Insieme camminano verso il traguardo, il podio, il palco. La gente si accalca, si addensa, spinge. I poliziotti si stringono e stringono Saronni. Finché uno di loro, involontariamente, con quel suo scarpone nero e quel suo peso da rugbista gli pesta il piede, quello destro, proprio quello che più gli duole. Saronni urla. La gente forse pensa che sia un urlo di felicità o di liberazione. E’ invece un urlo di dolore. Istintivamente, Saronni si toglie tutte e due le scarpe e rimane con i calzini bianchi. E sul podio iridato sarà immortalato così.
People from BAM! 2022
È stata l’estate del boom per il bikepacking. Ciclisti di tutti i livelli hanno scelto di andare in vacanza in bicicletta. Chi super tecnico, con obiettivi ambiziosi e sfide impegnative, chi per provare l’ebbrezza una volta nella vita di sentirsi libero, con due borse attaccate ad un telaio e il minimo indispensabile. A tre mesi dall’edizione del 2022 del BAM!, il festival di riferimento in Europa per i cicloviaggiatori, vi raccontiamo questo evento con le voci in presa diretta, in modo che lo possiate mettere in agenda fin d’ora per l’edizione 2023.
Intervista: Claudio Ruatti e Davide Marta
Ospiti: Augusto Baldoni, Andrea Benesso, Michele Boschetti, Piergiorgio Catalano, Federico Damiani, Jacopo Lahbi, Giulio Mancini, Mattia De Marchi e tanti, tanti altri.
Sound design: Brand&Soda
FLANDRIEN CHALLENGE, F.A.Q.
È una sfida ciclistica in cui il mondo digitale e quello fisico si scontrano. Bisogna percorrere 59 segmenti Strava, molto ben indicati anche sulla superficie stradale, delle più famose salite e strade in pavé delle Fiandre, in massimo 72 ore. Proprio Strava, una volta iscritti al challenge, certifica il completamento dei segmenti nel lasso di tempo previsto.
Ogni ciclista che riuscirà nell'impresa entrerà a far parte della leggenda. Il suo nome sarà inciso su un cobble e guadagnerà un posto nel Wall of Fame del Centre Ronde Van Vlaanderen di Oudenaarde: il museo dedicato agli Dei del ciclismo.
Il regolamento è molto semplice: basta connettere il proprio account di Strava al sito della Flandrien Challenge e mostrare il telefono al museo una volta completati tutti e 59 i segmenti.
Attenzione però! Il museo chiude alle 18 e, per avere il proprio cobble, è necessario arrivare non più tardi delle 17!
Sul sito vengono proposti tre percorsi per chi ha tre giorni pieni, oppure 4 percorsi più corti da dividere in pomeriggio, due giornate intere e mattina seguente, per un totale comunque di 72 ore (perfetto per chi vola in aereo e ha più tempo a disposizione). Non preoccupatevi se avete accompagnatori al seguito: in mezzora di treno si arriva a Gand e in un’ora e mezza a Brugge o Bruxelles. Meglio di così!
CHE BICI USARE?
Si sta in sella tante ore sobbalzando parecchio, quindi vi consigliamo prima di tutto comodità: copertoni minimo del 28, ma anche del 30 o 32 non guastano. Esagerate pure con la cassetta pignoni: 11-34 e non ve ne pentirete affatto.
Cambio meccanico o elettronico? Se potete, assolutamente elettronico! Nei tratti in pavé è molto comodo avere la possibilità di poter cambiare semplicemente sfiorando la leva: si trema così tanto che viene difficilissimo riuscire ad impugnare bene il manubrio e fare la giusta pressione sulla leva come accade con il cambio meccanico.
ATTENZIONE ALLE DISCESE
Sui muri si va pianissimo in salita… e velocissimo in discesa. Attenzione però! Siamo in campagna e le strade sono frequentate da trattori: è un attimo trovarsene uno dietro una curva mentre si sta scendendo a tutta. Nessun rischio inutile please: i segmenti sono solo in salita, ricordatelo!
Info: cyclinginflanders.cc
FLANDRIEN CHALLENGE
SFIDA TOTALE
Ovvero completare i 59 muri iconici delle Fiandre in meno di 72 ore. Siete pronti?
FOTO Paolo Penni Martelli
TESTO Stefano Francescutti
STARRING Davide Caccia, Matteo Serone
È tardi, tardissimo. Non bastavano la fatica, i muri, il pavé e gli oltre 400 chilometri in sella, ora ci si mettono anche le lancette dell’orologio che sembrano andare il doppio. Questi belgi hanno degli orari folli per noi mediterranei: come è possibile che un bar e un museo chiudano alle 18? Dobbiamo correre, se arriviamo anche solo un minuto più tardi non riusciremo a recuperare il nostro premio. Siamo venuti fin qua per questo, abbiamo guidato per oltre 1.200 chilometri, ci siamo letteralmente demoliti in bici su e giù per le Fiandre e ora rischiamo di tornare a casa a mani vuote? Non esiste.
Giù un dente, anzi due e via a menare. Raramente ricordo di aver fatto così fatica ed essere così provato e lo sguardo dei miei compagni conferma esattamente questa mia sensazione. Mal comune mezzo gaudio, si dice. La stanchezza fa brutti scherzi, tanto che inizio anche a chiedermi se davvero verremo ripagati a dovere, se realmente entrare a far parte di una stretta cerchi di ciclisti ci farà dimenticare tutti i dolori che stiamo provando. Vesciche, mani indolenzite, irritazioni varie: ne varrà davvero la pena?
È tardi, tardissimo, giù un altro dente. Cambi regolari, siamo una squadra ora. Non c’è tempo da perdere.
Sarò passato almeno un anno da quando ho letto per la prima volta del Flandrien Challenge e mi era sembrato da subito una figata, ma ho deciso di custodire questo segreto senza svelarlo a nessuno, nemmeno in redazione. Ogni tanto andavo sul sito, me lo studiavo per bene e quando ho sentito che il momento era propizio, sono passato alla carica.
«I tizi di Cycling in Flanders hanno mappato 59 muri iconici, quelli dove passano il Giro delle Fiandre, la Gent-Wevelgem, la Omloop e le altre gare della settimana fiamminga. Hai 72 ore di tempo per percorrerli tutti: se ce la fai, ti premiano e, come dicono loro, potrai definirti a true flandrien. Ho già pensato al team, Nerone (il nostro furgone, nda) è pronto: facciamo la classica macchinata e andiamo. Che ne dici?»
Sapevo che non ci sarebbe stata altra risposta che il classico affare fatto! tanto caro al nostro editore.
Metti insieme tre amici, dagli le chiavi di un furgone e un viaggio da dodici ore, ed è subito gita del liceo. Non importa quanti capelli bianchi tu abbia, in un attimo l’età mentale si attesta tra i 14 e i 18 anni, quando non c’erano responsabilità e la tua unica preoccupazione era avere in tasca cinquemila lire per la benzina dello scooter. E così via di cazzate, risate fino alle lacrime, sacchetti di patatine sparsi in ogni dove con briciole incastrate dappertutto, rumori osceni provenienti da ogni parte del corpo e un tormentone da pronunciare in ogni circostanza, che non ci abbandonerà mai più: eh amigo, i campioni sono così!
Il discorso è abbastanza semplice: bisogna pedalare su 59 settori in 72 ore complessive, ovvero in tre giorni. Il giudice che certifica il challenge è Strava, ogni muro è tracciato come segmento e anche segnalato con la vernice sull'asfalto, all’inizio e alla fine, una cosa che gasa in modo esagerato. Puoi farli in qualunque ordine e seguendo qualunque filo logico, se non vuoi impazzire ci sono già tre percorsi creati ad hoc scaricabili tranquillamente dal sito. Ti viene consigliata anche la sequenza, ma ognuno è libero di cambiarla: invertendo l’ordine degli addendi il risultato non cambia. Facciamo la nostra scelta davanti a un paio di pinte di Stella Artois ed è già ora di andare a dormire. Domani si inizia.
Dormire ad Oudenaarde è praticamente un must. Trentamila abitanti, arrivo del Giro delle Fiandre, luogo da dove partono e arrivano due dei tre percorsi ma soprattutto sede del Centrum Ronde van Vlaanderen: il luogo culto per ogni ciclista. C’è il museo, il Peloton cafè dove sono d’obbligo il caffè prima della partenza e la birra a fine pedalata, un negozio di gadget da cui è impossibile uscire a mani vuote, attrezzi vari per la manutenzione della bici e anche le docce, in caso ci si voglia dare una rinfrescata.
Primo giorno, si parte col botto: 190 chilometri per 2.400 metri di dislivello, la tappa più dura delle tre. Siamo fin troppo carichi e l’euforia ci fa prendere questa decisione che potrebbe sembrare folle, ma si rivelerà poi perfetta. Salutiamo la campagna fiamminga con i primi colpi di pedale, non sappiamo a cosa stiamo andando incontro e i silenzi tra di noi indicano una certa tensione che non abbiamo ben chiaro in cosa sfocerà, ma ci mettiamo poco a capirlo. Sono bastati i primi due muri per rendere tutto molto limpido: è un challenge, è una sfida con sé stessi, ma in un attimo si è trasformata in una sfida tra noi tre. Qui non c’è un pettorale da indossare, è vero, ma ogni volta che sul terreno si oltrepassa la scritta START e si inizia il segmento, le vene si chiudono e parte la bagarre. Se arrivare secondo non è una possibilità presa in considerazione, arrivare ultimo è quanto di più avvilente. Amici, amici… Amici un cazzo! è proprio il caso di dire: iniziamo a prenderci letteralmente a sberle su ogni muro, senza tregua. Senza dirlo apertamente, il tragitto tra un segmento e l’altro lo dichiariamo zona neutrale, approfittandone per riprendere fiato e scambiare qualche battuta per stemperare l’atmosfera competitiva. Stolti che non siamo altro, combattiamo tra di noi senza nemmeno immaginare quale sarà il vero nemico.
Se si gioca è giusto stabilire delle regole e creare una classifica. In questo caso è molto semplice, si scatta tutti insieme all’inizio di ogni segmento e il primo che arriva è il vincitore. Non ci sono secondi né terzi: uno vince, due perdono. È alla prima pausa di giornata che sigliamo ufficialmente questo patto e, onestamente, se ne avessimo parlato prima di partire non ci avremmo mai creduto.
Il più agguerrito è, come sempre, il Serone: competitivo sin dalla culla, con la fortuna di avere un gran motore. Se riesco a giocarmela con lui è solo perché sono molto più allenato, altrimenti non ci sarebbe storia. È uno di quelli che non ti lascia nemmeno la classica volata al cassonetto, non so se mi spiego. Fisico perfetto per questi terreni, soffre però maledettamente la carenza di cibo: più di una volta l’ho visto in crisi di fame e ho costruito il mio piano proprio su questa sua debolezza, devo sfinirlo e non dargli possibilità di nutrirsi. È così che riesco a inanellare una serie di vittorie inaspettate: quando sento che inizia a lamentarsi per la fame gli assicuro, mentendo, che da lì a poco ci fermeremo… Invece accelero e basta. Una giocata da vero fuoriclasse, d’altra parte amigo, i campioni sono così.
Quando la pendenza va in doppia cifra è invece il momento di Caccino, un peso piuma con alle spalle otto anni di vita a Tenerife e le salite al Teide come palestra. Agile e scattante, quasi imprendibile sui muri in asfalto, fa invece una fatica immane sul pavé. Sembra che non riesca a trasferire la forza, rimbalza senza quasi comandare la bici. Sono inoltre sicuro che pagherà le lunghe distanze: lo devo lasciar sfogare, fargli fare il suo gioco, io recupererò nella seconda parte di giornata dove il mio motore diesel come sempre darà il suo meglio. Quella che poteva sembrare una vacanza tra adolescenti si è trasformata in una battaglia a colpi d’orgoglio.
«Il pavé ti cuoce. Su un terreno normale la tappa di oggi sarebbe stata sicuramente dura, faticosa, stremante. Ma col pavé tutto è esasperato. Sono cotto, davvero cotto». Guardo il Serone e annuisco, mentre Caccino riesce a mala pena a proferire due parole. A fine giornata siamo letteralmente svuotati e non siamo nemmeno a metà della nostra sfida. Ci conosciamo da una vita e questo è il bello: si sotterra l’ascia di guerra, almeno per qualche ora, ed è finalmente il momento di dedicarsi al reintegro di tutte le sostanze perse. Sui muri ce la caviamo decentemente ma al bancone, senza falsa modestia, siamo davvero dei fuoriclasse. Eh amigo, i campioni sono così.
La seconda giornata è quella col trasferimento. Carichiamo le bici su Nerone e ci spostiamo ad Ypres, ad un’oretta di viaggio da Oudenaarde e raggiungibile molto comodamente anche in treno, da dove parte un loop da 75 chilometri per circa 1.000 metri di dislivello. Solo nove muri da affrontare nella zona più occidentale delle Fiandre, praticamente al confine con la Francia. Non ce lo diciamo apertamente ma siamo devastati da ieri. Facciamo fatica a stringere il manubrio a causa delle mani indolenzite a furia di pavé e anche il sedere non se la passa meglio: sappiamo bene che dobbiamo risparmiarci un po’ se vogliamo arrivare alla fine. Vinco un muro, poi è il turno del Serone e poi di Caccino. La scena si ripete ancora una volta e, di proposito ma senza esplicitarlo chiaramente, ancora una. Nove muri totali, tre a testa: un pareggio che va bene a tutti. Ci fossero stati i giornalisti avrebbero gridato allo scandalo. Consapevoli di questa sorta di gemellaggio decidiamo di festeggiare offrendo ognuno un giro di birra agli altri sfidanti. Un gesto di sportività talmente bello che anche Penni decide di mettere da parte la macchina fotografica per aggregarsi. Che ve lo dico a fare: eh amigo, i campioni sono così.
Oudenaarde mi è sempre piaciuta: né troppo piccola né troppo grande, sulle rive della Schelda, da dove parte una pista ciclabile bellissima che ti porta in trenta chilometri fino a quel gioiello di Gand. Se ne parla stanchissimi passeggiando per la piazza centrale prima di ritirarci nelle nostre stanze. L’appuntamento è per domattina, l’ultimo giorno, quello che decreterà il vincitore.
«Nulla è ancora deciso, mancano venticinque muri che potrebbero confermare o ribaltare completamente la situazione.» Per un attimo mi trasformo in Alessandro Broghese, con la differenza che, invece di quattro ristoranti, abbiamo 142 chilometri per 2.200 metri di dislivello davanti a noi. Non è la più lunga, ma è la tappa regina: Kwaremont, Koppenberg, Paterberg... Ci siamo capiti insomma. Oggi siamo gli attori di quel film di cui andiamo pazzi e anche se l’abbiamo visto decine di volte, quando capita, non riusciamo a skipparlo. Il percorso è un groviglio incredibile di strade, impossibile da tracciare autonomamente, tostissimo: un su e giù senza tregua dove, per darvi l’idea, il punto più lontano da Oudenaarde è a soli dieci chilometri di distanza. Provo ad utilizzare le mie solite tattiche ma dopo una decina di muri inizio ad essere veramente cotto. Non voglio far trasparire nulla, scruto il Serone e Caccino che sembrano non passarsela meglio. Ciò nonostante, continuiamo a sfidarci, dando fondo alle forze residue. So di essere in leggero vantaggio e so anche che da un momento all’altro potrei saltare. Arranco, perdo un paio di muri, ma sono sicuro che questo sforzo a loro sta costando parecchio. Beviamo un sorso, mangiamo l’ennesima banana, facciamo pipì in fila dietro a un albero proprio come in terza superiore. Mancano solo una decina di muri, ci giochiamo tutto in un paio d’orette.
«Cazzo è tardissimo! Se non arriviamo al Centrum Ronde van Vlaanderen entro le cinque e mezza è come se non avessimo fatto nulla. Tutto ‘sto sforzo per niente!».
Panico, imprecazioni, sconforto. Che si fa? Un minuto di silenzio, ma sono bastati uno sguardo e una risata per metterci d’accordo e farci sentire davvero stupidi. «Tre giorni a sfidarci, mentre erano i muri a sfidare tutti noi».
Giù un dente, anzi due e via a menare. È tardi, tardissimo, giù un altro dente. Cambi regolari, siamo una squadra ora. Non c’è tempo da perdere.
Ce l’abbiamo fatta. Ne è valsa la pena. Ecco i nostri nomi scolpiti all’interno del Centrum Ronde van Vlaanderen. E pare che siamo anche i primi italiani.
Eh amigo, i campioni sono così.
Servizio pubblicato su Alvento 22 di agosto 2022