Chris Froome e i leoni da tastiera
Nei giorni scorsi Chris Froome ha pubblicato sul suo canale YouTube un video per raccontare l'esperienza all'ultimo Tour e tra le varie cose ha voluto prendere posizione sui sempre più numerosi e violenti attacchi che gli atleti subiscono da parte del pubblico dei social network.
Abbiamo deciso di riproporre i punti salienti del suo discorso, che condividiamo nel suo senso e nelle sue finalità.
«Dopo la fine del Tour de France mi sono preso qualche giorno di pausa perché avevo davvero bisogno di staccare. Dopo l’incidente del primo giorno è stato molto pesante per me portare a termine la corsa; ci siamo scontrati a più di 60 km/h: c’erano corridori e biciclette sparse ovunque, io ho sbattuto violentemente la parte alta della coscia contro qualcosa, credo fosse la bici di un altro corridore e il dolore era talmente forte da non riuscire nemmeno ad alzarmi in piedi e permettere ai soccorritori di aiutarmi a tornare in sella. Nonostante questo, sentivo che per me era fondamentale terminare il Tour de France, anche se pieno di lividi e con il dolore alle ossa che mi sono portato fino a Parigi; dopo tutto quello che mi era successo avevo bisogno di mettere quei chilometri nelle gambe e sono orgoglioso di esserci riuscito.
L’aspetto che mi ha colpito di più di questo Tour de France è stato il sostegno del pubblico: mai, neppure negli anni in cui ho portato la maglia gialla fino a Parigi o lottavo per riuscirci, la gente mi aveva sostenuto in questo modo. Nonostante fossi per la maggior parte del tempo in fondo al gruppo, le persone non smettevano di incitarmi, di spronarmi e di farmi sentire la loro vicinanza e il loro affetto. Avere il loro incoraggiamento mi ha aiutato a non mollare e per questo mi sento di ringraziarli di cuore.
Proprio questo sostegno da parte delle persone in un momento molto difficile per me mi ha fatto riflettere su un tema di cui hanno parlato alcuni atleti durante le Olimpiadi e che penso sia di fondamentale importanza, ovvero l’impatto che le eccessive critiche hanno sulla serenità psicologica ed in definitiva sulla salute mentale degli atleti.
A livello generale pare ci sia l’aspettativa, da parte del pubblico, di trovarsi di fronte non a delle persone normali, seppur eccellenti nel loro sport, ma a dei veri e propri extraterrestri in grado di reggere qualsiasi tipo di pressione e di attacco. Io credo che questo sia profondamente sbagliato perché non tutti gli atleti riescono a gestire questo tipo di stress.
Ci sono sempre più atleti che soffrono a causa di quello che gli utenti dei social network scrivono su di loro; i social media consentono a chiunque di sedersi dietro a uno schermo e insultare un atleta, con un linguaggio che le persone non si permetterebbero mai di avere se incontrassero lo stesso atleta, la stessa persona, per strada o al supermercato.
Io sono convinto che essere un atleta significhi lavorare duro per dimostrare le proprie capacità sportive nelle corse e negli eventi, ma non è incluso anche il fatto di avere questo carico ulteriore di energia per sopportare questo tipo di pressioni e di critiche, spesso eccessive e gratuite.
Quello che vorrei dire alle persone è di pensarci due volte prima di scaricare il loro odio e insultare o criticare ferocemente un atleta. Siamo tutti qua fuori per dare il meglio di noi, per ottenere i risultati migliori possibili quando rappresentiamo il nostro Paese o il nostro team. Provate a mettervi al nostro posto e magari abbiate un po’ più di pazienza quando non risultiamo all’altezza delle vostre aspettative, perché i primi a dispiacersi e a soffrire se i risultati non arrivano siamo proprio noi atleti».
Foto: Bettini
Il ciclismo femminile e il bisogno di cambiamento
Ogni anno The Cyclists' Alliance (TCA) conduce un articolato sondaggio per fotografare lo status quo del ciclismo femminile.
Obiettivo dell’indagine è quello di mettere in evidenza le principali criticità su cui intervenire per arrivare finalmente ad una situazione paritaria, sotto molteplici punti di vista, fra uomini e donne nel ciclismo professionistico.
Da pochi giorni sono stati presentati i risultati del sondaggio condotto per il 2021, che riteniamo importante condividere con i nostri lettori.
Sono 97 le cicliste professioniste che hanno partecipato, con la seguente suddivisione per disciplina: 68% strada, 13% pista, 7% ciclocross, 7% mtb cross country, 4% mtb marathon e 2% eRacing. Delle cicliste su strada il 27% è costituito da atlete che fanno parte di team World Tour, mentre il 73% gareggiano in team Continental.
Queste le criticità più rilevanti, emerse dal sondaggio.
SALARI
L’86% delle intervistate pensa che i salari siano troppo bassi rispetto all’impegno richiesto per la pratica di uno sport come il ciclismo a livello professionistico.
Il numero di cicliste professioniste senza salario è aumentato dal 17% nel 2018 al 34% nel 2021.
A causa della mancanza di un salario minimo stabilito per le atlete delle squadre Continental continua ad aumentare il divario salariale fra atlete delle squadre WT e atlete delle squadre Continental.
L’ottenimento di un salario minimo garantito anche per le atlete delle squadre Continental è uno degli aspetti indicati come determinanti per le atlete, seguito dalla richiesta di una maggiore copertura da parte delle TV per le gare femminili.
ASPETTI CONTRATTUALI
Anche in ambito contrattuale è presente una marcata disparità di trattamento fra atlete WT e atlete Continental con tutta una serie di minori tutele per le atlete Continental. Per citare un esempio l’assistenza medica è prevista da contratto per il 94% delle atlete WT, mentre solo il 33% delle atlete delle squadre Continental può usufruire dei medesimi servizi.
SECONDO LAVORO E STUDIO
Molte atlete portano avanti la loro carriera di cicliste professioniste mentre svolgono un secondo lavoro per far fronte alle necessità finanziarie e/o si dedicano ad un percorso di studi per assicurarsi la possibilità di un lavoro al termine della loro carriera da atlete.
Delle atlete intervistate il 38% si dedica allo studio mentre porta avanti la sua carriera; il 39% svolge un secondo lavoro, il 14% combina studio e un secondo lavoro con la propria carriera sportiva.
Fra le atlete che hanno un secondo lavoro il 24% lavora meno di 20 ore alla settimana, mentre il 15% lavora più di 20 ore settimanali. Il 67% delle atlete che lavorano più di 20 ore la settimana lo fanno perché non ricevono un salario dal proprio team, mentre il 14% riceve un salario inferiore ai 5.000 euro all’anno. Occorre sottolineare che le atlete, che lavorano più di 20 ore settimanali, sono quelle con un più elevato titolo di studio (il 67% ha conseguito un master o un dottorato, il 20% ha una laurea), che consente loro di trovare occupazioni che permettono una maggiore autonomia e quindi sono più facilmente gestibili insieme agli impegni per gare e allenamenti.
IMPATTO DEL COVID19 SULLA STAGIONE 2021
Rispetto alla stagione 2020, l’impatto del Covid19 sulla stagione in corso è stato tendenzialmente inferiore, ma continua ad evidenziarsi un maggiore effetto negativo sulle atlete delle squadre Continental, rispetto a quelle WT.
Nel 2020 il 29% delle atlete era andata incontro ad una contrazione salariale o lo aveva perso del tutto, mentre nel 2021 solo il 5% delle atlete WT ha sperimentato una riduzione di salario e l’1% delle atlete di squadre Continental si è ritrovata senza salario a causa delle problematiche legate al Covid19.
Nel 2021 il 20% delle atlete di squadre Continental hanno dovuto sostenere autonomamente il costo dei test Covid19 necessari per i viaggi per partecipare alle gare, mentre per il 94% delle atlete WT afferma che le spese per i test Covid19 sono a carico del team e parte del contratto che le lega alla squadra.
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La seconda e terza parte dell’indagine condotta da TCA, relative a temi legali, etici e culturali all’interno del gruppo, verranno presentate nelle prossime settimane e saranno oggetto di un successivo nostro approfondimento.
L'altra faccia della vittoria
Tour de France 2010.
Tappa 16: Bagnères-de-Luchon/Pau.
Durante la salita al Col du Tourmalet Mark Cavendish scivola fuori dal gruppetto, mentre il suo compagno di squadra, Bernhard Eisel, tenta inutilmente di spingerlo a resistere.
Cavendish sta male, ha la febbre, sa che superato il Tourmalet lo attende il Col d’Aubisque e, dopo, 60 km di pianura in direzione di Pau; una tappa gestibile solo in gruppo, impossibile da affrontare in due rimanendo nel tempo limite. In un tentativo disperato di alleggerirsi getta via tutto ciò che lo appesantisce: occhiali da sole, cibo, addirittura le borracce. Eisel non lo molla, è noto in gruppo per il suo incrollabile ottimismo, è determinato ad assolvere al suo compito: scortare Cavendish fino al traguardo.
Mancano 18 km alla cima del Tourmalet e stanno perdendo 10 secondi al km dal gruppetto; Cavendish però è convinto di poter ricucire durante la discesa. Ed effettivamente, passato il Tourmalet, finiscono a tre minuti dal gruppo, ma riescono a rientrare a metà discesa. «Sapevo che eravamo al limite» ricorderà Mark in seguito.
Il gruppetto supera anche il Col d’Aubisque, ma Cavendish è in difficoltà, cerca di mantenere l’equilibrio, mentre sente la bicicletta oscillare sotto di sé, e all’improvviso, come nella migliore sceneggiatura di thriller, fora. «Dove diavolo è finita la mia radio?» impreca, poi ricorda di averla passata a Tony (Martin, suo compagno di squadra) per eliminare più peso possibile.
Mancano 10 km al traguardo di Pau e Cavendish si ritrova solo e senza radio, i suoi compagni di squadra - Bernie, Tony e Bert (Grabsch) – sono in testa al gruppetto, stanno tirando a tutta per rimanere nel tempo limite. Cavendish alza la mano, ma nessuna ammiraglia sopraggiunge: Allan Peiper, suo direttore sportivo, si è fermato per un bisogno impellente – Mark lo scoprirà solo dopo – e nessuno sembra potergli dare una mano. Arriva infine l’ultima auto e quelli dell’Astana gli cambiano la gomma.
In Place de Verdun a Pau, il francese Pierrick Fédrigo vince la volata dei fuggitivi, che comprende anche Lance Armstrong, e si porta a casa la terza vittoria nella corsa di casa; dietro di lui, con un ritardo di circa sette minuti, sopraggiungono Alberto Contador e Andy Schleck, poi un’altra larga parte di corridori, che rimangono entro i 23 minuti di distacco. E infine, 11 minuti dopo, con un ritardo di 34 minuti e 48 secondi da Fédrigo, arriva il gruppetto: 83 corridori, fra cui Mark Cavendish.
Quella sera Bernie, suo compagno di camera, preoccupato per il protrarsi della doccia di Mark entrerà in bagno, trovandolo addormentato sotto l’acqua scrosciante.
Tre giorni dopo, con di mezzo un nuovo passaggio dal Col du Tourmalet, Cavendish, ancora influenzato, sul traguardo di Bordeaux porterà a casa la quattordicesima vittoria di tappa al Tour de France.
Questa storia abbiamo voluto raccontarvela, proprio oggi, perché spiega, secondo noi, molto bene perché Mark Cavendish ieri ha vinto la sua trentunesima tappa alla Grande Boucle.
Chris Froome e l'effetto piuma di Dumbo
Si avvicina l’inizio del Tour de France ed è difficile pensare al Tour senza pensare anche a Chris Froome. Nella storia di tutta la Grande Boucle nessun ciclista si è portato a casa il quarto titolo senza poi vincere anche il quinto: sono le statistiche a parlare, ma le statistiche valgono per i grandi numeri e non per il caso singolo.
I numeri, si sa, regalano una lettura della realtà perfettamente razionale e a volerli mettere tutti in fila, nel caso di Chris Froome, trasmettono l’immagine di un corridore nella parabola discendente della sua carriera: il terribile incidente di giugno 2019 al Critérium du Dauphiné, i 36 anni compiuti il 20 maggio, i modesti risultati di questa stagione (47esimo allo UAE Tour di febbraio e in questi giorni al Critérium du Dauphiné, 81esimo alla Volta a Catalunya, 93esimo al Tour of The Alps e addirittura 96esimo in classica generale al Tour de Romandie) e la generazione dei giovanissimi talenti con cui dovrà confrontarsi al Tour.
Ma se una vittoria al Tour a 36 anni (e 130 giorni, come riporta procyclingstats), nella storia, è riuscita solo al tedesco Firmin Lambot - stiamo parlando però del 1922 - c’è qualcosa che i crudi numeri non possono spiegare ed è qualcosa che ha a che fare con l’effetto piuma di Dumbo, ovvero la possibilità in determinati momenti e circostanze della nostra vita di poter accedere a delle riserve nascoste, che nessuno intorno a noi immaginava potessimo avere. Noi pensiamo che la storia della vita e della carriera di Froome sia proprio una storia che racconta di quelle riserve nascoste, a cui il campione inglese è riuscito ad attingere, fin da quando era solo un ragazzo.
Nella sua autobiografia, The Climb, Froome ci racconta un episodio rivelatore in tal senso. Chris, all’epoca sedicenne, si sta allenando con quello che è stato il suo primo mentore, David Kinjah, nei pressi di Ngong fuori Nairobi. Kinjah in Kenya è una vera e propria leggenda, il corridore più vincente nella storia del Paese, si è guadagnato il soprannome di Leone Nero correndo per un anno in Italia nel team Index Alexia Alluminio, lo stesso del due volte vincitore del Giro d’Italia, Paolo Savoldelli.
Quel giorno, sulle colline di Ngong, quel ragazzo di 16 anni sogna di poter battere il suo mentore e lo racconta così: «Siamo corridori. Lo sto inseguendo. Lui è la mia preda. Sta ridacchiando come una iena perché sa che non lo prenderò mai. Ha migliaia di chilometri di strade e colline stipati lì dentro, in quelle gambe, tutti compressi in muscoli tirati. Si prende gioco di me, mi lascia intravvedere la sua ruota posteriore: ora la vedi kijana (ragazzo), ora no. Non posso vincere, ma lui mi consente di avvicinarmi al punto da farmi sperare di riuscirci.
Dopo, quando avremo finito, ci riposeremo e rideremo insieme; arriverà mia madre, che ci segue con la sua auto a un paio di ore di distanza, e ci porterà del cibo per rifocillarci.
A quel punto, lo conosco, mi dirà “Carica la bici sull’auto di tua madre kijana e torna indietro con lei. La lunga salita per arrivare a casa non fa per te”.
Mi conosce abbastanza bene da sapere che non lo farei mai. Continueremo con la nostra gara fino a casa».
Ecco noi pensiamo che l’effetto piuma di Dumbo per Chris Froome stia tutto lì.