Infiniti

Rocamadour conosce da tempo l'infinito, qualcosa che ricorda Leopardi. Per quelle case affacciate su uno sperone di granito, a picco verso la gola del fiume Alzou. Poco fa, però, l''infinito di Rocamadour è stato qualcosa di diverso.
Quello di Filippo Ganna che "sedendo e mirando interminati spazi e sovrumani silenzi" ha corso a più di cinquanta all'ora. Il paesaggio non è di un ciclista, forse solo della sua visiera che lo riflette, come un'impressione, una pennellata. Di un ciclista è, invece, il rispetto di chi guarda e aspetta, per questo Ganna, appena conclusa la prova, ha detto che gli sarebbe spiaciuto non vincere, "perché in tanti credono in Ganna, sperano in lui". Ma per loro non è cambiato nulla e Ganna resta lo stesso anche se non ha vinto.
È “il cor che per poco non si spaura" di Jonas Vingegaard che è partito così veloce da rischiare di vincere non solo il Tour de France ma anche qui, vicino al Castello di Rocamadour. Perché Pogačar è un fuoriclasse e può succedere di tutto, anche se è difficile, anche se è quasi impossibile. Il tempo, però, non si misura solo con gli orologi, si esprime in desideri, volontà, per questo è la parte più irrazionale dei numeri.
La paura in una curva, vicino alle rocce, a pochi centimetri e poi gli ultimi metri, un respiro profondo e un pianto libero, un naufragare dolce in un mare che è altrove. In un abbraccio con la famiglia.
L'infinito è soprattutto di Wout van Aert. Sono infinite le sue gambe, i suoi muscoli, la potenza sprigionata, sono infinite le sue possibilità: in salita, in pianura, a cronometro. Da solo per scelta o da solo per obbligo, ma anche nel caos, nella confusione di una volata. Poi nei "sovrumani silenzi" di una galleria in cui non vediamo nulla ma immaginiamo tutto e anche di più.
"Quell'infinito silenzio a questa voce" va comparando van Aert mentre si affaccia alle transenne, appena sa di aver vinto la cronometro, e si fa vedere dal vincitore del Tour, dal suo compagno, da Vingegaard. Gli va incontro. La sua voce e quella del danese che ora è un grido, poche parole e di nuovo silenzio. Poco dopo si commuoverà anche lui, da solo, strofinandosi gli occhi e camminando più veloce per andare via. Due volti della vittoria, che è diversa ma è anche la stessa. Costruita col tempo e la pazienza, guardata da lontano e poi vissuta da dentro.
Rocamadour conosce l'infinito mentre qualcuno guarda gli sconfitti e ne riconosce l'umanità, li applaude. Accade anche con Pogačar. Perché sono giovani, perché c'è tutto il tempo per quel che oggi è mancato. Dalle porte di quelle case, ciò che sembra infinito, talvolta, è semplicemente futuro. E se l'infinito non è per gli uomini, il futuro sì. Il futuro è anche e più che mai di un ciclista.


Il Tour degli ultimi

Cinque ore. Non parliamo spesso di numeri, ma questo non è un numero casuale. Ha a che vedere con gli ultimi di questo Tour de France: è, infatti, di circa cinque ore il ritardo dell'ultimo corridore in classifica generale alla vigilia dell'arrivo della tappa di Hautacam. Cinque ore ovvero una tappa e anche abbastanza lunga. Chi arriva in fondo alla classifica è come se avesse percorso una tappa in più. Questo per dare una misura temporale a quella sofferenza degli ultimi, alla loro difficoltà, perché diciamo tutti che gli ultimi fanno più fatica: così c'è un modo di misurarla quella fatica. E non è finita perché non saranno solo cinque ore, aumenteranno ancora.
Ma proprio perché i numeri non bastano, dobbiamo guardare cosa c'è dentro quelle cinque ore, quella tappa in più. Viene da pensare a Caleb Ewan a Mende e a quel ringraziamento ai compagni: un grazie che ha a che vedere con la solitudine e il lavoro, con la paura e il coraggio e anche la responsabilità. I compagni che non lasciano solo il capitano in difficoltà, molte volte, potrebbero staccarlo perché per loro può essere difficile tenere il suo ritmo, non per questioni di velocità, per questioni di lentezza: talvolta si voltano, lo guardano e, appena si rendono conto che stanno forzando troppo, tornano a rallentare. Ci si assume un rischio: quello di arrivare tutti fuori dal tempo massimo, di tornare a casa eppure anche per loro, per quei gregari, finire il Tour, arrivare a Parigi, ai Campi Elisi, è un sogno. Un sogno messo a repentaglio da un dovere. Sì, è un dovere, non una scelta morale, ma nulla cambia. C'è qualcosa di straordinario lo stesso, per come quel dovere viene portato a compimento. Un capitano ci pensa, ci pensa spesso quando non riesce ad andare avanti.
Anche un gregario ci pensa, perché quando è da solo pensa a tutto. Michael Mørkøv a Carcassonne ci credeva, ci ha creduto fino ai venticinque chilometri dal traguardo: non nella possibilità di vincere, non in quella di fare bene, solo in quella di arrivare in tempo per continuare. Non si può nemmeno immaginare quanto sia difficile quando resta solo questa. Allora perché si continua? Per se stessi ma, se si è uomini come Mørkøv, soprattutto per gli altri. Già, perché con quel poco che resta magari puoi lanciare un'ultima volata. Irrazionale un ciclista quando soffre: spera che basti una notte per cambiare tutto e l'incredibile è che talvolta basta, talvolta in quelle poche ore di sonno le cose cambiano e si torna a rendersi utili. Se non succede si aspettano giorni fino a che succede o fino a che si scende di bicicletta per sfinimento. Mørkøv non ha avuto questa possibilità perché non è riuscito a stare nel tempo massimo, ma ad aspettare, insieme a tutta la gente che non se n'è andata, c'era il direttore del Tour de France all'arrivo. Poche parole, una sorta di inchino.
Dietro a lui, come dietro a Soler, distrutto dai problemi di stomaco, la Voiture Balai, la vettura scopa, per gli ultimi. Cosa si prova a sentire quella macchina alle spalle, ad avere la sensazione di essere attesi dall'ultima macchina della corsa? Qualcuno alla guida delle vetture scopa ci ha detto che capita di immedesimarsi nell'ultimo uomo che hai davanti, di sentirsi davvero impotenti, perché nulla si può fare se non guardare e aspettare. Forse chiedersi se tutta quella fatica abbia un senso.
Quello stesso senso di impotenza che hanno provato i compagni e lo staff di Fabio Jakobsen ieri a Peyragudes. Di nuovo i numeri: diciassette secondi di salvezza per ore di fatica. Hanno gridato, chiamato, mosso le mani, lo hanno tifato come se stesse vincendo, più forte che nelle volate. Non poteva essere che così, perché il tifo serve soprattutto a loro, agli ultimi. Quando vai forte, stai anche bene da solo. Quando sei quasi fermo, hai bisogno di tutti. In fondo è questo il segreto di chi aspetta fino all'ultimo atleta sulla strada e sembra non finire mai la voce.
C'è un dettaglio, lo abbiamo visto più volte sulle strade: per i primi si tifa con tutto il corpo, con strumenti e movenze, per gli ultimi si aggiunge qualcosa. Per gli ultimi si aggiunge lo sguardo: ci si guarda a vicenda, tifosi e ciclisti, e in quel momento si tace. Tutto quello che si vuol dire è in quegli occhi che si incrociano: chiedetelo a un tifoso, chiedetelo a un ciclista.


Crediamo nel modo

Crediamo nel modo. Nel modo di fare le cose, qualunque sia il risultato, e lì, sul modo, ci soffermiamo. Anche guardando a Steven Kruijswijk a terra, dopo una caduta apparentemente innocua, che, invece, ha fatto male, così male da farlo restare sull'asfalto rovente, con una mano sulla spalla. Perché a pochi metri c'è Wout van Aert, che vorrebbe ripartire, ma lo guarda, cerca conferme, cerca un segnale, poi parte. Perché quando Kruijswijk viene trasportato in barella verso l'ambulanza il pubblico guarda e applaude. Un applauso nel silenzio, del silenzio: il gruppo è già altrove, certo, ma non è per quello il silenzio interrotto solo dal battere delle mani. Significa riconoscersi in un dolore e questa gente, quella che aspetta ore sotto il sole per un secondo di colore e di vento, sa cosa vuol dire.
Credere nel modo vuol dire guardare oltre a quello che si vede, vuol dire cercare oltre quello che si trova, vuol dire fare, talvolta, oltre quello che si può. Mentre scriviamo questo pezzo non sappiamo se Michael Mørkøv arriverà a Carcassonne, se lo farà entro il tempo massimo oppure no, però Mørkøv crede nel modo. Non abbiamo dubbi. Perché c'è modo e modo di non farcela. Insistere fa parte di questo modo. Qualcosa di simile vale per Benjamin Thomas: il suo modo è quello dei fuggitivi e chi fugge crede nel modo perché se credesse solo nel risultato non andrebbe in fuga, non soffrirebbe così per poi perdere tutto a pochi metri dal traguardo, col gruppo che lo inghiotte. Il risultato è importante ma credere nel modo fa la differenza perché c'è modo e modo di raggiungere lo stesso risultato e chi guarda capisce, chi guarda ama non per i numeri, ma per le modalità con cui avvengono le cose.
Wout van Aert prova ad andare in fuga, viene fermato, torna in gruppo, cade, aiuta Vingegaard e poi si lancia in volata. Non vince, arriva secondo ma volete mettere questo secondo e qualunque altro secondo posto? Poi si parla di tattica, di strategie, degli errori e di tutto il resto. Questo, però, colpisce e colpisce perché ha a che vedere col modo.
Come col modo ha a che vedere la volata di Jasper Philipsen: con il modo in cui se la guadagna, con il modo in cui sprinta, in cui non smette mai di pedalare, e anche col modo in cui parla dopo il traguardo. Col modo, ad esempio, in cui dice ad un intervistatore "sto per piangere", quasi ad avvertire di un momento di debolezza che è poi un momento di forza.
Ve lo dicevamo: crediamo nel modo. Da sempre, oggi ancor di più.


Guardare Bettiol

C'è un tappeto giallo sulla Côte de la Croix Neuve a Mende. Un tappeto che, in questo sabato, coincide con i battiti che aumentano, con la posizione di chi sta guardando il televisore dal divano che cambia, il volume che si alza, quasi che la voce più alta possa cambiare qualcosa. Ci si siede, ci si mette in punta di divano, mentre le mani, che non riescono a stare ferme, continuano a intrecciarsi, a sudare. Si fa fatica anche a guardare, a volte il ciclismo è così ma a non vedere si sta proprio male. Saranno quei cinquanta e più giorni da quando un italiano non vince al Tour de France che fanno stare così, in una sensazione di sublime, a metà tra la meraviglia e un leggero dolore. Da poco è scattato Alberto Bettiol e su quella bicicletta ci sono tutti.
Su quelle gambe che hanno lavorato tutto il giorno, che hanno faticato tutto il giorno, c'è Bettiol che da dietro una curva vede Matthews, in fuga dalla fuga, che sembrava lontano e invece a lui è bastato uno scatto per tornare a vederlo. C'è quel tappeto giallo a Mende su cui Bettiol, spostandosi da destra a sinistra, riesce a riprendere la sua ruota. Bettiol va a destra e chi guarda stringe i pugni come nel gesto di afferrare qualcosa, Bettiol va a sinistra e la mano va sulla fronte a togliere il sudore. Denti stretti. Anche i piedi si muovono per terra: se si fosse lì si inseguirebbe Bettiol a bordo strada. Quei passi si fanno lo stesso.
Saranno cinque i metri che Bettiol rifila a Mathews nel tratto più duro della salita. Su quel divano ci si continua a muovere: non c'è più tempo per fare nulla se non ciò che si può fare guardando. Si beve in fretta, l'acqua calda, fuori dal frigorifero da inizio tappa. Fa nulla. Nessuno vuole vedere che quei metri diminuiscono, che Matthews sta rientrando. Nemmeno Bettiol, forse. La meraviglia si sta spezzando.
Matthews cambia ritmo, se ne va. Quei metri che prima si dilatavano per crederci, ora sono trenta, quaranta, cinquanta ma fa nulla. Si prova qualcosa anche quando Bettiol spunta in fondo al rettilineo d'arrivo mentre l'australiano già festeggia il suo capolavoro. Si prova qualcosa quando lo si intuisce sui pedali, lontano, troppo lontano. La schiena si poggia al divano dopo pochi minuti che sono sembrati troppi, infiniti. Primo Matthews, secondo Bettiol.
C'è Pogačar che attacca Vingegaard, c'è l'ennesimo testa a testa, ancora assieme. Uno spasso da ragazzi, da "ti faccio vedere cosa so fare" fra questi due. Sennò come spiegare un attacco ai centottanta dall'arrivo?
Sul tappeto giallo ora ci sono solo tifosi che vanno e tornano. Il televisore continua a parlare e qualcuno continua ad arrivare: Caleb Ewan, sofferente, dolorante, con l’unica voglia di ringraziare i compagni perché hanno finito con lui, si sono fidati del fatto che ce la facesse e ce l’ha fatta, dopo la caduta di ieri. Le mani smettono di intrecciarsi. Succede in un pomeriggio di luglio, mentre si vede il Tour de France, mentre si guarda Alberto Bettiol.


Imperfetti come l'Alpe d'Huez

È strano. Tutte quelle voci, quelle campane, quelle mani che battono, che si mescolano sui ventuno tornanti dell'Alpe d'Huez, se sentiti altrove non avrebbero nulla di armonico, sarebbero rumore. Invece lassù sono suono. Sarebbero rumore perché non c'è nulla di concorde, nulla di studiato, di preparato, perché ognuno improvvisa, si dicono cose diverse in lingue diverse. Si urla. Fra i tornanti che diventano colori, poi nazioni e sensazioni, invece, sono suoni per gli stessi identici motivi. Perché sono imperfetti.
Vogliamo parlare della piacevolezza dell'ascoltare e del vedere l'imperfetto: qualcuno che è già caduto, che si è già "sgualcito", che è già cambiato tante volte, che ha perso qualche illusione, non la speranza. È imperfetto Chris Froome perché se fosse stato quello dei tempi migliori non avrebbe avuto bisogno di andare in fuga per arrivare terzo e, anzi, non sarebbe proprio arrivato terzo. Il keniano bianco, oggi, sembra la lingua dell'Alpe, un rumore, in termini assoluti, che si fa suono. E quel suono lo capiamo tutti, è piacevole, confortante.
Giulio Ciccone che inizia l'Alpe d'Huez in testa, sui pedali, guardando verso l'alto non è molto diverso da lui. Ciccone dei rumori ha fatto suono più di una volta, delle cose belle nei momenti peggiori ci ha parlato giusto un paio di mesi fa a Cogne. Quanto peseranno quegli occhiali che Ciccone getta via quando vince? Ben poco, eppure strapparsi qualcosa di dosso ha molto a che fare con gli scalatori: quasi ad alleggerirsi, realmente o simbolicamente. Buttare via qualcosa, lanciarla, è liberarsi. Non si può fare con ciò che si è passato, si fa con quello che si ha addosso. Si resta imperfetti quando si soffre, ma liberi. Liberi di esserlo. Quando hai capito questo, sì, puoi scattare.
Il volto di Tom Pidcock che va verso il traguardo e vince porta ogni segno di questa sofferenza. C'è quel rumore a spingerlo. Ci avete fatto caso? Quelle voci vanno in sincronia con la corsa, sembrano accelerare quando la corsa accelera, rallentare quando si quieta. E i pedali di Pidcock, il suo corpo, quasi seguono quelle voci: c'è accordo. Cosa può diventare quel rumore? Non solo suono, anche sincronia che è muoversi allo stesso tempo, che è quasi musica. Un sottofondo adatto alle sue curve in discesa qualche tempo prima. Eppure era imperfetto. Era tutto imperfetto.
Anche Tadej Pogačar ieri è stato imperfetto in sella: ha perso, è stato sconfitto come mai lo era stato. Ha conosciuto un dolore che mai aveva conosciuto così e l'ha affrontato. L'ha affrontato sentendo male e poi ridendo, scherzando. Non è scontato quando non sei abituato. Quando, oggi, è scattato con Vingegaard alla ruota c'era qualcosa di diverso: la stessa forza, la stessa grinta ma un'altra leggerezza. Il permesso di perdere, di non essere perfetto e piacere lo stesso, forse ancora di più perché si assomiglia alla maggioranza delle persone che gridano, urlano, muovono quei campanacci a tempo perché si immedesimano. Sono e vogliono sentirsi come chi arriva qui in bicicletta. Non come l'atleta, come l'uomo.
Il suono dell'Alpe, la sua lingua, parla a tutti per questo motivo. Basta qualche secondo e capiamo tutti di assomigliargli più di quanto somigliamo a qualsiasi sinfonia.


Il Re Giallo

Quando Jonas Vingegaard attacca Tadej Pogačar sul Galibier, ad un certo punto, lo guarda. Sembra la restituzione dello sguardo dello sloveno alla Super Planche de Belles Filles: ora è solo. Scatta Vingegaard, scatta Roglič, ci riprova Vingegaard e ancora Roglič. Il Re giallo, quasi uno scacco impazzito, insegue prima l'uno e poi l'altro. Vede i corridori della Jumbo Visma compulsare le radioline, non sembra avere paura, ma certamente si chiede quale sarà la prossima mossa. Solo come si è soli sul Galibier, in ogni caso, e tutti pensano alla solitudine di Marco Pantani quando lì attaccò nel 1998. Ma la solitudine può ammalare, può indebolire, può lasciare nudo anche il Re giallo.
Non c'è pietà, non può esserci oggi: non per Barguil, in fuga dal mattino, non per Quintana, nemmeno per Bardet. Quella pietà non può essere scolpita sulle pietre del Col du Granon: duro, granitico, freddo. Forse davvero Pogačar non se lo aspettava, forse per questo scherzava nonostante il plotone della Jumbo Visma a fare il ritmo in testa. Per lui cambia tutto come cambia il tempo in montagna, quando Vingegaard riparte e questa volta gli sguardi sembrano non incrociarsi. Una provocazione, un'altra. Ma il Re giallo non risponde: probabilmente Majka davanti, a scortarlo, non era la preparazione di un attacco, era il tentativo di un bluff, di una difesa dopo tutti quegli scatti, quelle risposte a domande sospese.
È freddo lo sguardo di Vingegaard mentre sale, qualcosa che ricorda l'inverno danese. Ha caldo Pogačar, si slaccia la maglia, si scompone: vede Thomas attaccarlo, staccarlo. Vede molti corridori affiancarlo e superarlo con apparente facilità. Soffre, non gli vediamo gli occhi ma li intuiamo. Solo di quella solitudine che inghiotte. Svuotato, senza forze.
Solo come solo davanti è Vingegaard che vince, conquista la maglia gialla e rifila quasi tre minuti allo sloveno. Che pare impossibile perché Pogačar sembrava non poter andare in crisi, assomigliava a quelle pietre, quelle rocce, su cui piove da anni e anni ma restano così, sfregiate, ma immobili. Lo sloveno oggi è immobile perché sconfitto, col caldo che diventa freddo dopo l'arrivo quando si realizza che bisogna ricominciare da capo, attaccare, e che proprio adesso non si sentono le forze per farlo.
Parigi è lontana. Stanotte i sogni, gli incubi, i momenti di questa tappa che torneranno in mente. Domani l’Alpe d’Huez. Il Tour de France, intanto, ha un altro Re. Solo in vetta al Granon dove, oggi, un ragazzo venuto da lontano ha pianto.


Il prezzo della libertà

Viene da pensare alla libertà, pochi metri dopo il traguardo di Megéve. Al fatto che, forse, l’ultima volta che ci abbiamo pensato così intensamente eravamo adolescenti. Non alla libertà in generale, ma alla libertà al modo di un ciclista che può sembrare quella di una casa al mare con le finestre aperte, di un pomeriggio al cinema e di una corsa a perdifiato verso l’orizzonte. Perché la libertà di un ciclista è così piena di coraggio che sembra non sentire il peso del suo prezzo.
Che in realtà la libertà non è solo un volo libero: può esserlo certo, ma dopo quanto tempo? E soprattutto per quanto tempo? La libertà ha un peso, un costo, un prezzo. La libertà di un ciclista è, ad esempio, quella di Bettiol di cui tutti abbiamo contato i metri ad ogni pedalata, immaginando un giro di pedali che potesse colmarne sempre più per avvicinarsi al traguardo. La libertà può anche essere girare attorno a una macchina, in uno spazio stretto, quando la corsa è bloccata, quando quella è l’unica possibilità per ripartire. La prendi a morsi con fame: anche se è poca cosa.
In fuga vanno in pochi, il resto è gruppo, il resto è plotone. Perché in fuga si è più liberi, lontani, con più spazio attorno e con una visuale sgombra davanti eppure la maggior parte dei corridori stanno in gruppo. Lì dove c’è un poco meno di tutto ciò che abbiamo detto, ma c’è altro. Non devi rischiare di dover mollare dopo aver attaccato tutto il giorno, come Bettiol, se resti in gruppo. Non devi rischiare di essere maglia gialla virtuale per tutto il giorno e perderla sul più bello come Leonard Kämna. Chi non sogna quella libertà, quella dei ciclisti, forse preferirebbe non sognarla nemmeno la maglia gialla piuttosto di essere deluso. Noi preferiamo essere delusi, forse, ma aver provato. Esserci stati.
Quella libertà che sembra non aver prezzo tanto ti attrae è quella di Magnus Cort Nielsen che oggi ha vinto, per poco, dopo così tanto. Bella la libertà di Cort? Certo, bella per quello che è stato capace di vederci dentro. Che se non la riempi con gli applausi del pubblico a fiumi sulle strade, con esultanze e un pizzico di follia anche quella libertà fa male, come il mal di gambe, come la solitudine.
Più di venti fuggitivi, quasi altrettante storie di cosa sia la libertà. Quella di Ganna che è una libertà di regole e tempi, di far meglio in quelle regole, in quelle posture rigide e in quei tempi. Quella di Velasco che è la libertà di chi va in fuga al primo Tour e forse somiglia più che mai a quella idealizzata da adolescenti. Quella senza limiti, senza storie, senza punti e solo virgole o forse neanche quelle. Flusso di coscienza e desideri.
La verità è che le finestre di una casa al mare si chiudono, dal cinema si torna e non ci sono corse infinite nei prati. La libertà ha un prezzo e solo quando accetti di pagarlo sei veramente libero. Un ciclista lo fa e se quando lo guardiamo stiamo così bene è proprio per questo.


Bussare alle porte del sole

Sembrava davvero di essere alle porte del sole mentre il Tour de France andava incontro alle Alpi. Alle porte del sole mentre il ghiaccio sulla schiena dei corridori si scioglie e diventa acqua, mentre l'acqua si asciuga dimentica di se stessa. Nel paesaggio e nell'erba a tratti ingiallita, nella luce cattiva dell'estate. Si sta così alle porte del sole.
Si arrivava a Les Portes du Soleil, un paese reale, in montagna, ma ognuno a quelle porte arriva, almeno una volta, anche se non sa quando. Talvolta lo spera, talvolta dispera. Nel caldo terribile, in quello che i corridori aspettano, e sentono già l'acqua, calda, che non basta nelle borracce, il vento smosso dalla bicicletta che soffoca, le ferite che fanno più male nelle bende e gridano. Giorni brutti in cui non si sa quanto male possa bastare per farcela. Vlasov, per esempio, ha detto che giorni così non sa per quanto potrà sopportarli, "anche se poi passa".
Chi spera, alle porte del sole, aumenta la velocità, sul Col de la Croix come fa Bob Jungels. Dopo due anni difficili in cui sembrava impossibile fare ciò che oggi ha fatto, ciò che oggi stava facendo. Ad un certo punto si dubita del ritorno, delle possibilità. Jungels avrà pensato a questo e questo gli avrà dato la forza di continuare perché, alla fine, può succedere, gli altri non ti tengono. In questo pomeriggio sei più forte di loro.
Non fosse che dietro parte Thibaut Pinot, scala come sa fare, la testa ciondola in "sì" che è fatica ma è anche affermazione: "Sì, è la giornata giusta. Sì, sono sempre io, non sono cambiato così tanto". Si avvicina, si avvicina di continuo e chi guarda non sa più cosa pensare, cosa sperare. Nei duelli del ciclismo, il più difficile è quello che mette di fronte due uomini che stanno curando una sofferenza, una passata disperazione.
Cosa si dice in questi casi? Di tutto. Si può anche mentire sul distacco, sulla pendenza delle salite che mancano, perché quando hai sofferto sentirti dire che non è così dura può salvarti e quando torni a crederci non è più dura del solito, delle tante volte in cui è stata dura.
Un elastico: Jungels rallenta e Pinot si avvicina, Pinot rallenta e Jungels si allontana. Così per molti chilometri, fino a che Jungels è troppo lontano da Pinot e troppo vicino al traguardo. Fino a che Jungels vince, dopo tanto tempo, dopo troppo tempo. Pinot arriva quarto superato da Castroviejo e Verona. Staccato dopo aver attaccato, come Uran.
Pogačar fa la solita cosa strana e bellissima, di quelle che non ti lasciano mai tranquillo ma, in fondo, il senso di tutto questo non può essere la tranquillità: allunga sul traguardo, con solo Vingegaard dietro. Pochi, pochissimi secondi guadagnati ma essere alle porte del sole vuol dire, anche, preparare qualcosa, come prima di aprire una porta o di chiuderla.
Essere alle porte del sole vuol dire farcela e tornare o sentire male e basta e sperare qualcosa cambi nel giorno di riposo. Soprattutto vuol dire bussare fino a farsi far male le mani. Perché per questo ci sono le porte.


Sul Mortirolo di notte: Race Across the Alps

Pensate di trovarvi sul Mortirolo in piena notte. Anzi pensate di scalare il Mortirolo quando è già buio, quando gli unici raggi a filtrare non solo quelli del sole ma quelli della luna. Cosa provereste? A Fabrizio Duca è successo e proprio lì, sul Mortirolo, in piena notte, il cambio della sua bicicletta si è rotto. Cosa fare?
Ci torneremo tra poco. Ora, però, facciamo un passo indietro al giorno in cui Fabrizio ha saputo che sarebbe stato l'unico italiano a partecipare alla Race Across the Alps: 525 chilometri attraverso l'arco alpino, più di 14000 metri di dislivello. "È una piccola follia e come tutte le piccole follie c'è chi ti capisce e riesce a immedesimarsi in ciò che provi tu a quell'idea e chi, invece, ti dice solo che è una pazzia". Quell'idea ha anche un tempo: trentadue ore, solo trentadue ore per riuscirci.
Chi organizza si rende conto di quel che chiede e per questo ogni partecipante può portare due persone, due amici per Fabrizio, che staranno in macchina, guideranno tutta la notte e lo affiancheranno per ogni cosa. Oriana, in ammiraglia, dice che accompagnare, in fondo, è un atto d'amore: "Essere pronti ad ascoltare tutto, a non perdere la pazienza anche se sei stanco anche tu, anche se non ce la fai più. Ad avere paura e nasconderla. Se ci pensi questi sono anche gli atteggiamenti di un genitore". Ecco i pensieri di quel venerdì, quando si parte da Nauders.
A Bormio si scatena il diluvio. Sul Gavia l'acqua è ghiacciata, nevica. Fabrizio non riesce più a muovere le mani, fatica a parlare. "Io non capivo che non avrei potuto proseguire così, non accettavo di fermarmi. I miei amici sì e hanno avuto paura. La cosa importante è che mi hanno protetto da quella paura e dopo un'ora mi sono ripreso, sono ripartito". Pedalata dopo pedalata, Aprica e poi Mortirolo.
Era notte lì, vi ricordate? Fabrizio con il cambio rotto non sa più cosa pensare e chiama al telefono il suo meccanico. Già perché in avventure del genere c'è sempre chi, a casa, ha il telefono acceso ed è pronto a rispondere, anche in piena notte. Fabrizio ascolta le indicazioni, impara, capisce, aggiusta e riparte. Ancora, un'altra volta. Andando incontro alla nebbia all'alba del Bernina, a tutte le volte in cui tra Albula, Fluela e passo del Forno ha pensato di fermarsi, ai momenti in cui non riusciva a mangiare.
All'inizio aveva detto ai suoi amici: "Se vedete che non sono più lucido, fermatemi. Fatemi scendere di sella. Portatemi via da quel che sto facendo". Quando quel momento è arrivato, quando quel crollo psicologico è arrivato, Oriana ha preso il cellulare e dal furgone ha iniziato a leggere a voce alta tutti i messaggi di sostegno che arrivavano, mentre Fabrizio si commuoveva, piangeva.
Fabrizio che ad un certo punto ha iniziato a pensare: "Manca solo lo Stelvio" e quando pensi così hai detto tutto. Quello Stelvio che mancava, Fabrizio l'ha percorso e ci è riuscito: 32 ore e 24 minuti. È bastato perché gli organizzatori hanno dilatato il tempo massimo e sarebbe bastato comunque perché Fabrizio ce l'ha fatta. Dopo un giorno di riposo avrebbe voluto ripartire, inventarsi altro, un'altra piccola follia.
"Mi dicono che sono un campione. Non lo sono. Qualcuno parla di eroi per gli uomini che fanno queste gare. Tenete la parole eroe per chi se la merita davvero. Io ho giocato, mi sono divertito. Ho anche rischiato, temuto ma anche nei giochi succede. La mia bicicletta è questo, solo questo". E ora tornate col pensiero sul Mortirolo, in piena notte, e diteci quando bene si sta.


La miniatura del Maniva

A tratti, guardando il Passo Maniva, oggi, sembrava di trovarsi davanti a una miniatura, vista dall'alto. Di quelle in qualche vecchia sala, in cui sono tratteggiati pochi dettagli, qualche albero, la strada e i tornanti, dritti e ripidi. Di quelle con le sagome delle cicliste, poche, una o due per ogni angolo, con i soliti colori: rosa, bianca, rossa e blu, magari. Quelle miniature in cui ogni ciclista ha pochi dettagli: il casco, gli occhiali, i calzini. Ma, allo stesso tempo, un'espressione diversa. Ci si avvicina curiosi e si guardano le smorfie, le pupille che sono un punto minuscolo, i denti bianchi che si intravedono per la fatica. Miniature immobili, fuori dal tempo, col tempo che sembra possa tornare in un attimo. Sembra basti dire "stop" oppure "azione" per vedere quelle cicliste animarsi e riprendere il ritmo.
Allora azione. E Juliette Labous lascia la fuga, prosegue da sola, mentre le nuvole coprono il sole: quasi un direttore di orchestra che, non più ascoltato dal gruppo, inizia un assolo, passando da strumento a strumento senza perdere una battuta. Solo un secondo di silenzio e ritorna la sinfonia. Stop. Mentre van Vleuten attacca dalla testa del gruppo e le poche con lei diventano pochissime: solo tre. Come a Cesena. Le stesse: Annemiek van Vleuten, Mavi Garcia e Marta Cavalli.
Azione. Vanno via, in un'alternanza di ritmi e posizioni sui pedali. Di respiri che tornano quando van Vleuten lascia la testa del gruppetto e su un tornante sono quasi appaiate. Per guardarsi, per scoprirsi, per vedere se le avversarie sono davvero come le immagini, se soffrono anche loro. Il nostro stop arriva proprio in questo momento e torniamo ad avvicinarci, a guardare ogni dettaglio. Gli occhi coperti dagli occhiali di van Vleuten e Cavalli e quelli alla luce del sole di Garcia. I suoi occhiali riflettono solo il cielo.
Di nuovo azione e rientrano Longo Borghini e Realini. Longo Borghini va davanti, forza l'andatura, poi rallenta. Allora accelera Cavalli, inventa Garcia, ritenta van Vleuten. Ancora stop, altro fermo immagine. Lassù, Labous vince, a braccia alzate, mentre inizia a piovere. Dietro la maglia rosa, fra quelle poche cicliste sul rettilineo all'insù, attacca: un gioco allo sfinimento quello di Annemiek van Vleuten, quasi una tortura. Una domanda in continua attesa di risposta: "Quando vi staccate? Non state soffrendo ancora abbastanza per lasciarmi andare? Insisto, insisto ancora".
Azione. Garcia e Cavalli lasciano prima mezza ruota, poi una, poi si staccano e van Vleuten è ancora sola. Saranno seconda e terza sul traguardo, sotto una pioggia più pressante, più pesante, come i muscoli e i pensieri. Come le maglie intrise d'acqua che aumentano il peso di un corpo che già è insopportabile per colpa della fatica, della salita.
Stop. Con i dettagli delle prime pozzanghere che si formano per strada e tutto che sembra finito ma finito non è. Perché su quei tornanti c'è ancora chi deve arrivare, chi lotta con il tempo massimo, chi non capisce più cosa sia sudore e cosa acqua.
Azione, per l'ultima volta. Quando qui, sotto un cielo sempre più buio, arriveranno le ultime, scenderanno di sella, si siederanno a terra e anche per oggi sarà finita. Bella e tragica come ogni salita.