Dalle guglie del Duomo allo Stelvio

Per Fabrizio Beyerle e Massimo Bonomi è iniziato tutto da un'esclamazione: «E noi cosa facciamo?». Partecipando, o semplicemente osservando, a diverse manifestazioni amatoriali di ciclismo, Fabrizio e Massimo hanno pensato che sarebbe stato il momento di inventare qualcosa di loro. Qualcosa che racchiudesse la loro idea di ciclismo. Così è nata l'idea della Duomo-Stelvio: una pedalata libera, da Piazza del Duomo fino a una delle cime più famose del mondo, il Passo dello Stelvio. «Ho origini tedesche, ma sono sempre vissuto a Milano. Per me pensare al Duomo vuol dire pensare a casa- racconta Fabrizio- in fondo, però, per ognuno di noi, da qualunque città provenga, ovunque sia nato, il Duomo di Milano è qualcosa di unico, un simbolo. E lo Stelvio? Il Passo dello Stelvio è la salita per eccellenza. Non è la più dura, ma senza dubbio è fra le più evocative. Tutti sanno cos'è lo Stelvio, tutti se lo immaginano appena ne sentono il nome. Per questo, il 24 luglio partiremo da sotto le guglie del Duomo e arriveremo lassù, in cima». Un'idea nata e portata avanti insieme ad una squadra di amatori: il Team 100.1. «Un nostro amico, ad ogni “pedalata”, deve percorrere sempre almeno cento chilometri, altrimenti si volta e fa il giro dell'isolato, pur di vedere quel numero sul contachilometri. Per questo ci chiamiamo così».

Questa volta i chilometri saranno 240, con ben 3400 metri di dislivello, più di 2400 nell'ultimo tratto, e un tracciato ben definito, spettacolare. «Siamo partiti all'alba di una mattina di settembre con macchina e bicicletta munita di Gps per disegnare nei dettagli il percorso e abbiamo scoperto o riscoperto paesaggi di cui spesso rischiamo di dimenticare la bellezza». Fabrizio racconta che Marco Saligari, durante una pedalata, qualche tempo fa, gli disse: «Mi raccomando, pedala con gli occhi» e da quel giorno lui si sente in dovere di raccontare a chiunque questo insegnamento che ha cambiato il suo modo di approcciarsi all'attività sportiva. «Spesso come amatori ci sentiamo dei fenomeni e dimentichiamo di guardarci attorno. È un grosso errore. Prendiamo il Sentiero Valtellina, la ciclabile che condurrà allo Stelvio partendo da Colico, sul lago di Como, e arrivando a Bormio. Si attraverserà diverse volte l'Adda su dei ponti dedicati che offrono scorci di rara bellezza, si transiterà in vecchi paesini in stile “L'albero degli zoccoli”, per poi inoltrarsi nei meleti. Da quelle parti si respira un profumo delicatissimo, sembra di sorseggiare succo di mela. E noi dovremmo perderci tutto questo per fare la corsa al miglior piazzamento o al miglior tempo?». La risposta è ovviamente negativa e, proprio per questo, Fabrizio e Massimo hanno pensato che non ci saranno premi, se non una medaglia di legno e l'iscrizione all'albo d'oro "Sovrano dello Stelvio". Per incoraggiare lo spirito di squadra saranno consentite staffette in modo da darsi il cambio durante il tragitto. «Non tutti sono allenati per simili distanze ed è anche giusto così. Darsi il cambio è un gesto molto importante nel ciclismo. Ogni staffetta sarà composta da tre persone di cui almeno una donna: anche questo è un messaggio a cui teniamo molto. L'importante è aiutarsi e arrivare. Chiunque arrivi può essere orgoglioso».

E Fabrizio se la immagina già quella mattina. «Quando i primi partecipanti arriveranno a Lecco, sarà mattina presto, intorno alle sette. Di fronte a loro si staglierà il Resegone ed a qualcuno verrà certamente in mente Alessandro Manzoni. Altri, magari stranieri, vedranno il lago per la prima volta, col sole alle spalle mentre chiacchierano con l'amico che pedala accanto. Così fino a Perledo e Varenna». Un'occasione unica perché, per gli ultimi cento chilometri, la pedalata sarà in mezzo alla natura, lontana dal traffico cittadino. «In un paese come il nostro, in cui l'insicurezza stradale è un vero e proprio dramma, credo che questa sia una possibilità importante. Per pedalare in tranquillità, senza paure e continuare a dare l'esempio. Io dico sempre che, come ciclisti, come parte debole, dobbiamo metterci nell'ottica di essere inattaccabili, di prestare la massima attenzione ad ogni dettaglio in modo da non lasciare alcun alibi agli automobilisti».

E fra tutti i ciclisti ve ne sarà uno speciale: Daniele Schena, soprannominato Stelvioman. «Parliamo di un uomo che ha scalato lo Stelvio ben quattrocento volte. Posso dire che per me è una questione di orgoglio pedalare accanto a lui». Solo ad una cosa Massimo e Fabrizio non vogliono pensare. «Abbiamo predisposto tutte le misure necessarie per evitare contagi da SarsCov2 e saremo rigorosi nel loro rispetto, ma questo pensiero non deve diventare assillante. Vogliamo credere che riusciremo a vivere questa avventura, con la leggerezza e la spensieratezza che la bicicletta consente. Finalmente all'aria aperta, finalmente assieme».

Già, perché Fabrizio ha iniziato a pedalare sin da ragazzo per un motivo molto semplice: «Non riuscivo a stare fermo così ho iniziato a pedalare. In famiglia lo sanno tutti e le mie nipoti, bambine che hanno dai due ai sei anni, appena vedono qualcuno in bicicletta, si girano verso i genitori e dicono: “Guarda il nonno”. Quale miglior modo di raccontare il ciclismo?».


Tutti gli ingranaggi di una bicicletta: intervista a Donato Pucciarelli

«Sono nato a Montelupo Fiorentino, il paese di Franco Bitossi». Donato Pucciarelli, meccanico dell'Androni Giocattoli Sidermec, racconta così la sua toscanità, il suo essere “fumino”, quell'accendersi per un nulla. «Fino a diciotto anni non sapevo nemmeno cosa fosse il ciclismo, poi ho iniziato a pedalare, ma erano i tempi di Battaglin, Moser, Baronchelli, era dura vincere». Sono passati gli anni, ma Pucciarelli sente come fossero ora le difficoltà di quei tempi. «Erano anni duri. Mio fratello aveva una bottega di biciclette e vi lavorava come meccanico, non c'era tanto tempo da perdere. La mia era una famiglia contadina e bisognava guadagnarsi la pagnotta. Dovevo pensare a lavorare, non potevo portare la bicicletta in giro per il mondo. Mi allenavo quando finivo il mio turno e nonostante questo i miei risultati li ho ottenuti. Poi ho scelto di smettere, pensavo al mio lavoro e a farmi famiglia. Non ho rimpianti sebbene chissà, se fossi diventato ciclista, cosa sarebbe successo».

Poi ci sono gli anni che passano e le cose che accadono. «Non ci pensavo più, quando una sera, nel 1988, passò da me Roberto Gargioli. Era stato ingaggiato dalla squadra di Gianni Savio, noi abitavamo vicini e a lui serviva un meccanico a pochi chilometri da casa». Cambia tutto nella vita di Pucciarelli. A partire dalla prima volta in cui si trova a dover preparare le biciclette degli atleti: «Accanto a me, c'era il meccanico di Pedro Delgado. Io non avevo ancora finito di preparare tutto il materiale, lui aveva già sistemato tutte le bici. Che frustrazione! Ma serve anche questo. La gavetta ti fa crescere umile». Ed è da quell'umiltà che Donato Pucciarelli ha tratto gli insegnamenti più importanti. «Con i corridori non bisogna mai discutere. Hanno già tante pressioni, ci mancherebbe solo le nostre. Il nostro compito è farli stare tranquilli. Io lo dico sempre: “Siamo tutti qui per lavorare, chiedete, parlate, non fatevi remore. Partirete più leggeri”.»
Così ha imparato a rispondere alle richieste più inconsuete, ad accontentare i ragazzi per tranquillizzarli. «Gilberto Simoni correva con sella storta e io gliela posizionavo così, limando l'archetto, perché lui si trovasse bene. Alcune volte i ragazzi vengono a chiederti di alzare il manubrio di un millimetro. Non lo percepiranno nemmeno, ma tu devi alzare quel manubrio perché psicologicamente per loro è importante. Attenzione, però, questo non deve diventare un alibi». Pucciarelli sta pensando ai corridori che dopo una sconfitta o un errore in gara, cercano una scusante nel mezzo meccanico e non si assumono le proprie responsabilità. «Non si divertono neanche più in bicicletta e tutti i problemi nascono da lì. Se non vi divertite, pur con tutta la fatica che si fa, non continuate. Fermatevi. Se vi rendete conto che non è il vostro ambito, non tirate a campare. Il ciclismo è una delle possibilità più belle, non imbruttitelo col vostro modo di fare. Lamentarsi fa male». Per contrasto pensa a Egan Bernal. «A lui andava sempre bene tutto, vedevi che era felice di fare questo lavoro. Non l'ho mai sentito lamentarsi una volta ed i risultati sono arrivati».

Il mondo dei meccanici è cambiato nel corso degli anni e Pucciarelli ha vissuto questa modificazione dall'interno. «Giancarlo Ferretti mi chiamava Tarzan perché in corsa facevo delle acrobazie tremende. Ho provato a cambiare il filo dei freni o la catena in ammiraglia. Non c'erano tutte le bici che abbiamo oggi e bisognava cavarsela. Se si rompeva un cerchio, la sera si prendevano i raggi e si faceva un cerchio nuovo, oggi si cambia la ruota. Non c'erano i rapporti di giusti per scalare il Mortirolo, così te li inventavi. Poi vincevi una tappa del Tour de Las Americas davanti ai grandi e ti scordavi persino delle notti insonni. Eravamo in pochi a lavorare sulle biciclette, non avevamo tutte le conoscenze dei giovani di oggi ma avevamo la pratica». Qui, Pucciarelli apre una parentesi. «Stare in giro per il mondo, a volte anche senza tutta l'attrezzatura necessaria, ci ha insegnato ad arrangiarci e a distinguere ciò che davvero è un problema da ciò che non lo è. Quante cose teoricamente sono in un modo ed in pratica sono all'opposto? Quando sei in viaggio, sballottato da un albergo all'altro, senza tempo, al caldo afoso della Francia o sotto un diluvio invernale, lo capisci e ti adatti».

Di tutti questi anni, Donato Pucciarelli avrebbe molti episodi da raccontare, per esempio di quando Gianni Savio lo affiancava mentre preparava le biciclette: «Mi veniva vicino e mi chiedeva di spiegargli cosa stavo facendo, che rapporti usavo o cos'era quello strumento che avevo in mano. Poi precisava: “Sai, se i ragazzi me lo chiedono devo saperlo”. Su un aneddoto, però, si ferma diversi secondi. «Non ricordo che anno fosse. Eravamo al Giro d'Italia e Massimo Ghirotto perse una tappa da Claudio Chiappucci. Arrivò stremato, mi si avvicinò e mi disse solo: “Puccio, non ce l'ho fatta. Non ce l'ho fatta”. Andò via. Quegli occhi li rivedo ancora».

Foto: Luigi Sestili


La verità di van Aert, gli inganni del Nord

La Gand-Wevelgem è una corsa che tesse inganni. Sono poco più di ventotto i chilometri da Ypres a Wevelgem, il percorso, invece, si snoda in un budello attorcigliato che somiglia a una litania dolente. Scherpenberg, Vidaigneberg, Baneberg, Monteberg, Kemmelberg e si torna a ripetere ogni muro, senza logica e senza ordine.

Il vento oggi è un dinamitardo impazzito che imperversa da destra a sinistra, da sinistra a destra. I ventagli sono l'unica possibilità per non esserne respinti, assecondare la rabbia dell'aria, le sue sberle, per restare attaccato alla ruota che hai davanti e che sembra sempre più distante. Chi perde un metro non lo recupera più. Così il gruppo si disperde in tanti rivoli, ferito irrimediabilmente, smembrato.

Mancano ancora cento chilometri all'arrivo e davanti sono solo venti uomini a giocarsela senza ritegno. Tra di loro Wout van Aert, Matteo Trentin, Michael Matthews, Stephan Küng, Sam Bennett, Sonny Colbrelli e Giacomo Nizzolo. Procedono veloci, appaiati, quasi raggruppati, si scrutano, si controllano mentre la sabbia alzata dal vento sembra risucchiata dal cielo e le pietre stortano le bici e le bocche che in certi istanti sembrano deformarsi, il ghigno della fatica. Dietro gli inseguitori cadono nella ragnatela della menzogna del tempo, di quel minuto di distacco che sembra poco e invece è troppo: così Štybar prova a rientrare con Ballerini, così Van Avermaet e Arnaud Démare sgasano a vuoto, illudendosi ed illudendo.

Wout van Aert è un attore alla prova generale al secondo passaggio sul Kemmelberg. Chissà cosa avranno pensato quelli che gli erano a ruota, mentre il respiro faticava a salire. Chissà cosa avrà pensato Bennett ad ogni curva, ad ogni discesa, ad ogni strappo, mentre il suo stomaco sembrava ribaltarsi per gettare fuori qualcosa di indigesto. In certi momenti la verità non è ammessa, bisogna fingere e far credere agli altri che è meglio che ti temano perché in volata sei più veloce. Anche la paura può spezzare le gambe, in questo spera Sam Bennett.

Sarà un nuovo attacco di van Aert sul Kemmelberg a lacerare ogni finzione. Bennett resta in coda, perde dieci, quindici metri. La nausea si trasforma in conato di vomito, sembra una liberazione, nonostante il tremore e la debolezza. È questa la forza che gli permette di tornare in testa a tirare, come se niente fosse successo. Sta mentendo l'atleta Quick Step ma il corpo non lo inganni, le viscere sentono tutto. Sembra una Pietà quando si sfila, testa bassa, poi alta, poi di lato, sudore freddo e gambe ferme. A raccattare ossigeno chissà dove per non fermarsi e buttarsi a terra.

Ci si avvicina sempre più a Wevelgem. Van Aert parla con il compagno Van Hooydonck: a tutta, andatura alta per scongiurare attacchi. Chi prova, rimbalza. Lo sa bene Küng che è l'enigma dell'impotenza quando prova ad allungare all'ultimo chilometro come quando parte lungo, troppo lungo, ai quattrocentocinquanta metri dalla linea bianca del traguardo.

Non c'è più tempo per aspettare, le gambe scalpitano nervose. Van Aert lancia la volata a centro strada e non c'è più storia che tenga. Sembra tutto facile anche se facile non è, dopo duecentocinquanta chilometri. Nizzolo e Trentin partono dal fondo, quasi sollevano la bicicletta dai colpi che danno sui pedali, rimontano tutti, non lui che fa corsa a parte. Lui che ringrazierà il compagno di squadra, che dirà che è stata dura, durissima, perché, quando si è solo venti in gruppo, quel vento contrario devi affrontarlo a viso aperto a costo di sembrare incosciente. E poi quel «sono felice», che spesso non si ammette, che si ritiene scontato, ed invece oggi sì, come una liberazione dalla fatica. Perché la fatica rende tutto tremendamente vero, nel senso di onesto, spietato, anche crudele, se volete. Come una bicicletta, come un uomo.Foto: Vincent Kalut/PN/BettiniPhoto©2021


Lontano dal gruppo: intervista a Samuele Rivi

Quando alla Strade Bianche, durante la fuga, il cambio di Samuele Rivi, Eolo Kometa, si è rotto, lui ha iniziato a chiamare l'ammiraglia, ma nessuno è arrivato. «Continuavo a chiamare e non c'era nessuno. Il gruppo era ad andatura sostenuta e non potevano raggiungermi. Sono sceso di sella e ho continuato a piedi lungo quel tratto di sterrato. Camminavo e pensavo che, in fondo, il plotone era ancora lontano e sarei riuscito a ripartire prima del suo arrivo. Poi lo vedi che ti raggiunge e ti sorpassa a doppia velocità e tu puoi solo camminare, correre, ma lui va e non puoi farci nulla. Hai fatto di tutto per lasciarlo lì, più lontano possibile e, alla fine, è lui a lasciarti lì». Samuele Rivi quel giorno ha sofferto ed ancora oggi fatica a pensarci. «Sono un ragazzo introverso e questo nella vita di tutti i giorni può essere un problema. M nel ciclismo no, perché in bicicletta non ho paura di farmi vedere, di mettermi in mostra. Quando pedalo sono un'altra persona, molto più coraggiosa. In gruppo mi annoio e non ho ancora la capacità di fare la differenza nel finale e così mi sono inventato le fughe. Le situazioni vanno vissute, non subite».

E certamente in questo discorso ci sono le parole di Ivan Basso in quella riunione, prima della Tirreno-Adriatico. «Eravamo sul bus della squadra, quando ha preso la parola: “Se qualcuno, prima di una corsa come questa, non si sente dentro lo stomaco qualcosa di unico e particolare, significa che ha sbagliato mestiere. Pensateci“. Io avevo lo stomaco in subbuglio dalla sera prima. In queste occasioni, all'inizio, senti solo pressione, hai paura perché devi fare centottanta, duecento chilometri, e in strada può succedere di tutto». In fondo, però, se Rivi ha scelto il ciclismo è anche per questo. «Tu pensa a un ragazzino di dodici anni che, all'improvviso, si rende conto che con quella bici può fare trenta chilometri e andare, da solo, dove non era mai stato. Prima di quella Fondriest gialla, non avevo mai sfiorato una bicicletta da corsa, ma dopo questa scoperta non sei più lo stesso. Ti senti grande, cresciuto e da piccoli sentirsi vicini al mondo degli adulti è la più grande soddisfazione che possa immaginarsi».

Ancor di più perché Rivi è arrivato da solo al ciclismo. «Credo sia raro perché solitamente c'è sempre un padre appassionato, un nonno, uno zio o magari un fratello maggiore. Nel mio caso il ciclismo è stata una mia scoperta». Samuele è abituato a stare con i piedi per terra. «Certo, avrei voluto diventare un ciclista professionista ma la vita è fatta di doveri. Puoi desiderare qualunque cosa ma, fino a che non hai la certezza di raggiungerla, devi lavorare duro per un piano b, studiando ad esempio. Non puoi stare a girarti i pollici ripetendo ciò che tu sogni». Tanto più che, in alcuni giorni, Rivi è stato il primo a non credere più alla possibilità di fare il corridore. «Capitava quando mi trovavo a disputare gare internazionali e i buoni risultati ottenuti nelle corse di casa sembravano un lontano ricordo. Continuavo ad allenarmi ma, in fondo, pensavo di aver sbagliato strada. In quei momenti devi aver vicino persone che credano in te più di quanto ci creda tu stesso e ti ricordino ogni giorno qual è il tuo talento. Qualcosa di simile mi è accaduto alla Tirreno Adriatico di quest'anno, quando, dopo la prima tappa, soffrivo sempre più ogni giorno. Quell'esperienza mi è stata utile, mi ha ricordato che la fatica e la sofferenza ti ripagano sempre nel ciclismo».

Già, perché poi c'è la vita di tutti i giorni e, nella vita, è tutto più complesso. «Tutti ci ammirano per la fatica che facciamo ed il dolore che sopportiamo in sella. Io vorrei dire che nel ciclismo questi sono fattori quasi quotidiani, ma molto più facili da sopportare. Sapete perché? Perché il ciclismo poi ti ricompensa. Soffrire in bicicletta serve, per migliorare, anche per vincere. Da noi dopo una salita, c'è per forza una discesa. Nella vita quotidiana no. Puoi soffrire per molto tempo senza che nulla cambi. Puoi faticare senza ottenere nulla. Nella vita, talvolta, la sofferenza fa solo male, non serve a niente».

Foto: Maurizio Borserini


Se a Cittiglio non fa primavera...

Nei giorni scorsi, qualcuno aveva detto che, tutto sommato, non era dispiaciuto per la nevicata caduta su Varese venerdì. «Se fa freddo, stare in casa può anche essere un piacere. E poi non ti ricordi che sta ripartendo il ciclismo e che non puoi andare a vederlo». Alla fine, si può fingere anche di dimenticare, per non soffrire troppo o semplicemente per non ammettere che si sta soffrendo. Pensando a questo, quelle strade deserte, tra Cocquio Trevisago e Cittiglio, nel giorno del Trofeo Alfredo Binda fanno meno male, perché puoi dirti che quando tornerà primavera sarà tutto come prima e che questa volta non sei salito ad Orino solo perché fa troppo freddo.

Lì dove i bordi dei campi sono pezzati dalla neve e la luce filtra dagli alberi come nelle albe che, se sei abbastanza avventuriero, puoi gustarti scostando i margini di una tenda che hai piazzato il giorno prima. Lì dove Katarzyna Niewiadoma ritrova coraggio e attacca, quasi per dire basta a tutti gli scatti e i controscatti e ritrovare la propria andatura, il proprio respiro.

Elisa Longo Borghini non ha tempo per pensare, solo per sentire. L'attacco giusto lo percepisci, spiegano le atlete, non è ragione, è istinto. L'ossolana ritrova la ruota della polacca, la affianca, la supera e continua in progressione.
La progressione è pazienza, attesa. Può essere frustrazione perché quando sei al massimo vorresti creare subito il varco, non vorresti sentire il rumore dei pedali e delle catene delle inseguitrici, il loro ansimare e la loro voce mentre discutono la posizione da tenere per venirti a riprendere. Da dieci i secondi diventano quindici e tu vorresti essere oltre il minuto perché hai paura che la luce si spenga e quella generosità finisca per punirti come già ti è accaduto altre volte.

Ma la progressione è anche logorio, lento sfinimento e quei secondi, così pochi per Longo Borghini, diventano immensi per Marianne Vos, Soraya Paladin, Katarzyna Niewiadoma e Cecilie Uttrup Ludwig. E percorrono strade che le atlete faticano a riconoscere pur conoscendole da anni. Sì, perché la gente sui marciapiedi, cambia anche la fisionomia dei luoghi, l'asfalto. Per questo quando si ritorna sul traguardo, qualche ora dopo l'arrivo del gruppo, sembra di non riconoscerlo più. Perché è vuoto, peggio, è svuotato.

Longo Borghini pedala che è un piacere, guadagna tempo in salita e sembra quasi sorridere. Il coraggio di voltarsi non lo ha ancora, nemmeno sul rettilineo, nemmeno quando la sua solitudine è inafferrabile. C'è un gusto particolare nell'essere soli, qualcosa di sconosciuto ai più, qualcosa che solo gli scalatori possono raccontare. Qualcosa che provi solo in sella, perché nella vita è tutto diverso, nella vita perdersi è molto più facile. Questo ha capito Elisa Longo Borghini quando ha detto grazie a tutti coloro che erano con lei, domenica, sulla strada o no. Perché la presenza è come lo scatto, è sensazione.

Questo hanno capito i suoi nipoti che, al ritorno a casa, le hanno appeso al collo una gigantesca medaglia di plastica. Sì, perché le dimensioni nei disegni dei più piccoli non seguono la realtà dello spazio che ci circonda, seguono la verità dell'importanza che loro danno alle cose. Così gli occhi che ti guardano possono essere più grandi di tutto il viso, o le mani che carezzano più lunghe del braccio. Così una medaglia più essere più grande di Elisa, che dopo otto anni è tornata a vincere a Cittiglio.

Foto: Roberto Bettini/BettiniPhoto©2021


Il viaggio in Alaska di Tiziano Mulonía

Solo il giorno prima Tiziano Mulonía si era svegliato piangendo. Sette, otto mesi passati ad allenarsi duramente e ora il viaggio in Alaska era a rischio. Aveva chiesto più volte spiegazioni all'ambasciata americana, ma l'invito era sempre lo stesso. «Le faremo sapere. C'è un'epidemia, è un periodo delicato». Quella telefonata, il 26 febbraio, era totalmente inattesa ormai. Tiziano, al mattino, era uscito in bicicletta per distrarsi, per non pensare a nulla. «Avevo già tutto pronto, la bicicletta impacchettata, il tampone prenotato. La testa mi diceva che non c'erano più possibilità, l'istinto mi faceva restare in attesa». Quel permesso voleva dire che quelle 350 miglia di Iditarod Trail, lunga ultramaratona invernale che si può affrontare in bici, a piedi o con gli sci, da percorrere nel gelo, sarebbero stata realtà solo due giorni dopo. Lo spaesamento aveva presto lasciato spazio ad un'organizzazione fulminea con un volo preso all'ultimo secondo, tra chi gli permetteva di scavallare la coda in aeroporto e chi lo mandava a quel paese, innervosito da tanta fretta. A Tiziano non interessa, l'unico suo pensiero è arrivare in Alaska.


Sono ventisei le ore di volo e Tiziano Mulonía cerca di non dormire, vuole arrivare stanco, in modo da riposare bene la notte. In hotel, a tarda sera, preparerà la bicicletta in vista dell'appuntamento con il meccanico e andrà a letto. «All'entrata in quel negozio ho sentito una forte botta, un tonfo sordo, qualcosa che rimbombava. All'inizio ci ho dato poco peso, poi, non riuscendo a togliermelo dalla testa, ho chiesto. La risposta mi ha lasciato basito: “C'è stato un terremoto. Più di quattro gradi della scala Richter, qui succede”. Mi sono ripetuto che dovevo stare calmo». Suo fratello, Willy, glielo aveva detto molte volte: «Ricorda, in Alaska ti aiuteranno solo la calma e la pazienza». Lui in Alaska c'era già stato e un percorso simile lo aveva già affrontato a piedi, si era ritirato distrutto, prima di scoprire un'ernia e di capire che i tempi di recupero per la camminata non ci sarebbero più stati. Dopo alcuni mesi aveva chiesto a Willy di metterlo in sella, perché era l'unica possibilità per poter pensare di tornare in Alaska. «L'unica volta che ero stato in bici avevo diciotto anni e con Willy avevamo scalato un monte della zona. In cima avevo giurato che non avrei mai più toccato una bici. Ma la vita è imprevedibile».


Tiziano parte forte, sta bene e, forse, questo lo induce in errore. La prima notte la neve cade grossolana e lui, in viaggio verso il secondo checkpoint, la subisce. Arriverà con sei ore di ritardo sulla tabella di marcia e oggi ammette che la scelta migliore sarebbe stata fermarsi al primo punto di controllo e gestire i tempi diversamente. Il giorno successivo dovrebbe percorrere cinquanta chilometri, ne percorre novanta per recuperare quel ritardo. L'avvicinamento alla prima scalata del Rainy Pass è cruciale: bisogna arrivarci il prima possibile, in modo da avere il tempo di recuperare. Tiziano ha dormito bene, “quasi in coma” dice lui, e quella mattina i pedali vanno veloci. Ad un bivio, Mulonía sbaglia strada e va dritto. «Stavo percorrendo vie che non conoscevo, nel nulla. Dopo circa quaranta chilometri ho controllato il gps: ero fuori percorso. Mi sono seduto per terra, sono crollato. Piangevo, singhiozzavo. Saranno stati tre minuti, infiniti. Al ritorno della razionalità, mi sono parlato: “Tiziano, sei stato tu a sbagliare. Ora riparti e vai a destinazione”. Dovevo arrivare alle sei del pomeriggio, sono arrivato alle due di notte, ma era l'unica cosa da fare. Se non sei grado di porre rimedio da solo ai tuoi errori, sei il tuo più acerrimo nemico».


Le esperienze degli anni precedenti gli hanno insegnato la sola cosa che conta in questa ghiacciaia. «Madre Natura comanda, lei decide, lei ha pieno potere su di te. Se pensi di sfidarla, se pensi di ingannarla, ti affossa, ti sfinisce. In casi estremi ti uccide. Devi accettare la tua inferiorità e vivere con rispetto». La paglia accanto a cui posa il sacco a pelo per riposare è la stessa che l'anno prima non lo ha lasciato dormire, questa volta, però, Tiziano non si alza, non perde la pazienza. «Una volta, con Willy, ero ripartito in piena notte e avevo camminato ventidue ore, a mollo in settanta centimetri di neve, a meno cinquanta gradi, solo per l'impazienza di arrivare. Ricordo che Willy, all'arrivo, mi disse: “Tiziano, non sei contento? Sei arrivato, l'hai finita”. Ero felice ma non me la sentivo di sorridere, avevo sbagliato, non mi ero controllato, non avevo fatto come avrei dovuto. Avevo pagato quella fatica e avevo capito cosa non fare più. Se non sei razionale, sei perduto. Qualche anno fa sono stato assalito da un alce di settecento chili. Potevo spaventarmi, scappare o pensare al ritiro. Mi sono gettato nella neve fresca, ricordando che questi animali, lì, vanno in difficoltà». Si riparte alla una di notte, svegliati dall'arrivo di una gara di cani: le norme non permettono l'assembramento e quattro ore di riposo sono più che sufficienti.


Mulonía scala l'altro versante del Rainy Pass. In cima torna a cadere la neve, gli ultimi due chilometri li percorre con già venti centimetri sul terreno. Giusto un checkpoint per mangiare qualcosa e si va verso Finger Lake. Mancano cento miglia all'arrivo e non nevica più. Tiziano impiega altri due giorni. Il suo viaggio terminerà alle due di notte. «Stavo perdendo lucidità, ero convinto di non avere più cibo, invece qualcosa c'era ancora. Negli ultimi chilometri pensavo a mia moglie e a mia figlia. A tutto il tempo che ho tolto loro per prepararmi, a tutte le attenzioni che mi hanno dedicato, al pane contato a tavola, ai vestiti che mi hanno fatto trovare sempre puliti, a posto, pronti per ripartire. Sono in debito con loro, ma restituirò tutto, se lo meritano». E ancora ritornano le parole di Willy e la consapevolezza. «Non gli ho mai chiesto nulla in più di ciò che già mi dicesse. Non doveva essere lui a sobbarcarsi anche la mia fatica. Ho sempre pensato che dovevo essere io in prima persona a sbattere il naso per capire gli errori. Devi avere il coraggio di sbagliare da solo, perché, poi, la soddisfazione sarà ancor maggiore. Essere uomini significa anche questo».


Tiziano aggiunge poche parole: «Non voglio sentire parlare di eroismo. Non sono un eroe. Quello che ho fatto è qualcosa di mio, qualcosa che fa parte della mia vita e che tengo stretto. Solo questo». Poi l'ultimo pensiero: «Due anni fa, abbiamo perso il nostro secondo figlio. Era ancora in grembo, diciotto anni dopo la mia primogenita. Io ho sofferto, ma l'ho accettato. Mia moglie ha passato un periodo molto difficile e non se l'è più sentita di provare ancora ad avere un bambino. Aveva troppo paura di una nuova perdita, di tutto quel dolore. Ho accettato questa scelta. Due mesi fa abbiamo preso una cagnolina, abbandonata in una scatola in un campo. Non puoi immaginare quello che mi fa provare guardarla. Mentre ero in Alaska, mia moglie le faceva sentire la mia voce e lei guardava lo schermo del telefono. Quando sono tornato mi ha accolto in un modo indescrivibile. C'era così tanta felicità in quel suo scodinzolare. Se avessi saputo che avere un cane sarebbe stato così, l'avrei adottato dieci anni fa».

Foto: Tiziano Mulonía


Essere se stessi in pista: intervista a Elisa Balsamo

L'intervista con Elisa Balsamo parte da uno sguardo. Elisa fissa le compagne che girano all'interno del velodromo di Montichiari e cerca un'idea per rispondere alla nostra domanda. «La verità è che non riesco ancora a immaginare la mia Olimpiade a Tokyo. Sarà perché ci ho pensato spesso e ci tengo davvero molto, sarà perché manca ancora un po' di tempo e non ho la certezza di esserci, ma ad oggi mi sembra ancora qualcosa di irreale, di troppo bello per essere vero e non voglio illudermi». Le parole tornano a fluire libere quando si parla di orgoglio e questa ragazza, timida, che ancora abbassa lo sguardo quando ti incrocia, alza quasi spontaneamente il tono della voce, quasi a sottolineare il valore di ciò che è avvenuto. «Il ciclismo non è come l'atletica. Noi non qualifichiamo le singole atlete, noi qualifichiamo la nazione. È una responsabilità: quando ti avvii alle qualificazioni il problema non è se Elisa Balsamo parteciperà a quella manifestazione specifica, il problema è se l'Italia lo farà. Fa un poco paura, non lo nego».


Accanto a Elisa, su un tavolino, c'è un fumetto, Diabolik. Ci racconta che in realtà non è appassionata di fumetti, ma questo è un caso particolare. «Da bambina, nonno aveva sempre in casa diverse copie di Diabolik. Io amavo già leggere, così lo prendevo e lo sfogliavo. Non ho mai letto Topolino, per esempio. Però, appena capito in una stazione o in un'edicola e trovo Diabolik lo compro. Prima di arrivare a Montichiari ne ho comprate tre copie e ora mi manca solo questa da ultimare». L'altro volto dell'introversione, quello che ama il racconto, scritto se possibile perché la carta fa sentire sicuri. Balsamo spiega che un domani vorrebbe diventare giornalista, ancora prima però vorrebbe scrivere un libro e a questo pensa da quando era bambina. «Credo sia importante raccontare ciò che ci succede. Non possiamo sapere cosa stanno vivendo le altre persone, magari la tua storia le aiuta ad oltrepassare un momento difficile. Cerco spesso libri che raccontino storie vere, perché, alla fine, diventano il tuo esempio e ti fai forte ricordandoti ciò che hai letto. Sì, bisogna raccontare e prendersi tutto lo spazio che serve».

Non occorrono domande, perché è lei stessa ad aggiungere una parte di quella storia che tanto vuole raccontare. «Sono una perfezionista, ma, nonostante questo, non sono quasi mai contenta di me. Sarà un fatto caratteriale. Io dico sempre che la componente più importante del ciclismo sono le compagne e non è retorica. Per come sono fatta, senza loro al mio fianco, probabilmente avrei già smesso. Di sicuro non avrei ottenuto tutti i risultati di cui parliamo. Sento la necessità di qualcuno che mi sproni, che mi faccia capire che devo crederci, che quello che immagino può succedere». Così è accaduto al mondiale su pista, nel 2019, quando Balsamo non è stata all'altezza dell'atleta che avrebbe voluto essere. «Avevo sbagliato preparazione e sono arrivata stanca, così ho fallito l'obiettivo. Io penso molto, rimugino molto e quella delusione mi ha lasciato a terra per settimane. Poi è tornato l'entusiasmo, è tornata la voglia di provarci».
Elisa Balsamo racconta che in gara cerca spesso con lo sguardo Chiara Consonni. «Ci conosciamo da tanti anni e siamo completamente diverse ma c'è una chimica particolare fra noi. In corsa ci capiamo alla perfezione, siamo sintonizzate. Quando sono io a vincere, le prime braccia ad alzarsi al cielo sono le sue, poco dietro di me. Succede dai mondiali di Doha».

Per raccontarci meglio la corsa in pista, Balsamo ci mostra i suoi scarpini. «Vedi? Nelle discipline di gruppo, quando osservi le scarpe a fine corsa le vedi striate, sfrisate. È il contatto fra noi a renderle così. L'adrenalina non te ne fa rendere conto ma sfiori ogni manubrio. Molti mi chiedono se non mi fa paura l'idea di essere senza freni. Bene, se avessimo freni ci faremmo molto male perché ad ogni contatto l'istinto sarebbe quello di frenare. Invece sappiamo che per accelerare si scende nel lato basso dell'anello e per frenare si sale».

Sostiene che la nostra nazionale ha come punto a proprio vantaggio il fatto di praticare anche strada perché molti meccanismi si ereditano da lì. «Non a caso facciamo molto bene nell'omnium da quando non ci sono più prove individuali. Credo ci sia da lavorare sul quartetto e sulla madison. In quest'ultima serve molto la tecnica oltre alle gambe e questa si acquisisce col tempo. Un buono spunto può venire dalle atlete inglesi che sono molto brave in questo campo».

In fondo, Elisa Balsamo si sente sicura in ogni velodromo e trova la forza per fare anche ciò che, per insicurezza o timore, non farebbe nella vita di tutti i giorni. Questo è il suo segreto. «La prima volta che sono stata in un velodromo a Torino, dimenticandomi di non avere i freni, sono caduta, una brutta caduta. Mi faceva male dappertutto, ma sai qual è la prima cosa che ho fatto? Mi sono sistemata in fretta perché dopo pochi minuti sarebbe partita un'altra gara e non potevo perdermela nonostante tutte le sbucciature. Ci ho pensato parecchio e ho capito che, nonostante tutto, io sono proprio quella ragazza lì».

Foto: Paolo Penni Martelli


Jasper Stuyven lo sa molto bene

A pochi passi dal Castello Sforzesco, un anziano signore si sistema il borsalino sul capo e rivolgendosi ad una donna che lo osserva commenta: «Non avrei nemmeno voluto metterlo, ma mia moglie ha insistito tanto. “Copriti bene che fa freddo!”. Sarà perché divento vecchio».

L'alba sorprende Milano spolverata da un leggero velo di brina e l'aria frizzante del primo mattino consiglia prudenza. Ai bus delle squadre si riempiono le borracce con del tè caldo. Dopo la partenza della gara, su una borraccia abbandonata si fionderà un distinto cinquantenne ma non la raccoglierà, intenerito dallo sguardo di un ragazzo ad osservarlo. Ci dirà: «Era bella, peccato. Non potevo portargliela via, non me la sentivo. Del resto, sai quante ne ho a casa di quando venivo a vedere la partenza della Milano-Sanremo da scolaro?».

Pochi metri più in là, Mathieu van der Poel sostiene che la gara oggi si deciderà sulla Cipressa, Wout van Aert, invece, parla del Poggio. Più cauto è Julian Alaphilippe che invita tutti alla tranquillità: «Abbiamo davanti trecento chilometri, non facciamoci prendere dalla frenesia. La fretta è cattiva consigliera». Ognuno racconta una storia diversa, qualcuno mente sapendo di mentire, altri non sanno davvero cosa aspettarsi, perché una corsa come la Sanremo è davvero imprevedibile.

Vincenzo Nibali allarga le braccia e sorride quando gli chiedono quanto senta la pressione. «Si sente, certo. Ma d'altra parte è così: alla Sanremo non vai per godertela, vai per fare la corsa».
Non serve raccontarlo agli otto uomini che, per citare Gianni Mura, vanno “alla ventura”, che è avventura e sventura, spesso entrambe le cose, legate da un filo sottilissimo. Tra di loro Charles Planet e Andrea Peron, del Team Novo Nordisk, hanno una motivazione particolare per fare fatica e un passato da conoscere. La maglia della squadra ricorda i cent'anni dalla scoperta dell'insulina per la cura del diabete, Andrea Peron sa qualcosa in più: «Ho scoperto di essere diabetico a sedici anni, l'ultimo anno da dilettante ho vinto diverse corse, alcuni mi hanno comunque sbattuto la porta in faccia. Si tratta di ignoranza e pregiudizio. Il ciclismo mi ha fatto bene, mi ha tenuto fuori dai guai che, volente o nolente, da ragazzo puoi ritrovarti addosso».

Arrivando all'Aurelia sembra di precipitare in un varco temporale. Tutto è più veloce, cambia il paesaggio, si intravede il mare, variano le intenzioni. Alessandro Tonelli prova a dare nuova linfa a una fuga senza più respiro. I tre capi e l'imbocco della Cipressa saranno una campana a morto per ogni speranza in via Roma. L'attesa è un battito che cresce. Le pedalate della Jumbo Visma e della Ineos sulla Cipressa sono aghi conficcati nei muscoli già rigonfi di acido lattico di chi annaspa in coda al gruppo. Un elastico che si allunga, si accorcia e poi si strappa. Mathieu van der Poel è nel punto di rottura dell'elastico, oltre la metà del Poggio, quando lo coglie la coda dell'occhio di Julian Alaphilippe. Scatta così l'iridato, denti digrignati e massimo sforzo spingendo sui pedali, Wout van Aert è la sua ombra. Van der Poel scatta dalla pancia del gruppetto di testa, teso, deciso, convinto, quasi a voler cancellare un ricordo, quello di pochi giorni fa, quando, in Toscana, proprio Alaphilippe lo sorprese e lo beffò mentre era troppo indietro per lanciare la volata.

Davanti accelerano, si guardano, notano che Caleb Ewan è ancora lì. Qualcuno pensava che il malessere alla Tirreno-Adriatico potesse essergli restato sulle gambe e, a vederlo, inizia ad interrogarsi: in una situazione simile è il favorito. I grandi attesi della mattinata di Milano iniziano a pesare ogni mossa, non si è riusciti a fare la differenza prima, azzardare adesso è troppo rischioso. C'è troppo da perdere.

È in quell’istante che alla mente di Jasper Stuyven si affaccia un pensiero: «Tutto o niente». Stuyven che era un bel nome, ma non certo uno dei favoriti. Stuyven che non era marcato perché “ci sono van Aert e van der Poel”. Stuyven che è scattato e non lo hanno più rivisto sin dopo il traguardo. Anzi, ancora peggio. Lo hanno visto sino all'ultimo, a ruota di Kragh Andersen, sempre troppo lontano per richiudere.

Il belga è una sorta di illusione, uno specchio pronto ad andare in frantumi. Anche quando il gruppo di biciclette dietro di lui si imbizzarisce, proprio sulla spinta di Caleb Ewan che ha lanciato la volata degli sconfitti.

Alla fine non ci sarà nemmeno un secondo di distacco tra Stuyven , Ewan e van Aert. Avrebbe potuto essere una volata di gruppo, non lo è stata. Caleb Ewan dirà che non avrebbe potuto fare diversamente, che solo quello era l'attimo perfetto per sprintare.

La sconfitta brucia, come la gola in cui si getta acqua spremendo la borraccia quasi a spegnere un fuoco. Puoi raccontarti qualunque storia, ma c'è sempre quella voce a sussurrarti ciò che avrebbe potuto essere, ciò che avresti potuto fare e quella non riesci mai a zittirla. Van der Poel lo ammetterà: «Siamo partiti troppo tardi per controllarci». Controllarsi, in fondo, vuol dire soppesare il “tutto” ed il “niente” e vedere l'abisso che c'è tra l'uno e l'altro. Per questo non scatti, perché il niente ti spaventa. Così si resta a mani vuote, perché quando aspetti, in fondo, sei sempre a mani vuote, il resto è speranza. Jasper Stuyven lo sa molto bene, molto meglio di altri, per questo è scattato. Per questo ha vinto.

Foto: Tommaso Pelagalli/BettiniPhoto©2021


Racconti dai due mari

Per raccontare questa Tirreno-Adriatico partiamo dalla reception di un albergo di Terni che ci ha accolto sotto un diluvio torrenziale, venerdì sera. Un signore sulla cinquantina, mentre registrava i nostri documenti, guardandoci ci ha chiesto: «Non mi raccontate nulla della corsa?».
Ci è sembrato bello perché ha tradito quella voglia che tutti abbiamo di ritornare in strada, accovacciati sul bordo di un marciapiede a vedere il passaggio del gruppo. Quella stessa voglia che si è palesata in ogni angolo delle strade che da Monticiano conducevano a Gualdo Tadino, dove gli abitanti delle case vicine si posizionavano distanziati ad aspettare di sentire il suono della corsa proveniente dai margini di quei borghi per tirare fuori cartelli e scritte. Poche persone che interrompevano il silenzio assordante delle strade.

In uno di questi angoli c'era Loredana, una maestra di scuola elementare, che in questi giorni vive la realtà della didattica a distanza. Una di quelle maestre che portavano i propri alunni a vedere il Giro d'Italia. Loredana ci ha raccontato che quei bambini, il giorno prima della gara, le chiedevano sempre cosa sarebbe accaduto, quanti ciclisti sarebbe transitati e quante macchine a suonare il clacson per farsi strada. «Portare un bambino a vedere una gara di ciclismo è un modo per insegnargli la pazienza dell'attesa, la fatica che si fa arrampicandosi su una salita o camminando al sole per ore godendo della bellezza di una scia lasciata da una bici».
Forse andare a vedere una corsa ciclistica di questi tempi è anche un buon modo per ricordarsi di tante cose che ormai davamo per scontate. Di più: è un antidoto contro la dimenticanza. Lo sa quella manciata di persone che a Prati di Tivo ha applaudito l'ultimo gruppo dei ritardatari e lo ha fatto con naturalezza, battendo le mani più forte per compensare il fatto di essere pochi. Quel giorno abbiamo tirato un sospiro di sollievo perché abbiamo avuto la certezza di non esserci dimenticati momenti che non vivevamo da troppo tempo.
Quel ragazzo che è entrato in una rosticceria all'arrivo di Castelfidardo e, assieme agli arancini, si è fatto dare un foglio e un pennarello, probabilmente nemmeno sapeva cosa stava accadendo quel giorno, ma sentiva che c'era qualcosa di diverso. Per questo ci ha chiesto chi stesse vincendo e con calligrafia incerta ha scritto: “Grazie van der Poel”. Quel foglio è durato meno di dieci minuti, appoggiato a una transenna con una bruma quasi invernale a dissolvere l'inchiostro. Ma non conta. L'importante è che abbia sentito la voglia di dire grazie e lo abbia fatto così, in modo spartano, ruvido, ma vero.
Ognuno ha qualcosa da dire o da dimenticare all'arrivo di una corsa ciclistica. Lorenzo, ad esempio, a Chiusdino, ci ha detto che quello era l'istante in cui stava meglio da diversi giorni. «Sul lavoro ci sono sempre problemi, cose che non vanno, ansia e nervosismo. Certe mattine non hai proprio alcuna voglia di andare in ufficio. Sapere che ti attende un pomeriggio come questo è un buon modo per affrontare i problemi con serenità, perché quando uscirai vedrai van der Poel,  van Aert, Nibali e tanti altri campioni sfilare proprio sotto il tuo naso». È stato proprio lui a mandarci un messaggio il giorno seguente. «Che regalo mi ha fatto Alaphilippe, vincendo qui».
Noi lo immaginavamo perché Lorenzo racconta quella terra con una dedizione tale che ogni storia che accade su quelle strade è una storia che sente sua, come le mura di una casa. Sentirselo dire, però, è sempre bello.
E ancora ci piace raccontarvi di Vincenzo Nibali e di quel «una mattina ti svegli e qualcuno va più veloce di te» detto tra il rassegnato e l'amareggiato a Gualdo Tadino, delle volte in cui l'abbiamo visto scuotere la testa, come a dire «cosa posso fare?», ma anche dell'ultima risposta a San Benedetto del Tronto, quando, pensando alla Sanremo, ha esclamato: «Ci sono tante chiavi per vincerla, cercheremo quella giusta». Che è come tornare a crederci, come avere meno freddo. Di Wout van Aert che ha già detto che tornerà per vincere la Corsa dei Due Mari, ora però vuole pensare al mar ligure, quello che lo attende sabato. Oppure di Mathieu van der Poel che dopo essersi messo a disposizione di Tim Merlier, umilmente, mentre il compagno lo guardava con ammirazione alla partenza di Lido di Camaiore, non ha digerito la sconfitta patita a vantaggio di Julian Alaphilippe. Quel giorno ha tirato un pugno al manubrio, il giorno dopo ha messo quella stessa mano sul petto e ai giornalisti ha detto: «Ci penso io». E via, lungo tante altre parole.
La chiusura di questo pezzo, invece, vogliamo lasciarla a una sola frase detta, perché spesso per dire tanto, basta veramente poco. Così ha fatto Peter Sagan quando gli hanno chiesto se credesse di potersela ancora giocare con i “giovani terribili” del ciclismo. Sguardo fisso, sorriso accennato e un'espressione: «Tu pensi di no?». Che è una domanda, ma anche una risposta. Come le tante che abbiamo trovato sulla strada.

Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021


Il nuovo futuro di Martí Vigo

Quando Martí Vigo del Arco ha scoperto la bicicletta, la immaginava solo come un mezzo per evadere. «Era un periodo davvero difficile. Improvvisamente avevo iniziato a non ottenere più alcun risultato nello sci di fondo, mi sentivo sempre stanco, non riuscivo più a fare cose che fino qualche tempo prima erano la normalità. Esami su esami per cercare di comprendere la causa senza nessuna risposta. Iniziavo a non capire più nulla, ero confuso. Intanto cominciava anche a scarseggiare il denaro, perché in Spagna non eravamo benestanti. Poi ho scoperto di avere la mononucleosi».

Quella risposta tanto cercata, è sembrata quasi una beffa, perché, quando l'ha saputa, Vigo non ha provato sollievo ma ulteriore frustrazione. «Dovevo curarmi, ma avevo bisogno di allenarmi per tornare a vincere e a guadagnare. In più c'era l'università da finire e in quel periodo non avevo proprio la testa per mettermi sui libri». La bicicletta è stata il pretesto per provare a svicolare, per qualche ora, da quel groviglio di problemi in cui si era trovato.

«Almeno in quegli istanti cercavo di non pensare. Non era molto tempo da quando era mancato mio padre. Lui era fiero di me, sin da bambino mi aveva detto di pormi un traguardo e cercare di raggiungerlo perché è questo il senso dell'essere uomini. Ero quasi convinto di esserci riuscito con lo sci, ero arrivato alle Olimpiadi e mi ero tatuato i cinque cerchi per ricordarmi cos'era accaduto. Ora tutto sembrava cadere, come un castello di carta». Quando Vigo si accorge che ormai la sua mente non riesce più a vivere in maniera serena il suo sport, stacca la spina e pensa di inventarsi una nuova vita. «Alla fine - spiega - mi sono detto che ero già partito una volta da zero e ce l'avevo fatta, perché non dovevo darmi una seconda possibilità, perché continuare a soffrire a vuoto? La sofferenza ha un senso se ti permette di cambiare qualcosa».

Martí Vigo fa un test con Patxi Vila per correre in Movistar, poi incontra Maurizio Fondriest e da lì nasce l'idea Androni Giocattoli Sidermec. «Del ciclismo mi piacciono le giornate fuori con gli amici, dal mattino alla sera. A pedalare senza un motivo, solo perché ti senti meglio in sella che a casa. Certo, se diventa un lavoro le cose cambiano, ma di base il ciclismo è questo». Ricorda bene quando vedeva le gare in televisione e immaginava di essere in maglia rossa alla Vuelta perché «tutti i bambini che sognano di fare i calciatori si immaginano di vincere un mondiale, tutti quelli che sognano di fare i ciclisti vorrebbero vincere la corsa a tappe del loro paese».

Dallo sci al ciclismo sono cambiate molte cose, ma Vigo non ne è quasi mai stato spaventato, anche di fronte agli errori. «Se non sbagli, non impari e all'inizio si sbaglia sempre molto. Io per esempio non sapevo stare in gruppo ma era normale, non lo avevo mai fatto. Pesavo otto chili in più ed avevo un'alimentazione scorretta, perché per sciare si guarda la potenza non tanto il peso. Forse dietro il mio infortunio alla mano, quando sono caduto, c'è anche questa perdita di peso repentina». Vigo si trova a proprio agio quando la strada sale e forse in questo c'è qualche ricordo della montagna, di cui però ammette che non gli mancherà il freddo. «Al freddo mi sono abituato, ma, per quanto possa sembrare paradossale per un ex sciatore, a me piace il caldo».

In questi giorni sta provando la posizione sulla bicicletta da cronometro. «Molti mi dicono che per me dovrebbe essere naturale, perché anche nello sci si gareggia sui tempi. In realtà è molto diverso. La posizione aerodinamica che dobbiamo tenere in sella durante la cronometro è molto dolorosa, se non sei abituato. Ad un certo punto iniziano a tirarti tutti i muscoli e non sai più da che parte girarti». In Androni, Martí Vigo ha incontrato Eduardo Sepúlveda: «Condividiamo la lingua e posso assicurarti che non è poco. Quando arrivi in un ambiente nuovo, sapere che c'è qualcuno che capisce esattamente cosa vuoi dire è tranquillizzante. Si può tradurre, ma non è lo stesso».

Vigo è un ragazzo curioso, come chi vuole capire ed imparare. Per questo ogni meccanismo del proprio corpo lo affascina e, se ci pensa, sa già cosa farà un domani, quando scenderà di sella. «Continuerò a studiare fisioterapia e aprirò uno studio, per aiutare altre persone a conoscere il proprio corpo e a viverlo al meglio. Del resto, prima la mia passione era il ciclismo, ora, che è diventato il mio lavoro, sento il bisogno di qualcosa da tenere lì, a portata di mano, per alleggerire i momenti in cui sarò stanco o deluso. Pensare al futuro è una bella possibilità».

Foto: Luigi Sestili