Nei panni dell'altro: intervista a Davide Arzeni

Davide Arzeni, direttore sportivo della Valcar–Travel & Service, è per tutti, semplicemente, "Capo". Un soprannome nato una sera di undici anni fa, a Udine, in una colonia gestita da Daniele Pontoni, in un ritiro di ciclocross. Fu Rebecca Gariboldi a dirgli: «Tu sei “Capo”» e da quel giorno Arzeni quel soprannome non se l'è più tolto.

Quando era ancora ragazzo, a Ispra, luogo in cui è nato e cresciuto, Arzeni andava dallo zio, Giancarlo Bassani, alto dirigente della Federazione Ciclistica e del CONI e, forte della sua passione per il ciclismo, gli chiedeva di aiutarlo ad entrare in quel mondo. «Sarebbe bastato poco, una parola al posto giusto con la persona giusta, ma mio zio era e resta un uomo di altri tempi. Uno di quelli che di raccomandazioni non ha mai voluto sentir parlare. Mi diceva: “Devi arrangiarti da solo. I successi si devono guadagnare, nessuno te li regala, nemmeno io”». Arzeni è cresciuto così ed è partito dal basso, dagli esordienti nel 1999, prima teneva in mano un cronometro e prendeva i tempi durante i test medici. «All'inizio non volevo ascoltare ciò che mi diceva mio zio. La verità è che aveva ragione su tutto. Quando vinci le tue prime gare ti senti un fenomeno e pensi di essere già arrivato. Facevo male questo lavoro: se avevo un ragazzo che vinceva due gare, credevo di aver scoperto il campione. Tendevo a giustificarlo su tutto ed a caricarlo di pressioni. Ero io stesso a danneggiarlo, involontariamente. Bisogna restare con i piedi per terra, soprattutto da giovani, altrimenti è la fine. Oggi zio ha ottant'anni, ma qualche consiglio glielo chiedo ancora».

Arzeni non è solo un direttore sportivo, è anche un preparatore e lavora con ragazzi e ragazze. «Le cose da dire, spesso, sono le stesse. Devono cambiare i modi. Quando comunichi non conta solo ciò che dici, conta soprattutto il modo in cui viene recepito. Le ragazze hanno un'altra sensibilità e devi tenerne conto. Io non ho una tattica nel parlare con loro, mi viene naturale perché nel tempo ho fatto mio quel modo di pensare e di sentire». Per questo, Davide Arzeni fa una differenziazione. Se nell'ambito maschile, alcuni suoi colleghi, respingono ogni amicizia con gli atleti, lui ritiene che nel femminile una parte di amicizia, di confidenza, sia imprescindibile. «Essere amici non significa non farsi rispettare. Ci può essere amicizia ed anche rispetto. La prima ti aiuta a capire, il secondo a tenere distinti i ruoli. Le ragazze hanno bisogno di qualcuno che le ascolti, che capisca i piccoli o grandi problemi della loro età, che si immedesimi. Se non provi a metterti dalla loro parte, non ci riuscirai mai e continuerai a vedere le cose a modo tuo. Non capirai e non verrai capito. Molte volte basta chiedere cosa c'è che non va. Solo quello». Forse per questo Chiara Consonni di lui dice che è un secondo papà. «Vedi? Con un padre c'è confidenza, può anche esserci amicizia, ma il rispetto non manca. Se devo escludere una di queste atlete da una prova, lo faccio lo stesso. Non è quella familiarità a frenarmi. Quella familiarità, però, fa in modo che si viva meglio il prima ed il dopo».

C'è l'approccio di gruppo e l'approccio individuale. «Alcune ragazze sono poli opposti pur avendo quasi la stessa età. Tu devi tornare a quell'età e capire cosa  vogliono, di cosa si preoccupano o di cosa hanno paura. Tenendo presente il loro carattere e non dando nulla per scontato. Accettando anche che qualcuna non voglia aprirsi e resti più distaccata, non c'è nulla di male». Sensibilità che non è debolezza, che nulla toglie a grinta e coraggio. «Queste sono atlete toste. Allo Scheldeprijs, aveva nevicato il giorno prima e quella mattina erano previsti cinque gradi sotto zero. Non c'è stata una ragazza che ha pensato di non partire o di protestare».

L'altra chiave, per Arzeni, è il tempo. «Certe volte ripenso alle prime gare in Belgio. Le trasferte sono costose e le prime volte fatichi anche ad ottenere i rimborsi. Talvolta non li ottieni proprio. Succede come con la scuola, prima di far bene all'università, devi far bene al liceo. Noi abbiamo avuto il coraggio di portare questo gruppo in Belgio, già cinque o sei anni fa. Con il tempo e la pazienza siamo migliorati ed ora stiamo raccogliendo i risultati. Oggi si può dire con certezza: questo è un gruppo di valore. Verrà anche il giorno della laurea. Ne sono certo».

Arzeni ha anche una figlia di diciannove anni. «Non è stato il fatto di essere padre ad aiutarmi a fare questo lavoro, bensì è stato questo lavoro ad aiutarmi ad essere padre. Mia figlia non mi ha parlato di alcune cose di cui invece le atlete mi parlano. Si sa, con un padre c'è un poco di ritrosia, di vergogna. Così, volendo capire ho iniziato a chiedere alle atlete, a farmi aiutare da loro. E quello che non chiedevo provavo ad assorbirlo vedendo il loro comportamento. Dalla scelta del regalo di compleanno a scelte e temi più complessi».

Ma quali sono le differenze tra il ruolo di preparatore e di direttore sportivo e quale ruolo Arzeni sente più suo? «Credo il punto sia diverso. Sono entrambi ruoli complessi ma soprattutto è difficile svolgerli contemporaneamente e con le stesse atlete. Oggi ancor di più, visto che i compiti di un direttore sportivo non si limitano alla gara ma coinvolgono anche l'organizzazione. Per riuscirci devi lavorare con persone che si fidano ciecamente di te. Dovessi scegliere, credo sceglierei il ruolo di direttore sportivo, restando preparatore di poche ragazze. Se in Valcar arriva un'atleta che ha già un buon professionista a cui affidarsi, per me va bene. A patto che ci sia un confronto fra me e questo preparatore». Il motivo è presto detto ed ha radici profonde. «Quando si vince, per l'opinione pubblica i meriti sono sempre del direttore sportivo. Quando si perde, invece, le colpe sono del preparatore. Non so il perché, ma è sempre stato così. In realtà la linea di demarcazione non è così netta e bisognerebbe ripartire meglio colpe e meriti».

Foto: Flaviano Ossola, per gentile concessione dell'ufficio stampa Valcar-Travel&Service


In una fotografia: intervista a Chiara Redaschi

Quando Chiara Redaschi parla del suo lavoro, la fotografia, il primo concetto che spiega è relativo all'improvvisazione. «Noi raccontiamo una storia attraverso un'immagine. La particolarità delle storie è il fatto che, sino a quando non ti passano davanti, non puoi conoscerle. Non puoi sapere cosa racconterai quel giorno, perché non puoi sapere cosa accadrà. Se è il tuo lavoro, tuttavia, sai che qualcosa dovrai raccontare. Al mattino te lo chiedi: “Chissà come andrà oggi”. La paura che possa non andare come vorresti diventa una tua compagna». Lei, con quel timore, ha imparato a convivere sin da giovanissima, quando si occupava di fotografia di strada nell'ambito della moda. «Ricordo che mi mettevo in un posto, ci ripensavo e mi spostavo. Ripetutamente. In strada ti guida solo l'istinto. Se, per caso, rivedendo le foto non mi piacevano, iniziavo a dirmi che forse non ero capace, che avevo sbagliato. Continuavo a ripensarci. Volevo solo essere lì a fotografare, solo che quella stretta allo stomaco mi faceva venir voglia di tornare a casa. Mi succede ancora oggi. Accade così con le cose che desideri, sbaglio?».

In fondo, spiega Chiara, è normale. «Ognuno di noi ritiene importantissimo ciò che fa ed è giusto così, perché è uno stimolo a migliorare, a fare bene. Però serve anche la reale consapevolezza della grandezza delle cose. Non stiamo salvando vite, stiamo raccontando storie. Può capitare di non essere al massimo, di voler buttare tutto all'aria. Certe giornate non ingranano, non puoi farci nulla. Devi darti quel permesso e perdonarti». Per Redaschi, la fotografia ha cambiato forma e sostanza nel tempo, perché il tempo ha cambiato i motivi per cui fotografare. «Ho iniziato a fotografare perché lavoravo in un ufficio di comunicazione ed era una competenza necessaria. Non ne ero entusiasta all'inizio. Dovevo farlo e lo facevo. La sera, invece, andavo con amici a vedere le gare di scatto fisso al Parco Lambro. Era in pieno inverno e faceva un freddo assurdo. Comprarmi una macchina fotografica è stato un modo per impegnare quelle serate e sentire meno freddo». Nessuno lo direbbe, ma è quello il momento in cui per Chiara Redaschi cambia tutto. «Ho scoperto che in realtà fotografare mi piaceva e mi veniva abbastanza naturale. Il mio è stato un percorso veloce. Nel giro di un anno sono arrivata a fotografare nel professionismo e poco dopo a seguire una tappa del Giro d'Italia in moto. Senza aver mai studiato fotografia, imparando sul campo».

Quel giorno, Chiara non lo scorderà mai. «Era il 2018, la tappa con arrivo al Lago di Iseo. Ero in moto con Francesco, un signore toscano. Guardavo il gruppo che mi passava accanto e mi sembrava quasi di poterlo toccare. In alcuni momenti ridevo, in altri piangevo. Credo lì sia racchiusa la mia indole: sono un'insicura estremamente testarda. Quando mi succede qualcosa di bello, non voglio crederci. Ma non c'è un minuto in cui non lotti con tutta me stessa per quell'istante. Non sento la fatica, non sento lo sforzo». Ed è questa sua insicurezza che la porta a ricercare i motivi per cui ha scelto questa strada. «Quando fai qualcosa, devi chiederti il motivo ed io mi sono chiesta più volte perché abbia deciso di proseguire questa strada. La risposta è semplice: mi piace vedere le persone che si emozionano, mi fa stare bene. La fotografia è un modo come un altro per far sentire qualcosa e ciò che senti non ha nulla a che vedere con la tecnica. Ha a che vedere con ciò che hai vissuto tu e con ciò che ha vissuto chi ti guarda. Una foto tecnicamente perfetta è bella, ma ti lascia qualcosa? Si fa ricordare? A me piace chi si fa ricordare».

Il prezzo da pagare è l'attesa. «Attendere per cinque minuti l'arrivo del gruppo o della fuga, è un tempo infinito. Tu sei lì, ti guardi attorno e cerchi di costruire ciò che vorrai vedere dall'obiettivo della macchina. La verità è che spesso ciò che hai immaginato non si concretizza, anche perché i tuoi occhi sono una cosa, quella lente di vetro un'altra. Coglie ogni piccola sfumatura e basta poco per rovinare tutto. In una foto entra un piccolo pezzo di mondo e saper scegliere cosa mostrare e come farlo è essenziale». Già, perché poi non sai mai dove si poserà l'attenzione delle persone. «Può accadere che di uno scatto ti lasci qualcosa un singolo particolare. Va bene così ed è importante che quel particolare ci sia. Certe volte è qualcosa che tu non avevi nemmeno visto, qualcosa a cui non avevi fatto caso. Il nostro vissuto ci influenza ed è per questo che della realtà cogliamo aspetti diversi. Questo è il bello della fotografia. La foto è la stessa, ma ciascuno vede una cosa diversa. Ciò che vedi coincide in parte con ciò che sei ed in parte con ciò che vivi. La fotografia ci permette di lasciar uscire queste cose, spesso nascoste in noi».

Proprio questa molteplicità nella fotografia permette di scoprire ed appassionarsi ad ambienti che non avevamo mai considerato. «Tempo fa, mia madre mi ringraziò perché avevo scelto di fotografare il ciclismo. Non capii subito. Per lei era un modo per dirmi che grazie a quelle fotografie aveva scoperto qualcosa che prima ignorava. È mia madre e probabilmente avrebbe apprezzato qualunque cosa facessi. Però mi piace pensare che quelle parole fossero sincere e che ciò che facciamo abbia davvero questo potere». Per questo, racconta Chiara, vale la pena di correre qualche rischio.

«Anche con questo impari a fare i conti col tempo. Preferisco non avere alcuna foto, piuttosto che avere una fotografia uguale a quella di tutti gli altri. Penso che la possibilità di essere nella bolgia che tendenzialmente si crea dopo il traguardo vada sfruttata al meglio. Per me sfruttarla al meglio significa mostrare ciò che gli altri non possono vedere. Essere i loro occhi». Quella bolgia che, in tempi di Covid, si fatica anche ad immaginare. «Quando mi sono ritrovata sul Poggio, a Sanremo, da sola, nel silenzio, ho provato una malinconia, una forma di angoscia. Avevo trovato l'angolo giusto e la luce perfetta, ma mancava tutto il resto. Le persone che troviamo ai bordi della strada sono una parte essenziale di questo lavoro, senza di loro anche fotografare diventa difficile. Il ciclismo è sempre stata la mia festa preferita e non avrei mai pensato che si potesse arrivare a questa situazione. Dobbiamo adeguarci ed avere pazienza, le cose torneranno come prima». C'è qualcosa che si può fare nel frattempo, con o senza macchina fotografica, e Chiara Redaschi lo sa bene. «Alla fine noi poniamo attenzione a determinati aspetti piuttosto che ad altri per una questioni di abitudine. Questo è il momento per aggrapparci a ciò che ci resta e tenerlo stretto. Per comprendere ciò che non avevamo mai compreso».


Divieto di lanciare borracce a bordo strada? La parola agli atleti

La chiave della discussione si rintraccia nel nuovo regolamento UCI, entrato in vigore il primo aprile, agli articoli 2.2.025 e 2.3.025. La norma è chiara: «Gettare borracce o rifiuti al di fuori delle zone verdi contrassegnate danneggia l'ambiente e l'immagine del nostro sport. Inoltre è un cattivo esempio per i non professionisti». Così la federazione internazionale ha provveduto a identificare apposite sanzioni per i trasgressori. Nelle gare di un giorno il corridore verrà multato, squalificato dalla gara in corso e subirà una penalizzazione in termini di punti . Nelle corse a tappe saranno possibili tre richiami: al primo si applicherà la multa e la penalizzazione in chiave punti valevoli per il ranking UCI oltre a trenta secondi di penalità, al secondo la penalità passerà a due minuti e si sommerà alla multa e ai punti di penalizzazione. Al terzo scatterà la squalifica immediata dalla corsa.

Se nei giorni precedenti la regola aveva fatto parlare, la vera e propria discussione è iniziata dopo il Giro delle Fiandre di domenica 4 aprile, dove a fare le spese del regolamento sono stati Michael Schär, nella prova maschile, e Letizia Borghesi in quella femminile. Raggiunta telefonicamente nel pomeriggio di ieri, Alessandra Cappellotto, coordinatrice di Cpa Women e vice presidente di Accpi, ci ha spiegato il processo di ideazione della norma: «Fino all'ultima riunione in Uci la norma era differente. Si scriveva che le borracce non potevano essere lanciate, ma potevano essere accompagnate verso i tifosi. I rappresentanti degli atleti conoscevano questa versione. Nell'ultima riunione, in cui gli atleti non erano però presenti, sono emerse queste novità, tra cui le multe e le squalifiche. Noi non siamo assolutamente d'accordo e abbiamo chiesto un ulteriore incontro all'UCI per discutere di questo specifico argomento, con anche i rappresentanti dei team maschili e femminili. Il 6 aprile ci siamo confrontati con le atlete e abbiamo ascoltato le loro idee. C'è una forte sensibilità da parte di tutti al discorso ecologico, al discorso della sicurezza nel passaggio della borraccia e anche alla tematica Covid che si innesta su questo argomento. La volontà è quella di rendere possibile almeno l'accompagnamento della borraccia o la donazione della stessa ai tifosi, in salita, in curva o nei momenti di rallentamento. Sarebbe un buon compromesso».

Michael Schär, nei giorni scorsi, ha spiegato come il suo inizio nel ciclismo sia coinciso proprio con il ricevimento di una borraccia da parte di un professionista al Tour de France 1986. «Due anni fa ho dato una borraccia a una ragazza a bordo strada. I suoi genitori mi hanno detto che non solo ne è stata felice, ma parla ancora di quella borraccia» prosegue lo svizzero dell'Ag2r Citroen. Letizia Borghesi (Aromitalia Vaiano), ci ha spiegato: «Appena ho buttato quasi istintivamente quella borraccia, mi si è avvicinato il giudice di gara e mi ha trattato come se avessi compiuto chissà quale gesto. Ho sbagliato, conoscevo il regolamento e l'ho violato, ma credo che i modi siano sempre importanti. Vedo manovre ben più pericolose in gruppo per cui nessuno interviene. A trenta chilometri dall'arrivo di un Fiandre la lucidità cala e per noi il gesto di gettare la borraccia è quasi automatico». C'è delusione nelle parole dell'atleta trentina: «Avrei voluto tornare in quel luogo qualche minuto dopo, per vedere se la mia borraccia fosse ancora lì. Sono convinta di no. Sono la prima a tenere all'ambiente ma questo regolamento è da rivedere, perché non migliora la situazione. Nelle zone verdi le atlete gettano di tutto: carte, gel e molte borracce che rotolando rischiano di finire in mezzo al gruppo e causare incidenti. E se a un atleta cadesse una borraccia? Sarebbe squalificato? Dobbiamo gareggiare con l'ansia della caduta di una borraccia? Vanno bene i richiami ma squalificare, multare e togliere punti Uci è francamente eccessivo».

Borghesi suggerisce di migliorare la composizione delle borracce in termini di biodegradabilità e di rendere possibile gettare la borraccia solo in zone con il pubblico presente. Le fa eco Giovanni Visconti: «Ci sono persone che transitano apposta sui percorsi per raccogliere le borracce. Perché non incaricare qualcuno di passare sul percorso a ripulirlo? Ci sono circostanze di gara in cui è quasi necessario liberarsi della borraccia, la zona verde dovrebbe essere estesa a quasi tutto il percorso. Prima delle squalifiche servirebbero i richiami e per quanto concerne le multe, non si possono dare sanzioni pecuniarie che in alcuni casi, purtroppo nel femminile, sono anche superiori allo stipendio». E per quanto riguarda la tematica Covid? «Nessun bambino beve dalle borracce che raccoglie e, sicuramente, arrivato a casa si lava le mani. Se andassi con mio figlio a una partita di calcio sarei solo contento se portasse a casa un pallone toccato dal suo idolo. Certo non glielo farei portare a tavola. Si tratta di buon senso». Visconti non accetta la polemica sul fatto che i corridori non siano adeguatamente avvisati. «Riceviamo mail al termine di ogni gara in cui ci chiedono di esporre la nostra posizione. Certo che se quelle mail non le leggiamo o non rispondiamo, diventa difficile ascoltarci. Quello che si può fare è migliorare il metodo di comunicazione in modo da arrivare a più corridori e da farlo direttamente».

Marta Cavalli (FDJ - Nouvelle Aquitaine - Futuroscope) ricorda quando era lei stessa ad andare a vedere le gare. «Essendo timida non ho mai avuto il coraggio di chiedere una borraccia, ma ammiravo i bambini che lo facevano. Come mi piaceva quando, nelle gare del nord, venivano molti ragazzini con un sacchetto e raccoglievano quanti più ricordi fosse possibile». E aggiunge: «Ben venga che l'UCI proponga regole per salvaguardare l'ambiente, così però è troppo. Purtroppo ho visto io stessa atleti e atlete che lanciano borracce a sessanta chilometri orari, senza far caso alla direzione presa dalle stesse. No, le borracce vanno fatte scivolare delicatamente ai piedi, nelle zone in cui il pubblico è presente, non serve arrivare a queste soluzioni per capirlo». Cavalli, inoltre, non è così sicura del fatto che le zone verdi siano un bene strutturate in questo modo. «Ti assicuro che quando il gruppo era appallato, volava di tutto. Persino le carte che tendenzialmente mettiamo sotto la maglia e gettiamo al traguardo. Siamo sicuri che l'organizzazione riesca a pulire tutto? Al Fiandre si trattava di ben otto zone. Io ho il timore che si aumenti l'inquinamento».

Diego Rosa (Arkéa Samsic) si aggancia a questo tema e prosegue: «Al Tour de France, lo scorso anno, eravamo ben organizzati con le zone verdi, ma si tratta del Tour. Nelle gare minori, a volte, si fatica a segnalare il Gpm, possiamo immaginarci come possa avvenire l'indicazione di tutte le zone. Succede sempre così: l'idea iniziale è corretta, poi si finisce per esasperarla. I corridori sono dotati di buon senso, si faccia leva su quello. Duole dirlo ma chi scrive queste regole non è mai stato in sella e non ha ben idea di ciò che avviene in gruppo. Non sa nemmeno cosa voglia dire portare le borracce ai compagni e tornare indietro con le borracce vuote».

Silvia Valsecchi della BePink, invece, concorda con la nuova norma. «Alcune atlete non si sforzano nemmeno di lanciare le borracce a bordo strada, le buttano in gruppo, senza guardare chi hanno dietro. Una volta mi sono permessa di dire a una ragazza di non gettare la borraccia vuota in una zona senza pubblico ma di tenerla in tasca. Sono stata presa a male parole. A parte il fatto che non è detto che il pubblico raccolga le nostre borracce, c'è una questione ambientale da tutelare. Sinceramente non capisco nemmeno la questione rifornimenti. Ho sempre preso le borracce per le mie compagne dall'auto e ho riportato quelle vuote. Come ho gettato le borracce utilizzate ai punti fissi, dove ho preso acqua. Ora in più c'è la questione Covid, che non mi sembra trascurabile». Valsecchi appunta: «Sono anni che si dice di non gettare nulla ma ognuno fa ciò che vuole. Ovviamente, ora che si parla di multe, molti si lamentano».

Cesare Benedetti (BORA-hansgrohe) in questi giorni, è in corsa al Giro dei Paesi Baschi: «Non sapete come è brutto passare indifferenti mentre i bambini gridano “por favor, un bottellìn”, sapendo che hai una borraccia vuota nel portaborracce ma non puoi regalarla. Sarei bugiardo se dicessi di non aver mai gettato una carta per terra, sicuramente, però, mi sono sempre impegnato a mettere tutto in tasca. La carta di una barretta non ha alcun peso e non va gettata. Non ci sono scuse, la regola è giusta». Diverso, spiega Benedetti, è il discorso borracce. «Quando mia moglie portava mia figlia al Tour de Pologne, le ho sempre raccomandato di fare attenzione perché alcuni corridori lanciano borracce nel mucchio e ad alta velocità senza guardare. Ho discusso più volte con chi fa così. Può finire male, molto male. Le borracce restano un oggetto personale del corridore, qualcosa che ai tifosi interessa particolarmente, non è giusto privarli di questo souvenir. Ben vengano le zone verdi, si vieti di lanciare la borraccia ma si consenta il passaggio agli spettatori».

Sonny Colbrelli (Bahrain Victorious) estende il discorso: sono diversi i dettagli da rivedere nel regolamento UCI, non solo la parte riguardante le borracce. «Mi sto riferendo alla tematica della posizione in bicicletta. Credo sia corretto dire che dobbiamo dare il buon esempio, ma non siamo degli sprovveduti. Sappiamo bene i rischi che corriamo e li ponderiamo attentamente». Sul tema borracce, poi, Colbrelli vorrebbe la cancellazione della norma. «Chi è ai bordi della strada ad aspettare la gara non aspetta solo gli atleti, attende anche un ricordo da portare a casa. Ci sono persone che espongono cartelli in cui chiedono di lasciare una borraccia. Spiace non poterlo fare. In ogni caso, se la regola rimarrà, ci adegueremo. non possiamo fare altro». Intanto il dibattito prosegue, in questi giorni sono previste altre riunioni degli organi competenti.

Foto: Vincent Kalut/PN/BettiniPhoto©2021


Il tempo di un giro in pista: intervista a Maria Giulia Confalonieri

Maria Giulia Confalonieri ha appena concluso l'allenamento del mercoledì al velodromo di Montichiari. Si siede accanto a noi ancora accaldata. «In pista non è come in strada, non esistono giorni di scarico o in cui ti rilassi. Quando ti svegli la mattina e vieni qui, devi sapere che sarai a tutta, devi porre attenzione ad ogni singolo dettaglio. Se ne vanno tante energie fisiche, ma anche mentali. Non puoi presentarti svogliato». Lei ammette che ad allenarsi ha imparato col tempo e che, forse, le prime volte non aveva nemmeno chiaro il concetto di allenamento. «Da bambini succede così: vorresti provare ogni cosa che vedi ed ogni giorno pensi di aver scoperto la tua grande passione, il tuo talento, il tuo futuro lavoro. In realtà serve tempo per capire queste cose. Io ho iniziato a pedalare ma non mi allenavo bene, prendevo tutto con leggerezza, troppa leggerezza. Ma è giusto così: non è detto tu debba diventare un campione o un professionista, magari vuoi solo divertirti. Alle prime gare, ero fortunata se non mi doppiavano». Per questo Confalonieri consiglia ai più giovani di provare, senza remore. «Avete voglia di fare un giro in mountain bike? Andate, fatelo. Magari non siete molto abili, cadete e vi sbucciate le ginocchia, ma andate. E, se il giorno dopo avete voglia, provate la pista o tornate in strada».

Il tempo delle scelte arriva successivamente ed è necessario ponderarle con coscienza. «Se non hai consapevolezza di ciò che stai scegliendo, gli eventi finiscono per sopraffarti. Devi sapere che al passaggio nelle élite dovrai scegliere se passare con una squadra più piccola oppure aspettare e sperare che ti cerchi una squadra World-Tour. Nel primo caso correrai con atlete più giovani, avrai meno frustrazioni ma non capirai mai il tuo vero valore. Nel secondo, magari finirai staccata perché ci saranno atlete di esperienza in grado di fare la differenza. Devi tenerlo presente e decidere». In ogni caso, Maria Giulia Confalonieri mette al bando l'ansia o le preoccupazioni. «Sono molto pragmatica su questo punto. Essere preoccupati non risolve il problema e non migliora la situazione, è inutile. Capisco bene l'emotività, ma bisogna imparare a controllarla. L'importante è essere preparati, poi alcune cose non sono controllabili, ogni atleta lo sa bene». Tra l'altro, Confalonieri spiega che l'attività su pista è particolarmente soggetta alla problematica dell'ansia per il breve lasso di tempo in cui si svolge e che non riuscire a controllarla significa spesso rovinare la prestazione.

«Le cose sono molto cambiate rispetto a quando ho iniziato a far parte del gruppo della nazionale. Una volta mi sembra ci fosse meno scambio alla pari. Non so da cosa dipendesse, forse era un caso, forse i tempi che cambiano. Io ricordo che cercavo di osservare ogni piccola cosa facesse Giorgia Bronzini, per imparare. Ora ci guardiamo a vicenda, noi impariamo dalle più giovani e loro imparano da noi. Credo sia una sciocchezza il fatto di pensare di non avere più nulla da imparare dai più giovani e solo da insegnare per il semplice fatto di avere più anni. Una grossa sciocchezza». Se pensa alle Olimpiadi, la prima riflessione è sul cambiamento. «Sarà tutto diverso dal solito. A partire dall'avvicinamento visto che il programma della pista è quello che ha subito maggiori cambiamenti ed i primi appuntamenti importanti saranno da fine aprile. Ma anche il discorso puramente relativo ai velodromi: probabilmente non ci sarà nessuno all'interno e si correrà in un silenzio irreale. Sarà molto strano, tuttavia non c'è altra possibilità».

L'anno che la accompagnerà verso i Giochi Olimpici sarà un'importante occasione per migliorarsi. «Vorrei riuscire a ritagliarmi un posto nel quartetto. Sarebbe importante anche in vista della madison: con il nuovo regolamento per poter farne parte devi almeno essere riserva nel quartetto. In generale, invece, devo lavorare sull'inseguimento. Per quanto concerne l'omnium, invece, abbiamo due, o tre atlete, di altissimo livello in quella disciplina ed il posto spetta a loro». Ma non è finita qui, perché Maria Giulia Confalonieri sta guardando anche alla strada. «Credo sia il momento del salto di qualità. Da quando sono arrivata in Ceratizit ho trovato un ambiente molto ben organizzato e ho affinato un buon feeling con Lisa Brennauer, essendo deputata a tirarle le volate. Sarà una buona occasione per imparare ad affrontare meglio i finali e magari, un domani, provare qualcosa di personale». Ora si torna a casa, domani sarà una nuova giornata di allenamento.

Foto: Paolo Penni Martelli


Le ferite di Nacer Bouhanni

Il fatto risale al 28 marzo 2021: Nacer Bouhanni, Arkéa Samsic, durante la volata della Cholet-Pays de la Loire, compie un'evidente irregolarità stringendo Jake Stewart contro le transenne. La giuria lo squalifica e intanto l'opinione pubblica inizia a discutere la condotta dell'atleta francese. Si dice che non è la prima volta che Bouhanni si rende protagonista di volate così scorrette e si invitano gli organi competenti a prendere provvedimenti contro di lui. L'Unione Ciclistica Internazionale potrebbe intervenire proprio in questi giorni, sanzionandolo. Purtroppo però, nel frattempo, il dibattito è scaduto e al corridore sono stati rivolti pesanti insulti razzisti che nulla hanno a che vedere con la pur grave irregolarità commessa in volata. Il primo a parlare di questo fatto è stato proprio Jake Stewart: «Su molte cose si può essere più o meno d'accordo però, in questo mondo, non c'è posto per il razzismo. Lo dico chiaramente ai cosiddetti tifosi del ciclismo che hanno rivolto insulti simili a Bouhanni: non siete i benvenuti qui».
Nacer Bouhanni, dopo diverse notti difficili, ieri ha dichiarato di essersi affidato a dei legali e ha rilasciato un'intervista a “L’Équipe” raccontando la propria verità, facendo emergere un dolore che aveva sempre nascosto. «Mi sono costruito uno scudo per proteggermi da tutto questo. Nella vita di tutti i giorni non sono così, freddo, duro, come posso sembrare in corsa. Sono venticinque anni che sono nel ciclismo e da quando ero bambino affronto il razzismo in silenzio perché, quando se ne parla, sembra sempre di voler passare per vittime, ora non riesco proprio più a non dire nulla». Il corridore francese spiega che, sino ad oggi, non aveva mai voluto parlarne proprio per questo timore ma le domande che si è posto nel tempo sono molte. Nel suo racconto la parola razzismo è spesso sostituita da un giro di parole, il razzismo è “quella cosa lì”, quella che lo tormenta da troppo tempo. «Mi hanno detto di tornare in Africa, mi hanno dato del terrorista, sono arrivati a dire che dovrei essere estromesso dal ciclismo e che avrei fatto apposta a stringere Stewart contro le transenne. Pagherò ciò che devo pagare, ma questa è pura follia».
I messaggi di insulti sono aumentati drasticamente nell'ultimo periodo, le notifiche arrivano da ogni social e quando non giungono direttamente a lui, sono gli amici, involontariamente a mostrargliele. «Mi dicono: “Sai cosa ho letto? Guarda cosa dicono di te“. Ho dovuto chiedere di non dirmi più nulla, che non voglio sapere più nulla. Non sono una vittima, lo ripeto. Se fossero dieci, quindici messaggi, ci passerei sopra. Ora non è più possibile. Era già un periodo difficile, non ci voleva». Nacer Bouhanni è molto chiaro: gli episodi di razzismo di cui parla non avvengono in gruppo o nelle squadre in cui milita. «Direttamente, in gruppo, non è mai accaduto nulla, poi non so cosa pensino i miei colleghi. Fuori corsa, invece, ho ricevuto alcuni insulti razzisti e purtroppo da persone adulte, persone che dovrebbero sapere ciò che dicono. Fino a quando sono parole di bambini piccoli, scivolano via, dagli adulti le ferite sono maggiori. Sono nato in Francia e quando ho vinto il campionato nazionale ero felicissimo su quel podio, mentre risuonava la Marsigliese. Sono fiero per quei giorni, ma sono altrettanto orgoglioso del cognome che porto, di essere un francese di origini magrebine».
Nelle parole dell'atleta si percepisce un distacco dalla propria carriera e dai risultati ottenuti. «Quanto avrò vinto in tutto? Circa settanta gare? Restituisco ogni trofeo, non li voglio più, non mi porterò le vittorie nella tomba. A me interessa l'amore della mia famiglia. Porterò tutte le prove alla polizia, sporgerò denuncia, ma il male resta. Spero che la giustizia faccia qualcosa perché, altrimenti, vuol dire che chiunque può fare di tutto senza alcuna conseguenza. Vorrei liberarmi da questo peso che mi assilla»
Ancor più dal momento in cui Nacer, proprio per il ciclismo, ha discusso con il padre. «In famiglia, per proteggermi, hanno sempre evitato il discorso razzismo. Hanno fatto bene. Mio padre mi ha ripetuto di non farci caso, di essere fiero e di continuare per la mia strada. Me lo ha ripetuto anche quando gli ho raccontato come stavo, guardandolo dritto negli occhi e dicendogli che se continuerà così potrei anche lasciare il ciclismo. Anche quando ho detto al mio manager che non sarei partito per la Roue Tourangelle perché le mie condizioni psicologiche non me lo permettevano. Per questo ho discusso con mio padre, la persona che mi ha sempre protetto, che mi vuole bene, che mi ha aiutato a proseguire in questo mondo anche quando ero a terra. Un'ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso».

Roberto Bettini/BettiniPhoto©2021


Dietro casa, il monte Učka: intervista a Josip Rumac

Josip Rumac, Androni Giocattoli-Sidermec, è tornato a casa in questi giorni, ad Opatija, in Croazia, vicino a Rijeka, per noi Fiume. Ormai erano più di due mesi che era lontano dalla sua città, tra ritiri, corse e allenamenti. «Stamattina, dopo l'allenamento, ho preso la macchina e ho guidato verso la casa di mia madre. Sono tornato a sera e mi sono stupito ancora una volta vedendo il monte Učka dietro casa mia. Per noi è una specie di protettore della città e, ogni volta che viene scalato al Giro di Croazia, essere lì davanti vuol dire molto». In realtà, Rumac ha un legame particolarmente stretto con la sua terra. «Giro il mondo e ti assicuro che non vorrei fare altro, ma ogni volta che torno qui e rivedo questi viali, lunghi, ampi, affacciati sul mare ed il riflesso del monte nell'acqua, mi dico che nessun posto è come questo».

Da ragazzo quelle acque le ha anche solcate perché, prima di essere ciclista, Rumac andava in barca a vela. Racconta che gli piaceva e che anche oggi farebbe volentieri un giro in barca, anche se la sua idea è sempre stata un'altra. «Io ho sempre voluto diventare un ciclista professionista, anche nel periodo in cui giocavo a pallavolo. Sembra strano anche a me perché la Croazia non è una nazione particolarmente legata al ciclismo. Da noi ci sono tanti amatori, pochi professionisti. Le bellezze naturali hanno permesso di sviluppare il cicloturismo che è un modo di pensare alla bici bellissimo ma diverso». Così Josip, all'uscita da scuola, prendeva la sua bicicletta, montava in sella, e andava, prima nel cortile e poi lungo il mare. Fino a quando è arrivato il tempo delle gare, la prima vittoria a nove anni, in mountain bike.

«Se c'è una costante nel mio carattere è proprio il fatto di provare sempre, ogni cosa. Sin da bambino ero così. Se decidevo di fare qualcosa, mi ci mettevo ed insistevo fino a che non ci riuscivo. Personalmente credo molto nel fatto che si impari più dagli errori che dai successi. I successi fanno piacere, ma gli errori insegnano. Così ogni volta in cui sbagli puoi ritentare e ritentare meglio. Alla fine, noi impariamo dai tentativi». La bicicletta è il mezzo ideale per imparare perché consente a Rumac di apprendere nella tranquillità. «Quando pedalo sono sereno e motivato, così ho modo di reagire alle difficoltà. Ognuno di noi trova motivazione in qualcosa di diverso, io la trovo nella possibilità di continuare a fare ciò che avrei sempre voluto fare. Mi dico che è sempre stato il mio sogno e che devo reagire. Da quando ho finito le scuole, il ciclismo è sempre stato il mio lavoro. Questo è il mio orgoglio». In Androni, poi, c'è qualcosa in più. «Ognuno di noi sa che le cose si fanno assieme, che si cresce o si cambia assieme. Per un atleta è molto importante non sentirsi solo nelle difficoltà, è un aspetto che può fare la differenza».

Sotto la voce “grinta”, nel vocabolario di Josip Rumac, ci sono due nomi: l’ex ciclocrossista francese Julien Absalon ed il “pistolero” Alberto Contador perché «non conta solo vincere, ma anche il modo in cui vinci e le loro vittorie si fanno ricordare». Lui vorrebbe farsi ricordare alla Strade Bianche e alla Milano-Sanremo. La corsa dei suoi sogni, però, resta il Giro d'Italia, la gara a cui ha sempre pensato quando pensava al ciclismo ed a cui ha partecipato per la prima volta lo scorso anno. Sotto la voce bellezza, invece, l'Italia, un paese che sta iniziando a conoscere. «L'Italia è incredibile. Puoi capitare ovunque, in una grande città o in un piccolo borgo dimenticato, e stai certo che troverai qualcosa di bello, qualcosa in grado di sorprenderti. A me è sempre successo così».

Foto: Luigi Sestili


Non è solo un lavoro: intervista a Rachele Barbieri

Sin dalle prime pedalate, Rachele Barbieri ha sempre avuto ben chiara una cosa: il ciclismo non avrebbe mai potuto essere un lavoro come tutti gli altri. «Di essere ciclista non smetti mai. Si tratta di un lavoro che ti assorbe completamente, da cui non esistono pause. Anche quando la stagione finisce, tu non puoi dimenticartene. Non esistono ferie dal ciclismo, per un semplice motivo: se ti dimentichi di essere ciclista, il ciclismo te la fa pagare. È un privilegio, qualcosa per cui essere grati, ma è faticoso, talvolta molto faticoso». Rachele è certa che, per comprendere al meglio queste parole, sia necessario vivere la realtà di un professionista, così ci porta subito qualche esempio. «Come tutti sanno la nostra alimentazione è controllata nei minimi dettagli, così quando ci sediamo a tavola, nei ritiri, tutto è dosato. Persino la quantità di Parmigiano per la pasta nella formaggiera. Talvolta succede che qualche ragazza ne prenda poco di più e per le altre non ne resti abbastanza. A noi è capitato di discutere per questo. Niente di grave, ci mancherebbe, ma la tensione porta anche ad esasperare certe situazioni».

Rachele Barbieri ammette di essere sempre stata una ragazza molto competitiva: «Del resto chi non lo è? Ogni volta che veniamo a Montichiari ad allenarci, in fondo, ci giochiamo un posto per un traguardo importante. Ognuna di noi vorrebbe ottenere la maglia azzurra di un Mondiale o di un'Olimpiade, così battagliamo per riuscirci. Non credo sia un problema. L'importante è che ci siano dei limiti ben definiti e che si abbia anche chiaro quale sia la cosa migliore per la squadra». In questo, prosegue la ventiquattrenne di Pavullo nel Frignano, aiutano particolarmente due aspetti. «Sappiamo bene di avere tutte dei valori importanti, così, se viene preferita un'altra ragazza, per quanto la delusione sia forte, si ha la certezza che farà bene, perché si conosce il suo valore. D'altra parte, nella vita, non solo nel ciclismo, è necessaria una buona dose di onestà intellettuale per riconoscere quando qualcuno sa fare qualcosa meglio di te. Che non significa che tu non vali nulla, solo che qualcuno, in questo momento, è più adatto di te per quel ruolo».

Barbieri ha un modo particolare di vivere il rapporto con la maglia azzurra. «Quando non sono stata convocata al Mondiale, ho preso la maglia, l'ho chiusa in un cassetto e non l'ho più guardata per diversi giorni. Sentivo mia quella casacca e non poterla indossare mi ha lasciato nello sconforto. È difficile da spiegare, ma tu senti tua la maglia azzurra quando hai la percezione di poter fare qualcosa di importante indossandola, diversamente può anche far paura».
Della pista, Rachele continua ad amare ciò che nei primi tempi la spaventava. «Se ho trovato il coraggio di salire in sella, la mia prima volta a Cento, è stato solo perché, essendo competitiva, non potevo sopportare che le altre bambine ci riuscissero ed io no. Poi ho scoperto quanto sia bella l'imprevedibilità dei velodromi, quella continua serie di scatti e rilanci che lasciano tutto incerto sino all'ultimo secondo. Pensa per uno spettatore cosa deve significare potersi sedere in tribuna e aver sempre sott'occhio tutto ciò che accade. Nel ciclismo su strada non succede mai, vediamo secondi, frammenti, la pista ti mostra tutto, anche il dietro le quinte».

Sorride quando pensa all'Olimpiade e torna ad analizzare, nel continuo tentativo di capire e migliorare. «Credo di avere nello spunto veloce un punto di forza, per questo preferisco gare brevi, come lo scratch, che mettono in risalto questa mia capacità. L'omnium è il sogno di tutte. Io sto lavorando sulla resistenza perché vorrei far parte anche della madison, non solo del quartetto. Sono 120 giri in cui devi essere a tutta, con l'unico sostegno della tua compagna, ed è impensabile affrontarla senza un gran lavoro alle spalle». Ma i Giochi Olimpici, per Barbieri, significano qualcosa in più. «Dire che sono un traguardo ambito per gli atleti è quasi scontato. Mi piacerebbe invece parlare di quanto siano importanti per le persone che ci guardano da casa. Tutti si fermano qualche minuto a guardare le Olimpiadi, anche persone che allo sport non si sono mai interessate. Credo possano essere una buona medicina per non pensare per qualche ora a tutto ciò che ci sta accadendo da un anno a questa parte».

Foto: Paolo Penni Martelli


Dalle guglie del Duomo allo Stelvio

Per Fabrizio Beyerle e Massimo Bonomi è iniziato tutto da un'esclamazione: «E noi cosa facciamo?». Partecipando, o semplicemente osservando, a diverse manifestazioni amatoriali di ciclismo, Fabrizio e Massimo hanno pensato che sarebbe stato il momento di inventare qualcosa di loro. Qualcosa che racchiudesse la loro idea di ciclismo. Così è nata l'idea della Duomo-Stelvio: una pedalata libera, da Piazza del Duomo fino a una delle cime più famose del mondo, il Passo dello Stelvio. «Ho origini tedesche, ma sono sempre vissuto a Milano. Per me pensare al Duomo vuol dire pensare a casa- racconta Fabrizio- in fondo, però, per ognuno di noi, da qualunque città provenga, ovunque sia nato, il Duomo di Milano è qualcosa di unico, un simbolo. E lo Stelvio? Il Passo dello Stelvio è la salita per eccellenza. Non è la più dura, ma senza dubbio è fra le più evocative. Tutti sanno cos'è lo Stelvio, tutti se lo immaginano appena ne sentono il nome. Per questo, il 24 luglio partiremo da sotto le guglie del Duomo e arriveremo lassù, in cima». Un'idea nata e portata avanti insieme ad una squadra di amatori: il Team 100.1. «Un nostro amico, ad ogni “pedalata”, deve percorrere sempre almeno cento chilometri, altrimenti si volta e fa il giro dell'isolato, pur di vedere quel numero sul contachilometri. Per questo ci chiamiamo così».

Questa volta i chilometri saranno 240, con ben 3400 metri di dislivello, più di 2400 nell'ultimo tratto, e un tracciato ben definito, spettacolare. «Siamo partiti all'alba di una mattina di settembre con macchina e bicicletta munita di Gps per disegnare nei dettagli il percorso e abbiamo scoperto o riscoperto paesaggi di cui spesso rischiamo di dimenticare la bellezza». Fabrizio racconta che Marco Saligari, durante una pedalata, qualche tempo fa, gli disse: «Mi raccomando, pedala con gli occhi» e da quel giorno lui si sente in dovere di raccontare a chiunque questo insegnamento che ha cambiato il suo modo di approcciarsi all'attività sportiva. «Spesso come amatori ci sentiamo dei fenomeni e dimentichiamo di guardarci attorno. È un grosso errore. Prendiamo il Sentiero Valtellina, la ciclabile che condurrà allo Stelvio partendo da Colico, sul lago di Como, e arrivando a Bormio. Si attraverserà diverse volte l'Adda su dei ponti dedicati che offrono scorci di rara bellezza, si transiterà in vecchi paesini in stile “L'albero degli zoccoli”, per poi inoltrarsi nei meleti. Da quelle parti si respira un profumo delicatissimo, sembra di sorseggiare succo di mela. E noi dovremmo perderci tutto questo per fare la corsa al miglior piazzamento o al miglior tempo?». La risposta è ovviamente negativa e, proprio per questo, Fabrizio e Massimo hanno pensato che non ci saranno premi, se non una medaglia di legno e l'iscrizione all'albo d'oro "Sovrano dello Stelvio". Per incoraggiare lo spirito di squadra saranno consentite staffette in modo da darsi il cambio durante il tragitto. «Non tutti sono allenati per simili distanze ed è anche giusto così. Darsi il cambio è un gesto molto importante nel ciclismo. Ogni staffetta sarà composta da tre persone di cui almeno una donna: anche questo è un messaggio a cui teniamo molto. L'importante è aiutarsi e arrivare. Chiunque arrivi può essere orgoglioso».

E Fabrizio se la immagina già quella mattina. «Quando i primi partecipanti arriveranno a Lecco, sarà mattina presto, intorno alle sette. Di fronte a loro si staglierà il Resegone ed a qualcuno verrà certamente in mente Alessandro Manzoni. Altri, magari stranieri, vedranno il lago per la prima volta, col sole alle spalle mentre chiacchierano con l'amico che pedala accanto. Così fino a Perledo e Varenna». Un'occasione unica perché, per gli ultimi cento chilometri, la pedalata sarà in mezzo alla natura, lontana dal traffico cittadino. «In un paese come il nostro, in cui l'insicurezza stradale è un vero e proprio dramma, credo che questa sia una possibilità importante. Per pedalare in tranquillità, senza paure e continuare a dare l'esempio. Io dico sempre che, come ciclisti, come parte debole, dobbiamo metterci nell'ottica di essere inattaccabili, di prestare la massima attenzione ad ogni dettaglio in modo da non lasciare alcun alibi agli automobilisti».

E fra tutti i ciclisti ve ne sarà uno speciale: Daniele Schena, soprannominato Stelvioman. «Parliamo di un uomo che ha scalato lo Stelvio ben quattrocento volte. Posso dire che per me è una questione di orgoglio pedalare accanto a lui». Solo ad una cosa Massimo e Fabrizio non vogliono pensare. «Abbiamo predisposto tutte le misure necessarie per evitare contagi da SarsCov2 e saremo rigorosi nel loro rispetto, ma questo pensiero non deve diventare assillante. Vogliamo credere che riusciremo a vivere questa avventura, con la leggerezza e la spensieratezza che la bicicletta consente. Finalmente all'aria aperta, finalmente assieme».

Già, perché Fabrizio ha iniziato a pedalare sin da ragazzo per un motivo molto semplice: «Non riuscivo a stare fermo così ho iniziato a pedalare. In famiglia lo sanno tutti e le mie nipoti, bambine che hanno dai due ai sei anni, appena vedono qualcuno in bicicletta, si girano verso i genitori e dicono: “Guarda il nonno”. Quale miglior modo di raccontare il ciclismo?».


Tutti gli ingranaggi di una bicicletta: intervista a Donato Pucciarelli

«Sono nato a Montelupo Fiorentino, il paese di Franco Bitossi». Donato Pucciarelli, meccanico dell'Androni Giocattoli Sidermec, racconta così la sua toscanità, il suo essere “fumino”, quell'accendersi per un nulla. «Fino a diciotto anni non sapevo nemmeno cosa fosse il ciclismo, poi ho iniziato a pedalare, ma erano i tempi di Battaglin, Moser, Baronchelli, era dura vincere». Sono passati gli anni, ma Pucciarelli sente come fossero ora le difficoltà di quei tempi. «Erano anni duri. Mio fratello aveva una bottega di biciclette e vi lavorava come meccanico, non c'era tanto tempo da perdere. La mia era una famiglia contadina e bisognava guadagnarsi la pagnotta. Dovevo pensare a lavorare, non potevo portare la bicicletta in giro per il mondo. Mi allenavo quando finivo il mio turno e nonostante questo i miei risultati li ho ottenuti. Poi ho scelto di smettere, pensavo al mio lavoro e a farmi famiglia. Non ho rimpianti sebbene chissà, se fossi diventato ciclista, cosa sarebbe successo».

Poi ci sono gli anni che passano e le cose che accadono. «Non ci pensavo più, quando una sera, nel 1988, passò da me Roberto Gargioli. Era stato ingaggiato dalla squadra di Gianni Savio, noi abitavamo vicini e a lui serviva un meccanico a pochi chilometri da casa». Cambia tutto nella vita di Pucciarelli. A partire dalla prima volta in cui si trova a dover preparare le biciclette degli atleti: «Accanto a me, c'era il meccanico di Pedro Delgado. Io non avevo ancora finito di preparare tutto il materiale, lui aveva già sistemato tutte le bici. Che frustrazione! Ma serve anche questo. La gavetta ti fa crescere umile». Ed è da quell'umiltà che Donato Pucciarelli ha tratto gli insegnamenti più importanti. «Con i corridori non bisogna mai discutere. Hanno già tante pressioni, ci mancherebbe solo le nostre. Il nostro compito è farli stare tranquilli. Io lo dico sempre: “Siamo tutti qui per lavorare, chiedete, parlate, non fatevi remore. Partirete più leggeri”.»
Così ha imparato a rispondere alle richieste più inconsuete, ad accontentare i ragazzi per tranquillizzarli. «Gilberto Simoni correva con sella storta e io gliela posizionavo così, limando l'archetto, perché lui si trovasse bene. Alcune volte i ragazzi vengono a chiederti di alzare il manubrio di un millimetro. Non lo percepiranno nemmeno, ma tu devi alzare quel manubrio perché psicologicamente per loro è importante. Attenzione, però, questo non deve diventare un alibi». Pucciarelli sta pensando ai corridori che dopo una sconfitta o un errore in gara, cercano una scusante nel mezzo meccanico e non si assumono le proprie responsabilità. «Non si divertono neanche più in bicicletta e tutti i problemi nascono da lì. Se non vi divertite, pur con tutta la fatica che si fa, non continuate. Fermatevi. Se vi rendete conto che non è il vostro ambito, non tirate a campare. Il ciclismo è una delle possibilità più belle, non imbruttitelo col vostro modo di fare. Lamentarsi fa male». Per contrasto pensa a Egan Bernal. «A lui andava sempre bene tutto, vedevi che era felice di fare questo lavoro. Non l'ho mai sentito lamentarsi una volta ed i risultati sono arrivati».

Il mondo dei meccanici è cambiato nel corso degli anni e Pucciarelli ha vissuto questa modificazione dall'interno. «Giancarlo Ferretti mi chiamava Tarzan perché in corsa facevo delle acrobazie tremende. Ho provato a cambiare il filo dei freni o la catena in ammiraglia. Non c'erano tutte le bici che abbiamo oggi e bisognava cavarsela. Se si rompeva un cerchio, la sera si prendevano i raggi e si faceva un cerchio nuovo, oggi si cambia la ruota. Non c'erano i rapporti di giusti per scalare il Mortirolo, così te li inventavi. Poi vincevi una tappa del Tour de Las Americas davanti ai grandi e ti scordavi persino delle notti insonni. Eravamo in pochi a lavorare sulle biciclette, non avevamo tutte le conoscenze dei giovani di oggi ma avevamo la pratica». Qui, Pucciarelli apre una parentesi. «Stare in giro per il mondo, a volte anche senza tutta l'attrezzatura necessaria, ci ha insegnato ad arrangiarci e a distinguere ciò che davvero è un problema da ciò che non lo è. Quante cose teoricamente sono in un modo ed in pratica sono all'opposto? Quando sei in viaggio, sballottato da un albergo all'altro, senza tempo, al caldo afoso della Francia o sotto un diluvio invernale, lo capisci e ti adatti».

Di tutti questi anni, Donato Pucciarelli avrebbe molti episodi da raccontare, per esempio di quando Gianni Savio lo affiancava mentre preparava le biciclette: «Mi veniva vicino e mi chiedeva di spiegargli cosa stavo facendo, che rapporti usavo o cos'era quello strumento che avevo in mano. Poi precisava: “Sai, se i ragazzi me lo chiedono devo saperlo”. Su un aneddoto, però, si ferma diversi secondi. «Non ricordo che anno fosse. Eravamo al Giro d'Italia e Massimo Ghirotto perse una tappa da Claudio Chiappucci. Arrivò stremato, mi si avvicinò e mi disse solo: “Puccio, non ce l'ho fatta. Non ce l'ho fatta”. Andò via. Quegli occhi li rivedo ancora».

Foto: Luigi Sestili


La verità di van Aert, gli inganni del Nord

La Gand-Wevelgem è una corsa che tesse inganni. Sono poco più di ventotto i chilometri da Ypres a Wevelgem, il percorso, invece, si snoda in un budello attorcigliato che somiglia a una litania dolente. Scherpenberg, Vidaigneberg, Baneberg, Monteberg, Kemmelberg e si torna a ripetere ogni muro, senza logica e senza ordine.

Il vento oggi è un dinamitardo impazzito che imperversa da destra a sinistra, da sinistra a destra. I ventagli sono l'unica possibilità per non esserne respinti, assecondare la rabbia dell'aria, le sue sberle, per restare attaccato alla ruota che hai davanti e che sembra sempre più distante. Chi perde un metro non lo recupera più. Così il gruppo si disperde in tanti rivoli, ferito irrimediabilmente, smembrato.

Mancano ancora cento chilometri all'arrivo e davanti sono solo venti uomini a giocarsela senza ritegno. Tra di loro Wout van Aert, Matteo Trentin, Michael Matthews, Stephan Küng, Sam Bennett, Sonny Colbrelli e Giacomo Nizzolo. Procedono veloci, appaiati, quasi raggruppati, si scrutano, si controllano mentre la sabbia alzata dal vento sembra risucchiata dal cielo e le pietre stortano le bici e le bocche che in certi istanti sembrano deformarsi, il ghigno della fatica. Dietro gli inseguitori cadono nella ragnatela della menzogna del tempo, di quel minuto di distacco che sembra poco e invece è troppo: così Štybar prova a rientrare con Ballerini, così Van Avermaet e Arnaud Démare sgasano a vuoto, illudendosi ed illudendo.

Wout van Aert è un attore alla prova generale al secondo passaggio sul Kemmelberg. Chissà cosa avranno pensato quelli che gli erano a ruota, mentre il respiro faticava a salire. Chissà cosa avrà pensato Bennett ad ogni curva, ad ogni discesa, ad ogni strappo, mentre il suo stomaco sembrava ribaltarsi per gettare fuori qualcosa di indigesto. In certi momenti la verità non è ammessa, bisogna fingere e far credere agli altri che è meglio che ti temano perché in volata sei più veloce. Anche la paura può spezzare le gambe, in questo spera Sam Bennett.

Sarà un nuovo attacco di van Aert sul Kemmelberg a lacerare ogni finzione. Bennett resta in coda, perde dieci, quindici metri. La nausea si trasforma in conato di vomito, sembra una liberazione, nonostante il tremore e la debolezza. È questa la forza che gli permette di tornare in testa a tirare, come se niente fosse successo. Sta mentendo l'atleta Quick Step ma il corpo non lo inganni, le viscere sentono tutto. Sembra una Pietà quando si sfila, testa bassa, poi alta, poi di lato, sudore freddo e gambe ferme. A raccattare ossigeno chissà dove per non fermarsi e buttarsi a terra.

Ci si avvicina sempre più a Wevelgem. Van Aert parla con il compagno Van Hooydonck: a tutta, andatura alta per scongiurare attacchi. Chi prova, rimbalza. Lo sa bene Küng che è l'enigma dell'impotenza quando prova ad allungare all'ultimo chilometro come quando parte lungo, troppo lungo, ai quattrocentocinquanta metri dalla linea bianca del traguardo.

Non c'è più tempo per aspettare, le gambe scalpitano nervose. Van Aert lancia la volata a centro strada e non c'è più storia che tenga. Sembra tutto facile anche se facile non è, dopo duecentocinquanta chilometri. Nizzolo e Trentin partono dal fondo, quasi sollevano la bicicletta dai colpi che danno sui pedali, rimontano tutti, non lui che fa corsa a parte. Lui che ringrazierà il compagno di squadra, che dirà che è stata dura, durissima, perché, quando si è solo venti in gruppo, quel vento contrario devi affrontarlo a viso aperto a costo di sembrare incosciente. E poi quel «sono felice», che spesso non si ammette, che si ritiene scontato, ed invece oggi sì, come una liberazione dalla fatica. Perché la fatica rende tutto tremendamente vero, nel senso di onesto, spietato, anche crudele, se volete. Come una bicicletta, come un uomo.Foto: Vincent Kalut/PN/BettiniPhoto©2021