Quando scatta Ciccone

Qualche mattina fa, alla partenza di una tappa del Giro, Giulio Ciccone si è accostato all'ammiraglia di Roberto Reverberi, direttore sportivo della Bardiani-CSF-Faizanè. Ciccone è cresciuto ciclisticamente con lui, così Reverberi si è sentito di dargli un consiglio. «Gli ho detto che deve stare tranquillo, di non perdersi per la foga di far troppo. Bernal ha una squadra molto forte, credo che la Trek-Segafredo non debba prendere in mano le sorti del Giro d'Italia. Ciccone può attendere e provare ad approfittare di un momento difficile del colombiano».

Chi conosce bene l'abruzzese spiega, infatti, che potrebbe essere proprio l'istinto ad ingannarlo. Giulio Ciccone ha sempre ottenuto buoni risultati nelle corse a tappe a cui ha partecipato ed al Giro, dove è già riuscito a vincere due tappe, nel 2019 ha anche conquistato la speciale classifica degli scalatori, senza naufragare nella generale, sedicesimo nell'occasione. Non facile, in quanto per difendere quella maglia servono scatti a ripetizione per far punti in vetta alle salite, rischiando di rimanere a secco di energie. Ciccone, che per Reverberi può centrare il podio, non può correre in quel modo, affidandosi solo alla voglia di fare. Deve programmare.

Sappiamo che studiare la tattica è una delle sue passioni ed è ciò che ha sempre preferito del passaggio al professionismo, perché ogni corsa si attaglia ad una tattica diversa e mettere in campo la tattica giusta è ciò che fa di un corridore un buon corridore. Chi ci ha corso assieme racconta che è minuzioso nell'analisi di ogni dettaglio, anche per quanto riguarda la bicicletta. Lo sanno i suoi primi meccanici. «Capitava di discuterci perché in ogni occasione voleva rivedere tutto. Quando è tutto pronto, è inutile continuare a mettersi in discussione».

Qualche anno fa, diceva che avrebbe voluto assomigliare a Vincenzo Nibali per essere un corridore da corse a tappe. L'anno scorso, dopo la vittoria al Laigueglia e la dedica alla madre, una stagione sfortunata a causa del Covid-19, quest'anno è tornato al Giro ed i più lo davano al servizio di Nibali, mentre ora le cose potrebbero invertirsi. «Non è un male. Anche per questo dico- prosegue Reverberi- che la Trek non deve “fare” la corsa e mettersi in testa a tirare nelle tappe decisive. Se lo fa, induce pressione e di conseguenza lo porta a sbagliare. A Ciccone serve la mente libera».

Ma Ciccone è anche l'uomo dei contrasti. Come uno scalatore puro che sente il fascino delle classiche, la Liegi-Bastogne-Liegi la sua preferita, e si ispira a Purito Rodrìguez per inventiva e voglia di gettarsi all'attacco. Uomo dei contrasti come il suo profilo che emerge dalla foschia, dal freddo e dalla pioggia del Mortirolo in quella tappa del 2019, come un uomo solo al comando verso Sestola ed il gruppo che non lo recupera. Come Giulio Ciccone che domenica sullo sterrato è stato uno dei pochi a reagire all'attacco di Bernal ed è arrivato secondo. Ciccone che, nel primo giorno di riposo, sa che il Giro è appena cominciato.

Foto: Luigi Sestili


La speranza di Arturo

Sono una manciata le persone appostate nella parte alta del borgo di Villalago per vedere il passaggio del Giro d'Italia. Per arrivare quassù non si contano gli scalini e le pietre dissestate, i balconi con steso qualche panno e le mollette accumulate in sacchetti appesi accanto alle persiane. Ogni insegna da queste parti sa di mani artigiane e di antico. Chi si siede fuori dalle case, arroccate in viottole, spesso senza uscita, lo fa su vecchie sdraio a righe, con una sedia di vimini accanto per poggiare gli attrezzi, per maneggiare il legno o il ferro. Sì, perché qui la gente lavora anche la domenica.

Se ci fosse qui Arturo saprebbe spiegare molto meglio di noi cos'è questo borgo. Così ci dice Maddalena, la nipote di Arturo: «Noi non abitiamo più qui, siamo solo della zona, ma per mio zio non ci sono storie che tengano. La sua città è questa. Vi racconterebbe di certo di quel gradino di pietra che è davanti ad una vecchia casa salendo qui, del fatto che pesi circa cinquecento chili. Poi vi chiederebbe, secondo voi, come hanno fatto a portarlo qui più di cinquecento anni fa. Credo non lo sappia neanche lui ma, sin da quando ero bambina, mi parlava di quel gradino. Come mi raccontava di tutto il pavimento di una casa da queste parti, pietre di venti chili che un signore ha posizionato personalmente perché “sono artigiano e le mani le ho per usarle”.»

Arturo che è cresciuto qui, quando per queste vie c'erano ancora i pollai e qualche gallina libera che arrivava all'uscio di casa, quando qui passavano ancora i muli con il loro carico e giù, accanto alla strada sterrata, si vedevano i pastori d'Abruzzo pascolare le pecore. Arturo che è appassionato di ciclismo e quelle strade le percorreva con Maddalena quando lei era ancora bambina. «Gli altri bambini raccontavano dei loro eroi, io sentivo zio che mentre pedalava per andare in campagna cantava “vai Girardengo, vai grande campione” e immaginavo chi fosse questo Girardengo». E poi tutte le rivalità che Arturo le ha raccontato. «Mio zio non ha un carattere semplice, sa essere freddo, duro, ma raccontare gli piace. Forse, per chi ha fatto la sua vita non può essere altrimenti. L'Abruzzo è una terra stupenda, ma aspra. Gli alberi scompaiono in un attimo e vedi le rocce, le pietre. Qui gli inverni sono lunghi, per quello c'è quella legna ancora accatastata».

Del ciclismo, spiega Maddalena, Arturo rispetta la fatica. «Ora che ha una certa età si commuove quando il gruppo passa e la gente applaude. Dice che fino a quando qualcuno starà ad aspettare una persona in bicicletta che sale da una montagna, sudata e malmessa, anche chi ha la sua età può sperare».
Lui sostiene che fino a ieri non si era mai perso un passaggio del Giro d’Italia nella sua terra. Maddalena dubita ma «lo dice così sicuro che contraddirlo dispiace anche. E poi si arrabbierebbe, se non gli credessi». Ieri non c’era perché un mese fa, cadendo, ha rotto il femore ed il recupero è lungo. Al mattino Maddalena è passata da lui, prima di salire al borgo, ma non gliel’ha detto, temendo di ferirlo. «Mi ha fissato e mi ha rimproverato: “Faccio finta di non sapere dove stai andando. Guarda che al Giro tornerò anche io, cosa credi? Il femore si sistema. Anzi, ti conviene sperare succeda in fretta perchè voglio tornare al borgo e, se non ci riesco con le mie gambe, vi toccherà portarmi in spalla”. Cosa volete farci, quell’uomo è fatto così».


Riuscirci comunque, crederci sempre

Qualche giorno fa, Cyclingtips ha scritto che meno dello 0,02% delle persone che vivono nei Paesi Bassi si chiama Taco: nei Paesi Bassi vivono circa 17,5 milioni di abitanti, il conto è presto fatto: 1300. E si chiama Taco proprio il vincitore della terza tappa del Giro d'Italia. Pensate che questo ragazzo, solo pochi mesi fa, avrebbe voluto smettere di correre in bicicletta. Già, pochi fronzoli per la testa e tanta serietà: serve un lavoro, se non può esserlo il ciclismo, si cercherà altro. Il suo mito è Graeme Obree, uno scozzese che è riuscito a battere il record dell'ora correndo su una bicicletta costruita con vecchie parti di lavatrici. Nulla a che vedere con quella di Taco e con i suoi studi sull'aerodinamica che lo hanno portato a vincere a Canale con soli quattro secondi di vantaggio sul gruppo.
Il motivo per cui siamo partiti da lui è semplice: perché la sua storia ciclistica avrebbe potuto finire ed invece continua che è un piacere. La sua squadra, la Intermarché-Wanty-Gobert Matériaux di storie simili ne conosce tante. Come non parlare di Rein Taaramäe, ad esempio. Lui è nato in Estonia, a Vandra. Oggi, quando si parla di Taaramäe si pensa ad uno scalatore. Peccato che nella sua nazione la cima più alta scalabile sarebbe una passeggiata anche per un velocista. Taaramäe ha fatto come molti suoi compagni tra Estonia, Lettonia e Lituania, si è spostato in Francia ed ha iniziato a correre lì, con le categorie amatoriali, pur di poter diventare un ciclista.

Forse anche la sua storia avrebbe potuto non esserci, ma lui ha creduto al contrario ed è qui, al Giro. Spesso in fuga.
Riccardo Minali, a fine novembre dello scorso anno, era ancora senza squadra e non sapeva spiegarselo. Diceva che, alla fine, è ben strano questo mondo. Magari quando sei in giornata buona non ti vede nessuno ed invece quando ti stacchi e non riesci a muovere i pedali sono tutti a guardarti. Lì si fanno un'idea su di te e poi fargliela cambiare è quasi impossibile. Anche perché cambiare idea costa fatica e l'essere umano è conservatore per indole. Poi la squadra l'ha trovata, in Belgio. Sì, perché anche Minali è in Intermarché.

Vi potremmo parlare di tanti altri, ma vi parliamo di Andrea Pasqualon. Lui che ci ha sempre creduto, più di chiunque altro. Qualche tempo fa diceva: “Se fossi un direttore sportivo scommetterei su di me”. Difficile restare così sicuri quando le cose non vanno. Lui ci è riuscito. Pasqualon lo ha fatto con il ciclismo e quando, nel 2017, è tornato a vincere, dopo due anni di digiuno, piangeva come un bambino. Lì ha capito che fermarsi sarebbe stato un errore.
E via, avanti così perché qui le storie si somigliano tutte e hanno a che vedere con la fame, la voglia di riscatto. Hanno a che vedere con ciò che provi quando rischiano di strapparti via ciò in cui credevi mentre stavi crescendo.

Valerio Piva, direttore sportivo della squadra, spiega che in Wanty si fa così perché non c'è altra possibilità, perché non c'è un uomo di classifica. Noi vorremmo dire che il mondo non si divide fra chi può far classifica e chi no. Il mondo, forse, si divide tra chi ha già lasciato perdere e chi non smette di provarci. Loro non hanno smesso ed alla fine ci sono riusciti.

Foto: Luigi Sestili


Ultimo uomo

Per Fabio Sabatini, quello iniziato sabato scorso a Torino è l'undicesimo Giro d'Italia. Eppure, a pensarci bene, di uguale non c'è praticamente nulla. «Sarebbe come paragonare il giorno alla notte. Il mio primo Giro è stato nel 2007, in Milram. Posso citarti ancora il treno a memoria: Petacchi, Velo, Sacchi e Ongarato. Il clima era diverso, c'erano ancora i treni dei velocisti. Ad oggi non c'è più una squadra che ne abbia uno definito. Forse è anche perché la dinamica dei punti UCI costringe le squadre a frazionare i compiti al loro interno. Noi eravamo al Giro solo per Petacchi. Ora, in Cofidis, ma vale per ogni squadra in realtà, ci sono tre uomini a supporto di Viviani per le volate e gli altri quattro che si giocano le altre tappe. Il treno che partiva ai tre chilometri dal traguardo non è nemmeno lontanamente replicabile».
Il lavoro di questi giorni al Giro, spiega Sabatini, è lavoro di esperienza per mettere il velocista nella migliore posizione. «Io tiro sempre le volate. Una volta lo facevo di potenza, ora di esperienza. Per Viviani ci sono io e c'è Consonni, per Gaviria ci sono Richeze e Molano. Solo la Deceuninck - Quick Step ha ancora un treno ben definito per Bennet ma perché loro lavorano così. Ricordo quando correvo lì, i meccanismi erano talmente fissati che era quasi impossibile sbagliare. La squadra partiva ai due chilometri, io ai quattrocento metri e mi spostavo ai duecento. Poi potevi vincere o perdere».
Un punto fisso resta: la fiducia. Non si diventa “ultimo uomo” dopo pochi anni di professionismo e questo è importante perché «puoi perdere il picco di potenza, quello che hai imparato, anche sbagliando, non lo perdi». Anzi, nel tempo, provi a metterlo a disposizione degli altri. «Simone Consonni è molto bravo ed essendo un ragazzo davvero intelligente capisce al volo ciò che c'è da fare, forse gli manca ancora un poco l'occhio. Non ci sono segreti particolari. Consonni, venendo dalla pista, è molto scaltro e riesce ad infilarsi in ogni varco del gruppo. Va bene, però non deve farlo quando pilota un velocista altrimenti lo costringe a fare continue volate per tenergli la ruota e, all'ultima volata, le gambe non ci sono più. Ma è giovane ed impara in fretta».
Anche la volata di ieri, aggiunge Sabatini, è stata basata sul riuscire a scegliere le scie giuste per essere nelle prime posizioni all'uscita dall'ultima curva. «Ora si lavora sempre più sull'anticipare la volata e per farlo è questa l'unica via». Crede che Viviani sia uno degli uomini più completi con cui gli è capitato di lavorare e, se pensa al passato, chiosa: «Gran parte di quello che ho imparato lo devo ad Alessandro Petacchi. Lui e Mario Cipollini erano maestri in tema di volate. Sono quegli atleti unici, inimitabili».
Quando gli chiediamo se sia soddisfatto del lavoro svolto sino ad oggi al Giro, Sabatini non ha dubbi: «Noi siamo venuti qui con l'idea di lavorare bene e credo che questo, per quelli che sono i nostri mezzi, lo stiamo facendo. Ci manca la vittoria, solo quello. Si sa, però, che, quando la cerchi troppo, non arriva. Magari, poi, incappi in una circostanza fortunata, ti sblocchi e da lì tutto scorre. Ogni giorno è il giorno buono. Ricordiamocelo sempre».

Foto: Luigi Sestili


Ciò che resta ciò che è

Ginevra non voleva parlarci. Non perché fosse maleducata o sgarbata, semplicemente perché, dice lei, chi ha vissuto il terremoto preferisce non parlarne. «Non si parla del terremoto, chi lo ha vissuto non vuole ricordarlo. Non oggi, almeno». Inizia a piovere su Ascoli Piceno, il tempo di aprire l'ombrello e Ginevra riprende: «E poi il Giro d'Italia è una festa, non si va a una festa portando il proprio carico di problemi».

Già lo sapevamo, ma, dopo queste parole, abbiamo avuto, ancora una volta, la netta sensazione dell'inutilità dello scorrere del tempo di fronte a certe cose. Perché per Ginevra, come per molti altri, quando si parla del terremoto non è cambiato proprio niente, nonostante siano passati cinque anni. «Di quello che c'era, non è rimasto più nulla. Non credo ci sia molto da raccontare». La sua voce per un attimo diventa fredda, come chi non vuole scoprirsi, come chi ha paura di scoprirsi. «Sai il problema? Molti vengono qui, vanno in quelle zone, e ci portano la loro commiserazione per le case diroccate, i campanili dissestati, il paese che sembra essere fantasma. Non c'è nulla di peggio. Parlo per me: non voglio quella forma di pietà, non so cosa farmene. Mi imbarazza anche. Tirerei su quei mattoni con le mie mani se ne fossi capace, pur di non sentirmi più guardata così».

Del giorno in cui arriva il Giro, a Ginevra, piace una cosa. «Non ci sentiamo diversi, non ci sentiamo quelli che hanno perso tutto. Sarà perché si è in tanti, sarà perché c'è voglia di festeggiare ma non c'è tempo per quella compassione. Almeno oggi».

La parte più brutta sta nei dettagli, sta in quello che forse pochi possono immaginare. «Arrivi a detestare la natura perché, quando il terremoto ti ci butta in mezzo, capisci quanto può essere cattiva, quanto può far male. Per chi ha passato quel periodo stare in mezzo a un prato non significa ciò che significa per tutti gli altri. Per chi ha passato quei momenti finire in mezzo a un prato significa tornare lì. Ed il peggio è che non puoi fare niente, perché se torna, e spesso torna, il terremoto ti distrugge ancora. La casa dovrebbe essere il luogo dove sentirsi sicuri, per un terremotato la nuova casa è il luogo dell'angoscia, della paura».

Non sono qui, non sono sulle strade della tappa, ma Ginevra ha due bambini. Loro erano davvero piccoli quando c'è stato il terremoto e non hanno un chiaro ricordo di quei momenti. A loro è rimasto il resto, è rimasto quello che hanno sentito dagli adulti. «Tempo fa, li ho visti fare uno strano gioco. Uno contava e l'altro portava fuori dei giocattoli dalla cameretta. Quando ho chiesto cosa stessero facendo mi hanno risposto: “Così siamo veloci a salvare i nostri giocattoli preferiti se viene il terremoto”. Ora capisci perché non voglio parlarne?».

E noi forse possiamo solo dire: per fortuna che c'è il Giro. Per fortuna che il Giro è passato da qui.

Foto: Luigi Sestili


Il riscatto di Jacopo Mosca

C'è un qualcosa di estremamente spontaneo nel modo di essere di Jacopo Mosca, qualcosa che nemmeno lui sa spiegare a fondo. Di certo, però, sa bene dove trovarne le radici. «A due anni e mezzo ho imparato ad andare in bici senza le classiche rotelle. Il motivo è molto semplice: le rompevo continuamente, così non me le hanno più messe. Un giorno sono uscito in cortile e ho provato a salire in sella, sono stato in equilibrio ed è andata bene. Qualcuno mi ha raccontato che da ragazzino ero scatenato e saltavo su e giù dai marciapiedi. Non lo so, ma potrebbe benissimo essere, vista l'indole». Sì, perché, alla fine, ciò che suo padre gli ha sempre ripetuto, in realtà apparteneva già a Jacopo. «Mi diceva che bisogna mettere il massimo dell'impegno in qualunque cosa si faccia. A prescindere dall'importanza di ciò di cui ti stai occupando, tu devi fare il massimo di ciò che puoi fare. Serve per non avere rimpianti. Serve per essere seri quando si prende un impegno».

Dice che la sua fortuna arriva con lo stage in Trek-Segafredo nel 2016 perché ha conosciuto l'ambiente e perché ha conosciuto Luca Guercilena. «Se guardi l'ordine d'arrivo del Tour of Britain di quell'anno, quando arrivai decimo, ti accorgi che fu un'ottima prestazione. Quelli che mi erano davanti erano nettamente superiori. Luca non mi prese in squadra, l'organico era al completo, ma quando mi salutò mi disse: “Questa volta è andata così, però tu insisti che nel ciclismo non si sa mai". Non sapevo che a quelle parole avrei ripensato spesso negli anni seguenti». Già, perché di lì a poco sarebbe successo ciò che succede di frequente nella vita. Non lo vorremmo, ma succede.

«Passai in Wilier, ne ero felice ed in quegli anni mi sembra anche di aver ottenuto buoni risultati. In ogni caso, ci ho sempre provato. Ancora oggi non me lo so spiegare, ma a fine contratto rimasi a piedi». Il periodo è difficile e a molti verrebbe quasi in mente di smettere. A Jacopo Mosca no. «Non ci ho mai pensato. Anzi, io volevo correre perché quello era l'unico modo per dimostrare che potevo ancora fare il corridore».
Quando firma il contratto per la D'Amico UM Tools, Jacopo Mosca sa bene che si tratta di una squadra Continental e che, per forza di cose, le possibilità sono minori, ma non gli interessa. «Dello stipendio non mi importava molto, prendevo i rimborsi delle gare e mi bastavano. Devo ringraziarli, se sono ancora qui è merito anche loro».

Umile, forse anche troppo. «Sono consapevole del fatto che il mio ruolo qui al Giro sia quello di aiutare gli altri a vincere. Io me la cavo su tutti i terreni, è vero, ma non eccello in nessuno. In volata possono battermi, in salita pure. Bisogna essere onesti con se stessi». Sarà, eppure c'è una fame particolare in ogni attacco di Mosca, una voglia feroce di dimostrare, di farcela. Qualcuno potrebbe pensare che venga dal periodo buio, lui smentisce.
«No, sono sempre stato così. Per fortuna ho preso il carattere da mio padre e sono un gran testardo». Di quel periodo, però, qualcosa resta davvero: «Credo sia qualcosa che proviene dalla mia famiglia. Ho imparato ad essere sereno e questo aiuta molto. Nel momento in cui le cose non sono andate bene, non sono mai rimasto solo, erano tutti accanto a me. Quando accade così, capisci che puoi davvero farcela».

Foto: Luigi Sestili


Come la terra del Friuli

COME LA TERRA DEL FRIULI
[Giro Alvento - Giorno 6]

Alessandro De Marchi l'aveva detto qualche tempo fa, in un'intervista a Bidon: «Al Friuli e ai friulani devi entrarci dentro, conoscerli bene. Una volta che sei dentro hai una visione completamente diversa». Non vale solo per la terra, vale anche per gli uomini e la fatica, vale per gli attaccanti ed i gregari. Vale per lui che è uomo di terra, di fatica, attaccante e gregario. Tutto assieme.

Così c'è molto altro oltre quello sguardo indiavolato sulla «salita dei matti», impastato di lentiggini e sudore, oltre quel ghigno di rabbia e di sofferenza, a denti stretti, a pochi metri dal traguardo di una tappa d'altri tempi tra Piacenza e Sestola. Ci pensava dal mattino De Marchi, pensava che sarebbe potuto succedere ma così no, così non l'aspettava. Perché? Perché tante volte non era andata bene ed «alla fine ti abitui anche a quello». Ha avuto paura perché quando le cose te le immagini, rinunciarci è sempre più difficile. «Temevo che franasse tutto, temevo di restare a mani vuote come tante altre volte».

C'è orgoglio visto che il “Rosso di Buja” ha iniziato a correre a sette anni, ora ne ha trentacinque e «potete immaginare cosa c'è in mezzo».
Per esempio, in mezzo, c'è quella sera in cui andò da Davide Cassani che lo aveva convocato per un ritiro della nazionale e, non riuscendo a vincere da tempo, chiese: «Cosa devo fare per essere un azzurro al mondiale?». Disarmante e disarmato con la semplicità che ti lascia l'aver sofferto. Già, perché De Marchi è passato professionista a venticinque anni e rischiava di non passare: si chiedono numeri, vittorie e lui dava spettacolo ma non riusciva a vincere. Se li ricorda quei giorni, se li ricorda bene.

Forse intendeva proprio questo quando ha detto: «Mi sento fuori posto con questa maglia». Intendeva che poi ciò che ti accade ti segna sempre e tutte le volte in cui ci hai provato e non ci sei riuscito bruciano, anche se non lo dai a vedere. Perché non è giusto, perché tanto chi non ti conosce non capirebbe.

Ne ha sentite di parole Alessandro De Marchi. «Il mondo certe volte ti chiede l'impossibile e non accetta il fatto che in quel momento non puoi riuscirci. A Filippo Ganna consiglio di fregarsene». Non che sia una dote il menefreghismo, ma è l'unica possibilità per salvarsi, talvolta.

De Marchi che ascolta Ludovico Einaudi, Bob Marley e Bruce Springsteen, che è sinfonia e rock, chitarra e metallo. Che crede nelle idee e meno nelle ideologie, che porta un braccialetto per ricordare la tragedia di Giulio Regeni, friulano come lui, e si stupisce quando gli chiedono il perché: «Non c'è nulla di politico, solo la sofferenza di due genitori che cercano la verità: da padre e marito non vorrei trovarmi in una situazione così». Lui che è padre e marito: «E la vittoria la dedico a me stesso e a mia moglie Anna».

De Marchi che da ieri è maglia rosa e dalla felicità stava quasi per piangere.

Foto: Luigi Sestili


Guido Bontempi, l'uomo di radio informazioni

Quante volte avete sentito parlare di Radio Informazioni nell'ambito di una corsa ciclistica? Ma, in realtà, cos'è Radio Informazioni?
Tutti ricorderete Guido Bontempi come ciclista, magari in maglia Carrera, non tutti saprete che la persona più adatta per raccontare il funzionamento di Radio Informazioni è proprio lui, visto che ne fa parte. «Se non ci fosse una diretta- spiega- saremmo noi gli occhi degli organizzatori, dei direttori sportivi e di tutte le persone, in corsa o agli arrivi, che necessitano di notizie fresche».
Nella pratica la faccenda è più complessa. In corsa ci sono due moto della “radio di gara” e le informazioni vengono dapprima trasmesse a un'auto e successivamente a una jeep. Il motivo è presto detto: la frequenza radio. Le nostre frequenze non hanno un segnale così potente da raggiungere l'arrivo, per questo è necessaria una mediazione.

Le due moto scelgono come posizionarsi: una starà sulla fuga ed una sul gruppo. «Non si può programmare, si vede che piega prende la gara e si agisce di conseguenza. Si decidono degli stop, ovvero dei rilevamenti, ed in quei punti si prendono i tempi. Può avvenire in coincidenza dell'ingresso in una città o in altri luoghi, di certo avviene con scadenze più ravvicinate sul finire di corsa. La prima moto segnala dove prendere il rilevamento e la seconda agisce di conseguenza. Da qui discendono anche le mosse dei direttori sportivi che, quando ricevono le nostre informazioni, decidono le tattiche di gara».
Il tutto coordinati dai regolamenti di gara, perché stare in corsa in moto è complesso e tutte le vetture devono attenersi a regole ferree. «Credo che una persona che non sia stata nel mondo del ciclismo, di più, che non abbia mai corso in bicicletta, non riuscirebbe ad affrontare un lavoro di questo genere. Serve attenzione estrema, la sicurezza di tutti è la priorità. Tra l'altro la situazione, in una gara professionistica, cambia molto velocemente e questo rende tutto più difficile. In linea generale le moto della polizia, della direzione e dei regolatori devono sempre stare a sinistra, le altre, ad esempio i fotografi, sempre a destra. Questo per evitare incidenti».

Alcuni cambi sono ammessi, ma solo in situazioni particolari ed in ogni caso vengono comunicati prima tramite una serie di collegamenti radio tra le vetture in gara. «Io sono collegato con l'auto a cui passo informazioni e sento radiocorsa, in questo modo la direzione informa anche noi di tutti i dettagli tecnici della strada, strettoie, curve pericolose od ostacoli. Le altre moto sono collegate sia a radiocorsa che alla direzione, mentre i fotografi solo a radiocorsa».
Bontempi è arrivato da poco in hotel quando gli telefoniamo, è sceso dalla moto ma la giornata non è ancora finita. Sta aspettando di visionare i comunicati ufficiali riguardanti la frazione del giorno seguente. «Una volta presa visione degli orari di partenza della gara noi decidiamo quando muoverci anche in base al tratto di trasferimento. Al mattino lasciamo i nostri bagagli a un furgone che alla sera li porta nell'albergo in cui alloggiamo. Se ci cercate, ci trovate già sul posto circa due ore prima della partenza della tappa».

Foto: Luigi Sestili


Tornare a guardare

Tornare a guardare. Sì, basterebbe questo per raccontare quello che abbiamo visto ieri sulle strade tra Stupinigi e Novara. Per parlare della fame che c'è in ogni persona che incontri qui al Giro. Vedere, sapere, conoscere ogni dettaglio di quelle biciclette che si riversano in strada. La stessa fame di chi, per molti giorni, ha dovuto accontentarsi della fantasia, dell'immaginazione, che è grande cosa, ci mancherebbe, ma l'essere umano ha anche bisogno della realtà, non può vivere solo nel ricordo, altrimenti, prima o poi, lo assale la paura che quella sia solo una scusa e che aspettare sia inutile perché le cose non torneranno più come prima. Ed invece no, perché le cose possono cambiare, si possono aggiustare ed in ogni caso si possono sempre migliorare.

Non serve spiegarlo a quella signora che era seduta sul bordo di una rotonda ad aspettare il passaggio della fuga, lo stesso bordo su cui sedevano altre persone e, ad un certo punto, ha detto: «In fondo basta fare più attenzione e sembra quasi la vita di prima». Certo, con qualcosa in più. Perché adesso ci stupiamo e prima, forse, avevamo perso questa abitudine.

Adesso, anche alle gare di ciclismo, restiamo qualche secondo in più a guardare quell'operaio di una ditta meccanica che esce in strada a vedere il passaggio con le mani ancora annerite dal grasso. Quel signore che sta sudando da ore sotto al sole ed ha l'ombra a pochi passi ma da lì non vede bene ed allora si accontenta di farsi ombra con il braccio e resta a sudare. Per non parlare di quella coppia di anziani che voltano il viso nello stesso preciso momento al solo sentire l'aria spostarsi. Perché il ciclismo è aria che sposta, vento che ti prende a pugni. Oppure quella ragazza che ha fame ed essendo distante da ogni negozio recupera dallo zaino un pacchetto di cracker sbriciolato e non sapete che fatica fa a mangiare quelle briciole, perché c'è un leggero vento e deve già tenere in mano lo striscione e quelle briciole o cadono a terra dal pacchetto aperto male o volano via come il polline.

Già il polline, perché ieri c'era anche qualcuno con gli occhi arrossati ed il naso da cui quasi non passava più l'aria, maledetta allergia. Eppure è stato accanto alla transenna, non ha mollato di un centimetro. «Se si richiudesse tutto, un momento così lo rimpiangerei a vita. Tanto di allergia non si muore». E c'è chi ti ringrazia solo perché gli hai spiegato perché le moto in corsa stanno a sinistra: «Non me lo aveva mai detto nessuno». Che non è una frase scontata come può sembrare. Ha un peso importante.

E ci siamo noi, che dovremmo essere abituati a tante situazioni perché il ciclismo lo viviamo, perché di ciclismo viviamo. Invece, in macchina, ci voltiamo l'uno verso l'altro e gridiamo: «Guarda là!».
Sì, perché tutte queste cose le abbiamo sempre viste, ma solo quando ci sono state negate, siamo riusciti a tornare a guardarle. Questo è il bello di questo Giro, che si guarda, non si vede solamente.

Foto: Luigi Sestili


Aza e Filippo

La storia che vi raccontiamo oggi parte dalle vie del mercato di Torino, accanto all'Arsenale della Pace. Lì dove c'erano le armi, ora c'è un punto di ritrovo per madri sole, carcerati, stranieri, per tutti coloro che hanno bisogno di cura o di lavoro. In una piazzuola c'è un albero col tronco tinto dei colori del tramonto. Noi chiediamo il perché ad Aza, una ragazza eritrea che passa di lì. «Mia madre- ci spiega- mi raccontò che in un villaggio, da noi, si dipingevano le cose dei colori che le nutrivano, che le facevano star bene, e questo era un atto di cura. Non so, magari è successa la stessa cosa qui».
Qualche passo assieme, parlando, poi Aza fissa la bicicletta di un ciclista in ricognizione e noi le chiediamo se le piacciano le biciclette. Lei ci racconta della sua di quando era bambina: «Aveva un cesto davanti, anche qui si usa e le donne ci mettono la borsa. Il mio cestino era di vimini ed i vimini li avevo intrecciati io. Alcuni erano completamente sfilacciati e si lasciavano andare». Eppure spiega di non aver mai pensato di cambiarla e, se oggi non l'ha più, è solo perché gliel'hanno rubata.

La bicicletta di Aza non aveva nulla a che vedere con quella di Filippo Ganna, di questo siamo certi. Aza non conosce neppure Ganna e certamente neanche Ganna la conoscerà. Eppure, quando abbiamo sentito parlare la prima maglia rosa di questo Giro d'Italia, ci è tornata in mente proprio lei.
Ci è venuta in mente quando Ganna ha ricordato le polemiche dei giorni scorsi. «Ho sentito molte parole negli ultimi tempi. Ho preso tanti schiaffi negli ultimi tempi ed è giusto così. Qualche volta cedi, è normale. Sei un uomo e gli uomini si stancano, si fermano. Se non cedi mai, qualcosa non va». E poi ha aggiunto: «Certo che, quando leggi o senti certe cose, ci pensi e quando ci pensi ti blocchi, ti chiedi perché si dicano quelle cose».

Ci è venuta in mente quando Ganna ha raccontato della sua squadra di quest'anno e dell'anno scorso. «L'anno scorso ci siamo uniti quando è successo l'incidente a Geraint Thomas. Eravamo in ginocchio in quel momento e dovevamo trovare un modo per ripartire. Se non fosse accaduto, sarebbe stata la fine. Siamo stati bravi a capirlo, siamo stati coraggiosi a ricominciare». E, sorridendo: «Nei momenti difficili accadono cose bellissime. Ora sono contento di questa maglia, ma venti tappe sono tante e magari verrà il momento in cui i miei capitani faticheranno e dovremo supportarci ed anche sopportarci perché quando le cose vanno male si è tutti più nervosi. Bisogna accettarlo ed imparare a fare il proprio dovere divertendosi, anche quando è più difficile».

Ed in fondo è tanto difficile da mettere in pratica ma è così logico, così naturale. Come per la madre di Aza dipingere un albero per prendersene cura, come per Aza quel cestino di vimini sfondato. Siamo noi a complicare tutto, anche questo dice Ganna. Aza non lo dice, ma dal suo sguardo si intuisce. Per questo Aza e Filippo Ganna si somigliano. Perché sanno che molte cose sono semplici e vanno vissute così, in modo genuino, leggero. Per se stessi prima di tutto.

Foto: Luigi Sestili