COME LA TERRA DEL FRIULI
[Giro Alvento – Giorno 6]

Alessandro De Marchi l’aveva detto qualche tempo fa, in un’intervista a Bidon: «Al Friuli e ai friulani devi entrarci dentro, conoscerli bene. Una volta che sei dentro hai una visione completamente diversa». Non vale solo per la terra, vale anche per gli uomini e la fatica, vale per gli attaccanti ed i gregari. Vale per lui che è uomo di terra, di fatica, attaccante e gregario. Tutto assieme.

Così c’è molto altro oltre quello sguardo indiavolato sulla «salita dei matti», impastato di lentiggini e sudore, oltre quel ghigno di rabbia e di sofferenza, a denti stretti, a pochi metri dal traguardo di una tappa d’altri tempi tra Piacenza e Sestola. Ci pensava dal mattino De Marchi, pensava che sarebbe potuto succedere ma così no, così non l’aspettava. Perché? Perché tante volte non era andata bene ed «alla fine ti abitui anche a quello». Ha avuto paura perché quando le cose te le immagini, rinunciarci è sempre più difficile. «Temevo che franasse tutto, temevo di restare a mani vuote come tante altre volte».

C’è orgoglio visto che il “Rosso di Buja” ha iniziato a correre a sette anni, ora ne ha trentacinque e «potete immaginare cosa c’è in mezzo».
Per esempio, in mezzo, c’è quella sera in cui andò da Davide Cassani che lo aveva convocato per un ritiro della nazionale e, non riuscendo a vincere da tempo, chiese: «Cosa devo fare per essere un azzurro al mondiale?». Disarmante e disarmato con la semplicità che ti lascia l’aver sofferto. Già, perché De Marchi è passato professionista a venticinque anni e rischiava di non passare: si chiedono numeri, vittorie e lui dava spettacolo ma non riusciva a vincere. Se li ricorda quei giorni, se li ricorda bene.

Forse intendeva proprio questo quando ha detto: «Mi sento fuori posto con questa maglia». Intendeva che poi ciò che ti accade ti segna sempre e tutte le volte in cui ci hai provato e non ci sei riuscito bruciano, anche se non lo dai a vedere. Perché non è giusto, perché tanto chi non ti conosce non capirebbe.

Ne ha sentite di parole Alessandro De Marchi. «Il mondo certe volte ti chiede l’impossibile e non accetta il fatto che in quel momento non puoi riuscirci. A Filippo Ganna consiglio di fregarsene». Non che sia una dote il menefreghismo, ma è l’unica possibilità per salvarsi, talvolta.

De Marchi che ascolta Ludovico Einaudi, Bob Marley e Bruce Springsteen, che è sinfonia e rock, chitarra e metallo. Che crede nelle idee e meno nelle ideologie, che porta un braccialetto per ricordare la tragedia di Giulio Regeni, friulano come lui, e si stupisce quando gli chiedono il perché: «Non c’è nulla di politico, solo la sofferenza di due genitori che cercano la verità: da padre e marito non vorrei trovarmi in una situazione così». Lui che è padre e marito: «E la vittoria la dedico a me stesso e a mia moglie Anna».

De Marchi che da ieri è maglia rosa e dalla felicità stava quasi per piangere.

Foto: Luigi Sestili