Alaphilippe non è cambiato

È possibile andare in fuga senza avere un obiettivo, un traguardo preciso? È possibile farlo addirittura nella tappa della doppia ascesa al Mont Ventoux? Ha senso una scelta di questo tipo? Julian Alaphilippe lo ha fatto e non ha rimpianti.

Difficile da spiegare, soprattutto usando la ragione che ha come prerogativa l'associazione di causa ed effetto. Per trovare una risposta bisogna andare oltre. A tutti i ciclisti interessa la vittoria, Pinot se l'è addirittura tatuato quel significato, “solo la vittoria è bella”. Ci può però essere un piacere particolare che con la vittoria non ha nulla a che vedere. Qualcosa di tanto più importante, quanto più sei arrivato in alto.

Alaphilippe veste la maglia di campione del mondo e apparentemente non può chiedere altro. In realtà quell'arrivo al traguardo di Malaucène e le successive dichiarazioni sono una richiesta e insieme un messaggio. «Volevo attaccare e l'ho fatto da subito. Per me oggi c'era un Ventoux di troppo. Perché ho attaccato? Perché ne avevo voglia, non basta? Non punto alla maglia a pois, vesto già una maglia molto bella ed è sufficiente. Però raramente mi sono sentito bene come mentre attaccavo, anche se sapevo che difficilmente saremmo arrivati al traguardo. Mi sentivo libero, qualcosa di speciale».

C'è la contentezza per essere passato per primo sul Ventoux alla prima ascesa, ma non solo. Soprattutto c'è un avvertimento: forse, a forza di vincere, di diventare importanti, si perde quell'istinto che, in fondo, è stato il primo a farti salire su una bici, quello che ti faceva fare gli errori più grossi nelle categorie giovanili perché sembravi uno scriteriato e probabilmente lo eri. Quello stesso che preservava la tua voglia di svegliarti alle sei la domenica mattina e di andare a letto alle nove il sabato. Quello che ti faceva pensare che, con una bici in mano, avresti potuto fare di tutto. Buttare via tutto questo solo perché sei “diventato”? Forse è così che si spengono i migliori talenti, sotto il peso di ciò che devono fare perché lo chiedono gli staff, gli sponsor o il pubblico e non di ciò che vorrebbero fare. No, non si può.

Molte cose sono cambiate attorno ad Alaphilippe da quei giorni. Lui no, non si è fatto cambiare e ogni attacco ne è la prova tangibile. Questa è la storia da raccontare, questa la bella notizia.


Salvarsi dal Ventoux

Quando gli ultimi corridori iniziano ad arrivare sul Ventoux, le urla si trasformano in applausi, nel silenzio della terra che, spostata dall'elicottero delle riprese, si infila anche sotto il casco dei motociclisti. «I primi vanno incitati - ci spiega un signore - mentre gli ultimi vanno incoraggiati».

Resta la strada che quassù è matrigna: ti inganna con la bellezza del paesaggio e poi ti prende a schiaffi. Il traguardo fa lo stesso: lo vedi, è lì, ma non lo superi mai, sembra un miraggio. Raphaël Geminiani lo disse a Ferdi Kübler quando lo vide partire, quasi in preda a un'ossessione, sotto il caldo di quel pomeriggio di luglio del 1950. «Attenzione Ferdi, il Ventoux non è una montagna come le altre». E quello, assetato di successo: «Nemmeno Ferdi Kübler è come gli altri».

Venti chilometri dopo, lo trovarono agonizzante a bordo strada, il sudore ovunque, il respiro finito. Qualche anno più tardi, nel giorno del suo ritiro, disse: «Ferdi è vecchio, è stanco, ha male. Ferdi si è ucciso tanti anni fa. Il Ventoux lo ha ucciso». Non c'è pietà qui, la strada non ha pietà. Al massimo qualche ricordo, per Tommy Simpson, ad esempio. La figlia, Joanne Simpson, proprio ieri ha raccontato a “L'Equipe” che solo un ricordo si salva da questo dolore. «Quando tornava a casa dagli allenamenti, apriva il frigorifero, prendeva il latte e lo beveva dalla bottiglia. Tutte le volte che vedo una bottiglia di latte mi viene in mente».

Tutto quello che puoi sperare, puoi sperarlo dalla gente, dai tifosi forse. Che hanno portato decine di biciclette vicino all'osservatorio e si siedono accanto ai sacchi a pelo. «Tu es le même que toujours» grida una tifosa a Geraint Thomas che passa attardato e scuote la testa. «Sei lo stesso di sempre» che non è vero, non può essere vero, se uno come Thomas arriva con minuti di ritardo al primo passaggio sul monte calvo. Ma Virenque ha raccontato che, quando sentiva i tifosi urlare il suo nome in salita, aumentava di due denti il rapporto rispetto agli avversari, perché “è doveroso“. Magari Thomas ha fatto lo stesso o quanto meno l'intenzione della tifosa era quella e va bene così. A prescindere da verità o bugie.

Soprattutto, però, sul Ventoux ti salvi da solo, come su qualunque altra strada della vita. Wout van Aert ci è riuscito ieri e quando ha dovuto spiegarlo ai giornalisti è stato molto chiaro. «Se ci provi e ci riprovi, è sicuro che prima o poi ci riesci. Se, al primo ostacolo, ti fermi, è altrettanto certo che non ce la farai mai». Non perché tu non ne sia capace, ma perché non ci stai più provando.


Non abbiamo bisogno di eroi

«Alcune sere ti chiedi: ma come devo fare a ripartire domani mattina? Non è possibile». L'ha ammesso Benoît Cosnefroy in un'intervista qualche giorno fa. Al francese dell'Ag2R Citroën facevano male la gambe lunedì. Peggio: gli facevano talmente male che già sapeva che anche il giorno dopo sarebbe stato lo stesso, forse anche peggio. «Sai che passerà questa settimana, ne verrà un'altra e poi un'altra ancora. Sai che andrai comunque all'arrivo e, un giorno dopo l'altro, arriverà anche Parigi. Forse va tutto talmente veloce che finisci per abituarti a questa fatica cronica». Cosnefroy è ripartito anche ieri mattina e ben pochi, forse nessuno, ha immaginato tutto ciò che gli è passato per la testa in tanti di questi giorni.

Sono dubbi che spesso non escono da una camera d'albergo, ma sono ben presenti in molti. Dubbi che spesso non si raccontano nemmeno perché da un ciclista tutti si aspettano che sia addestrato alla fatica e che la affronti con disprezzo. «La stessa cosa vale per i medici e il dolore» ci dice Marie, dottoressa presente a Valence con cui iniziamo a parlare per puro caso e apparentemente di altro.

«Quei dubbi li capisco bene. Durante la pandemia non ho contato le sere in cui sono tornata a casa e chiamando mia madre ho detto: “Mi spiace per il denaro che tu e papà avete speso per l'università, ma voglio lasciare tutto. Cerco un altro lavoro, questo non fa per me”. Dopo ogni telefonata la promessa: “se domani sera sto ancora così male, lascio”. Dall'altra parte sua madre ad ascoltare, senza dire una parola. E poi c'erano quelle voci, quelle che le dicevano che i medici, quelli “veri”, sanno reagire e ogni mattina si alzano dal letto e vanno in ospedale orgogliosi di provare a salvare vite. Lei, forse, le dicevano, era troppo fragile per essere dottoressa.

«Questi dubbi li hanno tutti, i medici come i ciclisti, perché non ci sono superuomini e, un giorno o l'altro, capita di non sentirsi all'altezza. Il fatto è che è normale, bisogna saperlo. Quando lo capisci, vai a letto presto una sera, spegni tutto e aspetti arrivi mattina perché sai che è un momento. Ti assicuro che i medici veri fanno così. Forse anche i ciclisti». Certo e bisogna anche dirlo che è normale perché solo sapere che ciò che ti sta accadendo è nella normalità delle cose ti può dare la forza per affrontarlo. Che sia un Tour de France, come per Cosnefroy, o una vita in ospedale, come per Marie. Perché degli eroi si può anche fare a meno, se ci sono gli esseri umani.


À la bonne franquette

Ad Albertville, sui tavolini dei bar all'aperto, ieri pomeriggio, si sfogliava L'Equipe. In realtà, L'Equipe, durante il Tour de France, la si trova ovunque, persino nei cestini di qualche bicicletta da passeggio, aperta sull'altimetria di tappa. Due imbianchini, intenti a riverniciare un pub, a pochi passi da noi, ci hanno fatto il cappello, arte umile e antica. Quel locale, in piena ristrutturazione, è addobbato con ghirlande gialle, verdi e a pois del Tour e loro, pur di non toglierle, fanno acrobazie per spostare la scala. «À la bonne franquette», ci dicono.

Sì, poche parole e molti significati. Perché «à la bonne franquette» per un francese significa semplice, umile, franco, ma non solo. «Noi siamo à la bonne franquette perché domani intravederemo il passaggio della corsa con il secchio di vernice in mano e, al massimo, una birra appoggiata sull'ultimo gradino della scala». In realtà, spiegano, per un francese dal Tour si va proprio così, “à la bonne franquette” perché «il ciclismo stesso insegna a metterti sulla strada come e quando capita, senza troppe complicazioni».

À la bonne franquette, allora, è quel ragazzo che a Tignes, per proteggersi dalla pioggia, ha messo una sedia di tela sotto una galleria e invece di sedersi vi ha lasciato qualche souvernir raccolto dalla carovana. Oppure quella signora che, sotto il diluvio, ha costruito un'improbabile tenda con una giacca appesa fra due rami di un albero. Quei ragazzi che, pur di farsi sentire, agitavano il campanaccio di una mucca e quello che ha tirato fuori dallo zaino un panino zuppo d'acqua e lo ha mangiato lo stesso perché «sennò perdo il passaggio». Allo stesso modo sono coloro che da oggi sono accampati sul Ventoux fra carne grigliata e pranzi condivisi perché «qualcuno ha lasciato a casa il sale, qualcuno l'aceto e qualcuno l'olio» e allora si chiede al vicino di camper o di tenda. Ma anche chi improvvisa il dialetto, non parlando francese, e riesce a farsi capire. À la bonne franquette è pure chi sulla strada proprio non ci sarà, quel meccanico italiano che ha chiesto al principale della sua ditta di poter tenere accesa la radio e ha portato la vecchia radio di suo padre che era stato partigiano e tifava per Bartali.

À la bonne franquette come si va alle corse e al Tour de France. «Perché, con tutte le comodità a cui siamo abituati, potremmo sembrare pazzi a rinunciare a tutto e a fare quella fatica per vedere una corsa e a farlo ogni anno, a costo di spostarsi chilometri e chilometri. Eppure, quando provi, scopri che vivere “à la bonne franquette” non è così male». Perché le cose di cui hai veramente bisogno sono davvero poche. Forse tutte quelle che contiene uno zaino e una tenda arrabattata sulle Alpi o sui Pirenei. O nella sala di casa, quando da bambino, pur avendo tutto lo spazio, portavi i tuoi giocattoli preferiti in quell'angolo e non ti mancava nulla.


Diventare uomini

Quando Nicholas Dlamini ha tagliato il traguardo di Tignes, il tempo massimo era già scaduto da un pezzo e questo significa solo una cosa: si va a casa. Pensare che qualche giorno fa era felice, perché era stato selezionato per le Olimpiadi di Tokyo e aveva saputo di essere stato convocato per il Tour de France; il primo sudafricano di colore a parteciparvi. «Nella mia città, a Capetown, saresti famoso allo stesso modo se avessi in tasca una pistola. Saresti più rispettato per possedere una pistola o sparare a qualcuno, purtroppo è un posto in cui fare le cose sbagliate ti porta a essere apprezzato. I giovani vogliono diventare gangster perché tutti guardano ai gangster».

Dlamini, in sella, vuole raccontare che c'è modo e modo per farsi conoscere e per farsi apprezzare e ci riuscirà lo stesso, anche se questo Tour farà a meno di lui.

Al traguardo, ieri, Nicholas Dlamini è arrivato troppo tardi. Così tardi che, tra il freddo e la pioggia, a quasi duemila metri, il pubblico proprio non te lo saresti aspettato. Invece, anche più di mezz'ora dopo la vittoria di Ben O' Connor la gente applaudiva e gridava allo stesso modo. “Bravo” ha detto una signora. Anzi, per la precisione Geraldine, questo il nome della signora, ha detto “Bravò”, perché siamo in terra francese, non dimentichiamolo. Ma sono dettagli.

Non è un dettaglio, invece, la sua risposta quando le abbiamo chiesto cosa l'avesse colpita di questo ragazzo. «Che è arrivato, che ha finito qualcosa che aveva iniziato. Tifare per i primi è facile e per i primi è anche più facile arrivare. Chi glielo ha fatto fare di arrivare? Eppure è arrivato». Quel giorno, Nicholas aveva spiegato che, ora che era stato convocato al Tour e alle Olimpiadi, quei ragazzi avevano visto che tutto è possibile. Oggi lo hanno visto ancora meglio.

Soprattutto hanno visto, e se non lo hanno visto glielo raccontiamo noi, che, nella vita, non serve essere il più forte a tutti i costi per avere qualcuno che ti stimi o ti rispetti. Che si tratti di gangster o di ciclismo, per quanto le due cose siano diverse. Non serve neppure essere il più bravo o il fenomeno di turno. Basta fare onestamente quello che si può e si sa fare, niente di più e niente di meno. E qualcuno che lo vede e si mette dalla tua parte lo trovi. Anche a costo di aspettarti, quando sei fuori tempo massimo. Nella vita o nel ciclismo.


La fantasia di Tadej

Tadej Pogačar lo aveva detto venerdì sera: «Ho sbagliato a non cogliere l'attimo quando è andata via la fuga». La sua squadra era stata isolata, la fatica raddoppiata e lui ha ammesso l'errore. Poteva essere pericoloso, un segnale di debolezza dato agli avversari, alla vigilia di due tappe alpine, con tutte le possibilità per attaccare e lasciarlo a inseguire. Non gliene è importato.

Ieri mattina, la squadra sapeva che avrebbe attaccato, il presentimento lo avevamo tutti, a dire il vero. Ha anticipato lo scatto e lo hanno visto andare via ai meno trenta, sotto il diluvio. La saggezza avrebbe consigliato di aspettare, di piazzare lo scatto secco nel finale, perché azioni del genere non sono meno pericolose di quella spietata sincerità. Invece no, Pogačar ha dato retta alla fantasia, anche se poteva costare cara, perché, perdere minuti a fiotti, mentre provi a guadagnarli, non è così raro. Ha messo alle corde gli avversari, è arrivato stremato, si è liberato dal casco e si è disteso sulla bici a riprendere fiato.

Oggi, Pogačar ripartirà sapendo di essere controllato a vista. «Ora ci attaccheranno tutti- ha detto ieri Formolo- siamo la squadra da tenere d’occhio. Ma abbiamo la maglia gialla, finalmente». La gente, di nuovo sui tornanti, si è entusiasmata e non aspetta altro che la tappa di oggi, perché vuole vedere come va a finire e immagina i finali più inconsueti, utopici, devastanti. Perché, per quello che sta mostrando questo Tour, possono manifestarsi.

Accade quando usi la fantasia e ti butti come l’acrobata senza rete. Come Pogačar meno di ventiquattro ore fa. Non sai come va a finire, ma, come scriveva qualcuno, non serve saperlo. Certe volte, nella vita, bisogna dare retta alle sensazioni. Il fine non è essere impeccabili. Certo, può capitare di sbagliare: in quel momento, starai in silenzio e pagherai l’errore, la crisi e i minuti che se ne vanno. Solo in quel momento.

Tutti aspettiamo Pogačar, van der Poel o van Aert non solo perché fanno questo come ciclisti. Li aspettiamo perché rappresentano un modo di fare e di essere anche nelle piccole cose della vita quotidiana di ognuno. Un modo a cui, spesso, non ci si affida per paura. Così, quando abbiamo visto Pogačar, abbiamo pensato a cosa può accadere se solo si coglie il coraggio di buttarsi. Oggi è domenica. Domani riprenderemo la settimana con una consapevolezza in più.

Foto: ASO


Il divenire di Guillaume Martin

Cosa potrà fare Guillaume Martin in questo Tour? Difficile dirlo, anche perché le definizioni non gli sono mai piaciute. Nemmeno le etichette. Sia le une che le altre limitano ciò che è una persona e Guillaume non ci sta. «Si tratta di una semplificazione - spiega nel suo libro “Socrate à Vélo”- perché le persone non sono in questo o in quel modo, cambiano continuamente. Le cose che ci circondano sono in un modo o nell'altro, l'uomo diventa». I più grossi torti che si fanno agli uomini, si fanno proprio perché non si riconosce questa loro caratteristica essenziale. Così si mette un'etichetta, spesso a causa dei primi comportamenti tenuti durante la conoscenza e via.

«Tutti dicono che Alaphilippe metta molta passione in sella, quasi fosse solo istinto, e si dimenticano dei sacrifici che fa, perché solo con la passione, senza impegno e sacrificio, non si va da nessuna parte. Di Froome invece si diceva l'opposto: quasi fosse solo testa senza alcun entusiasmo. Quando, anni fa, attaccò sul Peyresourde non mi sembrò come lo descrivono» raccontava in un'intervista qualche mese fa. Del resto, è stato lui stesso a sperimentare il peso di quelle definizioni nel momento in cui tutti hanno iniziato a dire che era l'intellettuale del gruppo, come facevano con Laurent Fignon, in quel caso solo per un paio di occhiali.

«Mi sono messo a scrivere proprio per spiegare che non sono solo un intellettuale o un ciclista intellettuale. Le persone saranno sempre interessate a questo. Ora lo sopporto meglio, all'inizio facevo fatica. La realtà è che non vorrei essere ricordato solo come un ciclista-filosofo». Guillaume accetta il giudizio, anzi lo ricerca, sia quando scrive che quando pedala, purché le due cose non si confondano e si distingua il ciclista dallo scrittore.
Soprattutto Guillaume Martin non si definisce, non si fa definire e si sente libero di fare ciò che crede. Perché questa, in ogni caso, sarà la sua forza: sfuggire a ciò che il contorno gli imporrebbe per inventare qualcosa di nuovo che nessuno ancora immagina. Sfuggire a ciò che tutti vorrebbero fosse, per diventare.

Foto: Cofidis


Un gesso e una lavagna

Una lavagna in pietra ardesia nera, un gessetto bianco e qualche numero. In fondo è tutto quello che serve a un ardoisier, termine quasi onomatopeico, come il sibilio del gesso sulla lavagna, che racconta un mestiere del vecchio ciclismo che è sopravvissuto al tempo. Così, ancora oggi, in corsa vedete la moto ardoisier che fa la spola tra il gruppo e i fuggitivi per indicare i distacchi e la composizione della fuga. Il tutto così, facendo uso dei due strumenti più semplici che ci siano, quelli che conosciamo la prima volta che entriamo in un'aula scolastica. Per il resto bastano un casco e una divisa gialli, come la maglia gialla.

Eppure non è scontato, come tante altre cose. Pensate a un insegnante di educazione fisica in Burkina Faso, a Ouagadougou, che ogni tanto, quando passa il Tour del Burkina Faso, può uscire dalle aule di scuola e mettersi sulle strade con i suoi ragazzi a vedere i ciclisti. Si chiama Michel Bationo e la prima lavagna e il primo gessetto li ha tenuti in mano proprio sulle strade polverose della sua città. Bationo è uno di quegli uomini che ha sogni grandi e che non ha paura di raccontarli, anche se qualcuno potrebbe prenderlo per matto. «Se un giorno potessi, mi piacerebbe andare a lavorare al Tour de France, essere l'ardoisier del Tour».

Qualche mese dopo, il Tour chiama e lui risponde. È il 2002 quando parte per la Francia come racconta ai quotidiani locali: «Non ero mai stato in un aeroporto prima di quel giorno, non avevo mai visto le scale mobili, soprattutto non avevo mai visto la neve sui monti mentre si vola. Ho scattato delle foto». Michel sorride sempre e fino al 2007 resta l'ardoisier del Tour. «Jalabert una volta mi ha detto: “facciamo cambio; io salgo in moto e tu vai in bici”. Mi sembrava incredibile che un ciclista mi chiamasse per nome e mi parlasse». La stessa sorpresa l'ha provata quando qualche corridore ha accettato di farsi fotografare con lui: «Cosa gliene fregherà mai di un ardoisier, mi dicevo, e invece...».

Così un centometrista burkinabè è arrivato al Tour e vi è restato come chi, in fondo, vi era sempre stato anche se materialmente era molto lontano. Già, perché forse i sogni si vedono meglio da lontano. Forse dovremmo imparare anche noi.

Foto: Bettini


Biglie in frantumi

C'era la luce lacrimante degli ultimi pomeriggi di giugno, mentre Primož Roglič camminava a fatica verso l'ammiraglia, stanco, medicato ovunque, fra la pelle che brucia, grattata a terra come in una grattugia, e i cerotti e le bende che sfregano ad ogni movimento. Lo sloveno, da tutti immaginato inscalfibile, quasi insensibile, ha poche parole, pronunciate a fatica ai giornalisti de “L'Equipe” in un silenzio assordante, fra gli ultimi rumori della sera di Pontivy: «Non ho niente di rotto, ho ferite e tagli ovunque. È un giorno nero, schifoso: per la fatica che facciamo, nessun ciclista merita questo. Proverò a lasciar passare i prossimi giorni, fino a quando sarò in corsa mi batterò perché tutto è ancora possibile».

Sotto quelle medicazioni c'è un dolore particolare. Non solo quello fisico della carne che grida vendetta ogni volta in cui il medico disinfetta la ferita o delle notti sudate, in piedi o su una sedia perché, appena ti muovi, il lenzuolo sembra accoltellarti. È il dolore della sfortuna che ritorna, delle troppe cose che hai già visto e che temi di dover vedere ancora. Roglič è arrivato a chiedersi se al male debba abituarsi, perché sembra non riuscire più a scrollarselo di dosso. «Non sono fatto per questo, non sono nato per tutta questa sofferenza» disse alla Vuelta del 2019, mentre Lora, la sua compagna, gli gridava contro dalla rabbia, perché quella è la frase di chi sta iniziando ad arrendersi, a mollare la presa. «Deve ricordare ciò che ha già fatto e che credeva impossibile. È il solo a poter realizzare cose come quelle che fa ogni giorno, il suo lavoro non è stato vano, deve comprenderlo». Quella Vuelta, poi, la vinse.

Primož Roglič ci ha pensato spesso, per esempio ad agosto 2020, su una terrazza di uno chalet, dopo la terribile caduta sulle strade dell'Alta Savoia. «Ero in silenzio, da solo. Pensavo a tutto il tempo che avevo passato lontano dai miei familiari, ad allenarmi duramente, poi vedevo gli orribili ematomi che avevo sul corpo e che non mi permettevano di pedalare».

Ma arrivi a un certo punto in cui non ti può bastare la capacità di soffrire e reagire. Non vuoi essere un eroe che si rialza sempre. Vuoi poterti concederti il lusso di restare a terra qualche minuto di più, di rialzarti se e quando vorrai, di essere sereno e senza male ovunque. Per questo la tentazione del rifiuto, perché tutti ti chiedono di resistere, ma resistere fa male.

Ma quella è vita. Quelle sono le biglie andate in frantumi di cui parlava Baricco, gli errori e le delusioni che si appiccicano ovunque mentre la gente ti addossa ciò che non sei, senza nemmeno conoscerti. Poi arriva un giorno in cui, anche sotto il cielo ingrato di Bretagna, senti che non ti interessa più, perché, mezzo disfatto, provi sollievo al solo pensiero di andare avanti. «Quando sono in momenti come questi mi dico sempre che sono stufo e non ce la faccio più. La realtà è che esistono e vanno vissuti, non messi da parte. Nessuna recriminazione li cambierà. Poi passano e ogni volta che sono alle spalle trovo i motivi per ricominciare e faccio un elenco di quelli per cui amo il ciclismo». È forse quello il giorno in cui ti salvi: quello in cui sai che, nonostante tutto, passerà.

Foto: Bettini


Il primo passo per ripartire

Sonny Colbrelli, stamani, è andato subito a cercare Roglič. Voleva parlare con lo sloveno e provare a chiarire quel gesto di stizza di ieri pomeriggio, proprio nel giorno in cui il corridore Jumbo Visma, cadendo, si è ferito in ogni dove. «Ho fatto quel gesto perché non capivo dove volesse passare, ma me ne sono pentito subito quando l'ho visto cadere. Ho avuto paura, per questo mi sono innervosito». Non ha voluto nemmeno parlare dei dubbi sui percorsi o sulla frenesia di corsa, «sinceramente ora come ora non mi interessa, voglio solo capire come sta Roglič e scusarmi».

All'apparenza può voler dire poco, in realtà racconta perfettamente questo viaggio in Francia, anche quello di oggi, su un piattone tra Redon e Fougéres. Un viaggio che è soprattutto comprensione, perché i ciclisti si conoscono e sanno bene quali siano i sacrifici di chi corre al loro fianco. A questo ha pensato Colbrelli quando ha visto Roglič a terra e quando lo ha visto pieno di fasciature al villaggio di partenza: a tutto ciò che quella caduta poteva buttare alle ortiche. Si è scusato perché quel “va a quel paese” non l'avrebbe mai accennato con più calma, perché ieri, se fosse stato un metro più avanti, sarebbe franato addosso a Ewan e si sarebbe ritrovato nella stessa situazione. I corridori queste cose le sanno.

Kwiatkowski, ad esempio, ha fatto il buco ai propri compagni per permettere a Alaphilippe di agganciare la ruota del suo treno. Poteva non farlo e non sarebbe cambiato molto, lo ha fatto perché sapeva che lui, nella situazione del francese, avrebbe avuto necessità di prendere quella ruota a tutti i costi, oggi invece no, oggi quella ruota poteva lasciarla, poteva capire. Come le pacche sulla schiena che si danno in gruppo per segnalare a un corridore di spostarsi, lo sguardo di assenso dei corridori in fuga come il gruppo rinviene, la scia delle ammiraglie anche per gli avversari in difficoltà.

Perichòn e Van Moer hanno condiviso la fuga, ma con un passato diverso. Van Moer stamattina ha parlato con il suo capitano, con Caleb Ewan, che malconcio, ha voluto partecipare alla riunione di squadra. Lo ha sentito dire: «Sono orgoglioso di voi» e siamo certi che in fuga se lo sia ricordato, quando i suoi compagni rompevano i cambi dietro e persino quando ai trecento metri il gruppo lo ha inghiottito senza pietà.

Capire metro dopo metro. Quello che Mark Cavendish ha fatto in questo Tour e ben prima nella sua vita. Quando vinceva e sembrava quasi arrogante, troppo sicuro di se stesso, forse qualcosa ancora gli sfuggiva. Non sapeva cosa volesse dire non riuscire più a fare ciò che ti era naturale, perché un virus ti ha talmente debilitato da non sapere più chi sei, mentre la gente non lo capisce e chiede, pretende. Ha compreso cosa significhi sentirsi nessuno e non avere altro pensiero che quello di poter tornare a credere al fatto che la serenità esista. Piangeva quando ha lasciato, piangeva lacrime pesanti.

Cavendish che aveva già vinto trenta tappe al Tour ed ha gioito come fosse alla prima, Cavendish che, con altre tre vittorie, uguaglierà Eddy Merckx. Poi ci sono i suoi compagni, gli altri atleti del gruppo, che, in fondo, sono contenti per Cavendish, perché sanno, perché vivendo nel plotone hanno capito tanto la necessità di fermarsi, quanto quella di ripartire.

Hanno avuto le sue stesse paure, almeno qualche volta e oggi hanno un motivo più per credere. Sì, perché se lo hanno fissato bene mentre piangeva sull'asfalto, oggi, hanno capito qualcosa in più. Non bisogna aver paura di fermarsi: è il primo passo per ripartire.