C’era la luce lacrimante degli ultimi pomeriggi di giugno, mentre Primož Roglič camminava a fatica verso l’ammiraglia, stanco, medicato ovunque, fra la pelle che brucia, grattata a terra come in una grattugia, e i cerotti e le bende che sfregano ad ogni movimento. Lo sloveno, da tutti immaginato inscalfibile, quasi insensibile, ha poche parole, pronunciate a fatica ai giornalisti de “L’Equipe” in un silenzio assordante, fra gli ultimi rumori della sera di Pontivy: «Non ho niente di rotto, ho ferite e tagli ovunque. È un giorno nero, schifoso: per la fatica che facciamo, nessun ciclista merita questo. Proverò a lasciar passare i prossimi giorni, fino a quando sarò in corsa mi batterò perché tutto è ancora possibile».

Sotto quelle medicazioni c’è un dolore particolare. Non solo quello fisico della carne che grida vendetta ogni volta in cui il medico disinfetta la ferita o delle notti sudate, in piedi o su una sedia perché, appena ti muovi, il lenzuolo sembra accoltellarti. È il dolore della sfortuna che ritorna, delle troppe cose che hai già visto e che temi di dover vedere ancora. Roglič è arrivato a chiedersi se al male debba abituarsi, perché sembra non riuscire più a scrollarselo di dosso. «Non sono fatto per questo, non sono nato per tutta questa sofferenza» disse alla Vuelta del 2019, mentre Lora, la sua compagna, gli gridava contro dalla rabbia, perché quella è la frase di chi sta iniziando ad arrendersi, a mollare la presa. «Deve ricordare ciò che ha già fatto e che credeva impossibile. È il solo a poter realizzare cose come quelle che fa ogni giorno, il suo lavoro non è stato vano, deve comprenderlo». Quella Vuelta, poi, la vinse.

Primož Roglič ci ha pensato spesso, per esempio ad agosto 2020, su una terrazza di uno chalet, dopo la terribile caduta sulle strade dell’Alta Savoia. «Ero in silenzio, da solo. Pensavo a tutto il tempo che avevo passato lontano dai miei familiari, ad allenarmi duramente, poi vedevo gli orribili ematomi che avevo sul corpo e che non mi permettevano di pedalare».

Ma arrivi a un certo punto in cui non ti può bastare la capacità di soffrire e reagire. Non vuoi essere un eroe che si rialza sempre. Vuoi poterti concederti il lusso di restare a terra qualche minuto di più, di rialzarti se e quando vorrai, di essere sereno e senza male ovunque. Per questo la tentazione del rifiuto, perché tutti ti chiedono di resistere, ma resistere fa male.

Ma quella è vita. Quelle sono le biglie andate in frantumi di cui parlava Baricco, gli errori e le delusioni che si appiccicano ovunque mentre la gente ti addossa ciò che non sei, senza nemmeno conoscerti. Poi arriva un giorno in cui, anche sotto il cielo ingrato di Bretagna, senti che non ti interessa più, perché, mezzo disfatto, provi sollievo al solo pensiero di andare avanti. «Quando sono in momenti come questi mi dico sempre che sono stufo e non ce la faccio più. La realtà è che esistono e vanno vissuti, non messi da parte. Nessuna recriminazione li cambierà. Poi passano e ogni volta che sono alle spalle trovo i motivi per ricominciare e faccio un elenco di quelli per cui amo il ciclismo». È forse quello il giorno in cui ti salvi: quello in cui sai che, nonostante tutto, passerà.

Foto: Bettini