Sonny Colbrelli, stamani, è andato subito a cercare Roglič. Voleva parlare con lo sloveno e provare a chiarire quel gesto di stizza di ieri pomeriggio, proprio nel giorno in cui il corridore Jumbo Visma, cadendo, si è ferito in ogni dove. «Ho fatto quel gesto perché non capivo dove volesse passare, ma me ne sono pentito subito quando l’ho visto cadere. Ho avuto paura, per questo mi sono innervosito». Non ha voluto nemmeno parlare dei dubbi sui percorsi o sulla frenesia di corsa, «sinceramente ora come ora non mi interessa, voglio solo capire come sta Roglič e scusarmi».

All’apparenza può voler dire poco, in realtà racconta perfettamente questo viaggio in Francia, anche quello di oggi, su un piattone tra Redon e Fougéres. Un viaggio che è soprattutto comprensione, perché i ciclisti si conoscono e sanno bene quali siano i sacrifici di chi corre al loro fianco. A questo ha pensato Colbrelli quando ha visto Roglič a terra e quando lo ha visto pieno di fasciature al villaggio di partenza: a tutto ciò che quella caduta poteva buttare alle ortiche. Si è scusato perché quel “va a quel paese” non l’avrebbe mai accennato con più calma, perché ieri, se fosse stato un metro più avanti, sarebbe franato addosso a Ewan e si sarebbe ritrovato nella stessa situazione. I corridori queste cose le sanno.

Kwiatkowski, ad esempio, ha fatto il buco ai propri compagni per permettere a Alaphilippe di agganciare la ruota del suo treno. Poteva non farlo e non sarebbe cambiato molto, lo ha fatto perché sapeva che lui, nella situazione del francese, avrebbe avuto necessità di prendere quella ruota a tutti i costi, oggi invece no, oggi quella ruota poteva lasciarla, poteva capire. Come le pacche sulla schiena che si danno in gruppo per segnalare a un corridore di spostarsi, lo sguardo di assenso dei corridori in fuga come il gruppo rinviene, la scia delle ammiraglie anche per gli avversari in difficoltà.

Perichòn e Van Moer hanno condiviso la fuga, ma con un passato diverso. Van Moer stamattina ha parlato con il suo capitano, con Caleb Ewan, che malconcio, ha voluto partecipare alla riunione di squadra. Lo ha sentito dire: «Sono orgoglioso di voi» e siamo certi che in fuga se lo sia ricordato, quando i suoi compagni rompevano i cambi dietro e persino quando ai trecento metri il gruppo lo ha inghiottito senza pietà.

Capire metro dopo metro. Quello che Mark Cavendish ha fatto in questo Tour e ben prima nella sua vita. Quando vinceva e sembrava quasi arrogante, troppo sicuro di se stesso, forse qualcosa ancora gli sfuggiva. Non sapeva cosa volesse dire non riuscire più a fare ciò che ti era naturale, perché un virus ti ha talmente debilitato da non sapere più chi sei, mentre la gente non lo capisce e chiede, pretende. Ha compreso cosa significhi sentirsi nessuno e non avere altro pensiero che quello di poter tornare a credere al fatto che la serenità esista. Piangeva quando ha lasciato, piangeva lacrime pesanti.

Cavendish che aveva già vinto trenta tappe al Tour ed ha gioito come fosse alla prima, Cavendish che, con altre tre vittorie, uguaglierà Eddy Merckx. Poi ci sono i suoi compagni, gli altri atleti del gruppo, che, in fondo, sono contenti per Cavendish, perché sanno, perché vivendo nel plotone hanno capito tanto la necessità di fermarsi, quanto quella di ripartire.

Hanno avuto le sue stesse paure, almeno qualche volta e oggi hanno un motivo più per credere. Sì, perché se lo hanno fissato bene mentre piangeva sull’asfalto, oggi, hanno capito qualcosa in più. Non bisogna aver paura di fermarsi: è il primo passo per ripartire.