Quello che Bernal insegna

Forse ciò che più ci resterà della vittoria di Egan Bernal al Giro d'Italia sarà tutto quello che questo ragazzo di Zipaquirá, in Colombia, è stato in grado di raccontare. Qualcosa che smuove una riflessione non tanto o non solo sul ciclismo, quanto sul modo di vivere e di pensare a cui siamo abituati. Perché, ne siamo convinti, dalla vittoria di Bernal, dal modo in cui è maturata, dalle origini della sua storia, è davvero possibile imparare qualcosa per la quotidianità di ciascuno di noi.

Qualcosa che abbia, per esempio, a che vedere con gli stimoli quotidiani e l'entusiasmo. Non è strano e nemmeno raro: il tempo assopisce in molti l'entusiasmo, anche i successi più importanti, piccoli o grandi, si trasformano in normalità. Accade a tutti, il punto è accorgersene e magari contrastarlo. Spesso si accetta come inevitabile. Ciò che dice Bernal racconta la volontà di rifuggire questa abitudine.

«La vittoria al Tour de France è stata inaspettata, ma il difficile è arrivato dopo. Quando ti accade qualcosa di simile, di tanto grande, così giovane, tendi a sederti, non smetti di fare il tuo lavoro ma lo normalizzi, perdi quella spinta, quella grinta. Come se il meglio fosse già passato. Io ho continuato a puntare la sveglia al mattino presto, a stare attento all'alimentazione, ad uscire per gli allenamenti, però ero come anestetizzato. Avevo perso quella fame, quell'entusiasmo che era alla radice della mia scelta di pedalare. Avevo vinto qualcosa di importante, certo, ma avevo perso qualcosa di ancora più importante».

La soluzione non è immediata e neppure di facile applicazione. Perché per entusiasmarti devi tornare indietro, devi tornare a fare ciò che facevi quando non eri un campione, ma un ragazzino qualunque. «Dave Brailsford mi ha aiutato a capire. Ha tolto quella zavorra che mi pesava sul petto. Siamo stati insieme a Monaco e abbiamo parlato molto. Mi ha detto che aver vinto il Tour non doveva significare la fine del divertimento. Mi ha detto che avrei dovuto fare come avevo sempre fatto. “Se hai voglia di scattare in pianura, scatta. Non vai da nessuna parte? Non deve interessarti. Se scattare in pianura ti fa felice, perché devi impedirtelo?”. Noi due sappiamo bene che il merito di questa vittoria è anche suo».

E restituire, restituire sempre ciò che ti ha portato fino a lì. Con i fatti, non con le parole. «Potrei dire molte cose di Felipe Martìnez, l'ho già ringraziato e lo ringrazierò ancora. Ma lui ha fatto qualcosa in più, lui ha messo del proprio sulla strada per fare in modo che oggi su quel trofeo ci fosse il mio nome. Io non posso limitarmi a parlare, devo fare lo stesso. Voglio ricambiare sulla strada ciò che Felipe ha fatto per me. Voglio aiutare Felipe a vincere qualcosa di grande. Ad essere felice come lo sono io oggi».

Paolo Alberati, primo scopritore di Bernal, qualche giorno fa ha raccontato che crede che Egan voglia vincere la Vuelta e poi tornare in Colombia a fare il giornalista e a lottare con le parole contro le ingiustizie del suo popolo. Bernal non lo nega, ma dice qualcosa in più. «Certo, dopo il Giro ed il Tour, la Vuelta sarebbe il traguardo massimo. Adesso, però, sto pensando che quando questo sarà avvenuto mi piacerebbe tanto provare a essere felice nella mia terra. Stare con i miei cani, le mie galline e la mia mucca. Stare con i miei genitori e la mia ragazza. Vivere delle cose semplici che fanno bella la vita. Molti credono che per essere felici sia necessario raggiungere chissà quali traguardi, magari diventare campioni o diventare famosi. Io penso che serva davvero poco per essere uomini e donne felici. Vorrei dirlo a tutti e penso che a tutti serva ricordarselo. Ne va della vita».
Foto: Luigi Sestili


Il valore di Damiano Caruso

Ieri era tutto nelle gambe di Damiano Caruso. Per esempio, c'era la storia del padre che, senza lavoro, nell'estate del 1984 fece parte della scorta del giudice Giovanni Falcone, guardia del corpo negli anni di piombo, a soli diciannove anni, per un milione e duecentomila lire, i nostri seicento euro. In una Sicilia dura, aspra, rigida. Ma gli uomini passano, diceva Falcone, restano le loro idee che continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini. Così il problema non erano i seicento euro al mese, ma la volontà di dare un esempio al figlio, un esempio che gli facesse strada. Per questo ancora oggi il padre gliene parla con orgoglio, con fierezza.
E Damiano Caruso ha capito ed ha sempre voluto essere uomo prima che ciclista. «Quei valori ho cercato di portarli con me nel tempo, anche quando è stato più difficile. Per questo penso che questa vittoria sia per me, perché nessuno può capire cosa ho passato per essere qui, tutti i sacrifici che ho dovuto fare. Perché certe cose le ho provate io, le so solo io». Caruso che ha spiegato quel gesto, quella pacca sulla spalla a Pello Bilbao, meglio di chiunque altro. Perché quella pacca sulla spalla parla di ciò che ha vissuto. Del coraggio che un uomo si sente di fare ad un altro uomo, come lui, anche se ieri sembravano così diversi Damiano e Pello.
«Gli ho dato quella pacca perché so cosa si prova a fare ciò che ha fatto Pello. Lo so perché l'ho sempre fatto io, perché magari ho vinto da campione ma non mi sento un campione. Pello non è il vecchio Caruso, come qualcuno ha detto. Io e Pello siamo uguali ed io ho vinto perché c'era Pello».
Caruso che rifugge ogni forma di retorica: «Non c'è molto da dire. Ho semplicemente corso per vincere perché quando sei un professionista o sei al servizio della squadra oppure devi provare a vincere». Non senza dubbi, ma i dubbi sono tipici della scelta ed anche Caruso ne ha avuti: «Quando siamo rimasti davanti mi sono chiesto se fosse la cosa giusta da fare, poi mi sono risposto che non mi interessava, che avrei continuato a prescindere da tutto. Fosse andata male, sarei stato il Damiano Caruso di sempre».
E agli uomini non fa male il dovere, mai. «Ai ciclisti fa male la pressione, agli uomini fa male la pressione. Poche cose pesano di più. In queste tre settimane ho dovuto imparare a gestirla e così farò anche domani. Non dovrò pensare di essere al Giro, dovrò solo pensare a dare tutto quello che mi è restato. Non avrebbe senso nulla di diverso». Lui, quello che sta accadendo adesso, ha iniziato a pensarlo dopo la tappa di Montalcino quando qualcuno gli ha detto: «Perché pensare solo ad una tappa e non alla classifica? Io credo tu possa centrare entrambe». Così è tornato in sella da capitano, schivando le illusioni, ma essendo certo del fatto che, anche con i piedi per terra, si possa credere in qualcosa di grande e provare a realizzarlo.
Damiano Caruso è padre e ha detto che questa storia vorrebbe raccontarla al figlio. Noi raccontiamo questa storia per Damiano e per tutti coloro che nella vita sono un poco come Caruso. Sono uomini di fatica e di sudore che non hanno la stessa risonanza di un ciclista che centra il podio al Giro, ma che sanno le stesse cose e in quel mese in cui ottengono un piccolo successo sul lavoro, tornando a casa, lo raccontano ai propri figli. Fieri di tutta la fatica che hanno fatto, dritti per la propria strada


Domani finisce il Giro

Comunque vadano le cose tra oggi e domani, il Giro fra poco più di ventiquattro ore sarà terminato. Spiace perché, alla fine, al Giro vanno tutti appena se ne presenta l'occasione, perché nel Giro si ritrovano tutti pur non conoscendosi e magari non condividendo nulla fino all'istante prima. Forse intendeva questo chi disse che ad una corsa ciclistica puoi anche andare da solo, ma, in fondo, non sarai comunque solo.
Noi, però, oggi vogliamo parlarvi delle persone a cui forse spiace di più. Vogliamo parlarvene perché ieri, a Scopello, osservavamo spensierati il fatto che tre settimane siano passate in fretta, quando un signore, guardandoci, ci ha detto: «Forse voi non vi rendete conto di cosa significa tutto questo. Forse non capite quanto sia importante per molte persone». Effettivamente non abbiamo capito subito quello che intendeva, ma sono bastate poche parole perché tutto fosse chiaro. «A me il Giro ha sempre fatto questo effetto, mi ha sempre fatto dimenticare tutto ciò che non andava. Forse devo sottopormi ad un'operazione, nulla di particolarmente grave, ma pensarci è inevitabile. Fino ad adesso ho avuto la certezza che per qualche ora al pomeriggio ho potuto far finta di niente. Da lunedì non più. Quando me lo hanno detto, ho pensato: “Vedremo dopo il Giro!”. Ora che il Giro è passato dovrò pensarci seriamente. Non potrò nemmeno più dire: “Lasciami finire di vedere la tappa e poi ne parliamo”. Sì, forse non avete la percezione di quanto sia importante per tante persone».
Chissà, forse davvero non lo avevamo capito, oppure, semplicemente non lo avevamo mai visto così chiaramente perché nessuno ce lo aveva parato davanti agli occhi con tanta lucidità. Ma, in effetti, è proprio così. Il Giro, per molti, è solo l'occasione buona per dimenticare qualcosa, per non pensarci per qualche istante o semplicemente per una boccata d'aria fresca. Già, perché poi gli esempi sono tanti e tutti diversi, ma in queste tre settimane di storie così ne abbiamo incrociate molte.
Pietro Algeri, giusto qualche giorno fa, ci diceva che la cosa che più lo sorprende, anche dopo quaranta Giri d'Italia resta la pazienza della gente che aspetta ore per vedere qualche secondo. E quell'attesa, ci ha spiegato Algeri, è, in realtà, la cosa che più piace del ciclismo perché non possono essere solo quei dieci secondi a rendere felici tante persone, deve essere quello stato di euforia che le butta giù dal letto di prima mattina il giorno in cui passa il Giro, anche se mancano ancora ore e potrebbero continuare a riposare. Lo fanno perché stanno aspettando qualcosa che arriverà e questo le rende così serene da essere in grado di lasciare da parte i problemi fino a che quella scia non sia passata.
Perché sai che il tuo bar, dopo tanti mesi di chiusura, tornerà a essere come una volta, come quando «di lavoro se ne aveva anche troppo».
Perché l'infermiera dell'ospedale ti ha accompagnato in sala dove tutti stanno guardando la corsa ed a te è sembrato di essere ancora a casa. Perché col passare degli anni tutte le case si svuotano un poco e bastano quelle voci in televisione per tornare a immaginarle piene, con i bambini che giocano nel prato. Perché maggio è sempre stato così, sin da quando andavi a scuola e rimandavi lo studio della storia o della geografia al termine della tappa e poi finivi a studiare di notte.
Sono loro le persone a cui pensiamo stamani, quelle che temono la fine del Giro perché non gli è rimasto più nulla da aspettare. Perché aver qualcosa da aspettare può davvero aiutarti. Che sia un'altra tappa o un altro Giro.

Foto: Luigi Sestili


Per raccontare Egan Bernal

Per raccontare Egan Bernal, forse, basterebbe raccontare ciò che ha detto ieri in conferenza stampa, in un giorno difficile, in un giorno in cui avrebbe anche potuto non avere voglia di parlare. Ha detto che, in fondo, per le persone che amano il ciclismo è meglio così, perché il Giro è più aperto, perché non si sa mai cosa aspettarsi, perché, se gli attacchi continueranno, sulle strade ci sarà spettacolo e la gente si divertirà. Non è facile dirlo, non è facile quando hai perso, quando sembravi poterti fermare da un momento all'altro su quella salita.

Poi, per raccontare Bernal, si potrebbe o si dovrebbe raccontare Daniel Martínez, il suo compagno di squadra, colui che ieri l'ha incitato fino alla fine mentre perdeva le ruote. «Mi diceva di resistere, mi diceva “Pensa che vinci il Giro”. Dani è un amico». E pure quell'inciso sull'amicizia è tutt'altro che scontato. Perché si potevano usare le solite parole: compagno di squadra, gregario, scalatore. Invece no, Bernal dice “amico”. Soprattutto Bernal dice.

Ce lo hanno spiegato Santiago, Mariana e Mateo, colombiani come Egan e Daniel, quanto sia importante. «Martinez non avrebbe fatto nulla di male se non si fosse voltato e non lo avesse incitato. Un gregario non deve necessariamente voltarsi ed incitare, per quello ci sono i tifosi. Ma lo ha fatto ed in quel farlo probabilmente c'è anche la Colombia. Tutti pensano alla povertà come ad una mancanza di cose, la povertà è anche mancanza di parole. Delle tue e di quelle degli altri. Perché in certi casi le persone non sanno cosa dirti e tu non hai nemmeno il coraggio di chiedere. C'è anche questo nel nostro essere solari, nel nostro accogliere, invitare ed incitare».

Per raccontare Egan Bernal non si potrebbe non raccontare del rapporto con la sua famiglia. «La maglia rosa ti toglie tanto tempo, sei l'ultimo a tornare in albergo e, sei vuoi mantenerla, devi riposare bene, quindi devi andare a letto presto e non hai molto tempo. Però, per parlare con mia madre, mio padre e la mia ragazza quel tempo me lo ritaglio. Sono loro la mia motivazione». Umile, per nulla egocentrico perché «in casa non ho foto mie in bicicletta, nemmeno miei ritratti. Ne ho una di Marco Pantani e mi basta».

Bisognerebbe raccontare della sincerità di Egan Bernal. «Sì, forse sarebbe stato meglio andare a vedere la salita di Sega di Ala. Forse avrei fatto meglio. Come, probabilmente, a me il giorno di riposo ha fatto male ed è anche per questo se ho pagato. Ma non si possono nemmeno prendere queste scuse. Yates mi avrebbe staccato comunque perché era più forte oggi. Bisogna dirlo e basta». Ed ancora bisognerebbe raccontare di tutto ciò che non ritiene scontato e della fame di esserci, di essere lì, di non sparire. Qualche anno fa lo disse: «Non voglio essere uno di quei corridori che appaiono a ventidue anni e di cui a ventisette non si ricorda più nessuno». Chissà, forse Mateo, Mariana e Santiago direbbero che pure qui c'è la Colombia e tutte le cose che in quelle terre non hai. Anzi, direbbero certamente così. Lo decidiamo noi.

Per raccontare Bernal bisognerebbe andare nella sua terra ed osservare per qualche minuto un bambino che lo guarda mentre attacca, un padre contadino che si asciuga la fronte dal sudore per vederlo ed un anziano che chiama la compagna per tifarlo assieme. Bisognerebbe andare in quella terra per capire cosa significhi per loro Egan Bernal. Bisognerebbe andare in quella terra perché, per raccontare Egan Bernal, bisognerebbe soprattutto raccontare la loro speranza.

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Lasciare il segno: intervista ad Edoardo Affini

Al termine della cronometro inaugurale di Torino, vinta da Filippo Ganna, Edoardo Affini gli si è avvicinato e gli ha detto: «Pippo, guarda che a Milano farò di tutto per romperti le uova nel paniere». Ganna e Affini sono accomunati dalla genuinità: poche chiacchiere e pedalare, per dirla in gergo ciclistico. Per questo, se Edoardo dovesse scegliere due parole per descrivere il suo lavoro al Giro sceglierebbe affidabilità e tenacia. La prima perché la fiducia, nel ciclismo, è fondamentale: «Da gregario, so di essere qui per gli altri, per far fare meno fatica possibile ai miei capitani. Questo significa dare tutto, anche più di quello che daresti per te stesso. Se guardate il mio viso sullo Zoncolan, capite il vero significato dell'essere gregari. Ero finito, non ne avevo più, distrutto. Ci vuole coraggio e grinta per sacrificare te stesso per un'altra persona». Essere gregari significa mettere le tue gambe per qualcun altro, ma non solo. «Se le gambe non girano, non puoi farci nulla. Tutte le parole sono inutili, se il tuo capitano non è in condizione. Però, quando sei in corsa per tre settimane, serve anche la parola giusta al momento giusto. Non incide sulla prestazione, ma sulla persona, sul suo stato d'animo».

A lui, per esempio, ha fatto molto piacere il gesto di George Bennett che, proprio quel giorno, scendendo dallo Zoncolan dopo il traguardo, lo ha visto in difficoltà in salita e gli si è avvicinato per un breve tratto, per ringraziarlo. «Mi ha detto che più di così non era riuscito a dare, che gli spiaceva. Anche questa è fiducia, è considerazione di chi ha lavorato con te». Qui c'è un appunto: «Purtroppo a seguito della voce che raccontava di Bennett che ha scalato due volte lo Zoncolan per starmi vicino - cosa impossibile: avremo fatto assieme 50 o 100 metri - mi sono sentito dire che avrei dovuto essere squalificato, che avevamo commesso un'irregolarità. Spiace perché si rovina un bel gesto. Un gesto da raccontare, ma correttamente».

Verona è stata la città in cui più si è meravigliato, proprio mentre stava lavorando per Dylan Groenewegen. «Ho preso la testa mentre arrivavano le altre squadre da sinistra per non rimanere imbottigliato. Andavo talmente bene che pensavo fosse il lancio perfetto. In volata non ti volti mai, ma ti accorgi se hai qualcuno a ruota ed io non sentivo nessuno. Ho continuato a spingere fino a quando non ho sentito l'aria mossa da Nizzolo alle mie spalle. Lì ho capito che mi avrebbe superato». Dylan Groenewegen e Edoardo Affini non si conoscono molto: si sono visti qualche giorno in ritiro e poi sono venuti qui.

Affini crede che il segreto per ritrovare Groenewegen sia la normalità. «Noi lo abbiamo trattato come il ragazzo di sempre, come un velocista che sa vincere e vincere bene. Ogni volta che abbiamo formato il suo treno, abbiamo pensato questo e lui lo sa, lo ha capito. A Verona era arrabbiato con se stesso, perché avrebbe voluto fare di più. Mi sembra un buon segnale» In ogni caso, dice Affini, tornare serve, sempre, anche se fa paura. «Dopo quell'incidente lui e la sua famiglia hanno subito minacce molto pesanti. Sono passati nove mesi, ma è tornato ed è molto motivato. Certo, qualche residuo questi avvenimenti lo lasciano, lui, però, è molto bravo a separare la parte umana da quella professionale. Credo soffra ancora per l'accaduto ma, da professionista qual è, in gara riesce a metterlo da parte. Riesce a essere quanto più simile al ragazzo che tutti conoscevamo».

Poi una battuta, sulla terza settimana. «Per me sarà sopravvivenza e costante aiuto in squadra. Però i freni non li tirerò. Se capito davanti e vogliono battermi devono andare più veloci altrimenti potrei metterci lo zampino».

Foto: BettiniPhoto


Dal fondo del gruppo

«Faccio parte della corsa, in realtà la chiudo, ma mi sento a tutti gli effetti un piccolo pezzo della carovana». Basterebbero queste poche parole di Fabio Allotta per raccontare il suo compito al Giro d'Italia. Fabio è sul furgone del fine gara: l'ultima vettura che vedete transitare quando andate ad assistere ad una tappa. In quel “far parte”, in “quell'appartenere” ci sono già molte cose che lui si preoccupa di spiegarci. «Sai, con il fatto che sei il “fine gara”, molti non riescono nemmeno ad immaginare quanto si viva intensamente la corsa dal fondo. Pochi metri davanti a me ci sono tutte quelle storie che nessuno vede perché le telecamere non le inquadrano quasi mai, tutte quelle storie che nessuno racconta. Così, spesso, si parla solo dei primi». Fabio Allotta ricopre questo incarico da tre anni, prima ha anche corso in bicicletta e certe sensazioni non può dimenticarle. A livello pratico comunica con la giuria, segnala i tempi ed i dorsali dei corridori che si ritirano. Raccontarla così, però, sarebbe riduttivo.

«Ieri sono arrivato al traguardo quarantacinque minuti dopo la corsa. Voi pensate di salire il Giau con gli ultimi, di vederli faticare, mentre rischiano di uscire dal tempo massimo e di non poter far nulla. Diciamocelo, è snervante». Certo, perché poi quella del fine corsa diventa una vita parallela al gruppo ed ai suoi spostamenti, nel bene e nel male. «Quando c'è stata la caduta di Alessandro De Marchi ho fatto fatica a trovare il coraggio di guardare. Indietreggiavo come a non voler vedere. I corridori sono abituati ad alzarsi subito e ripartire anche se feriti. Quando vedi un ragazzo che non si muove per tre o quattro minuti, ti prende paura». Uno dei momenti più brutti è proprio il ritiro.

«In alcune situazioni è mio compito caricare la bicicletta dei corridori che lasciano la gara. Alcuni salgono sul furgone del fine gara e arrivano con me al traguardo. Ricordo ancora quando, l'anno scorso, Boaro si ritirò in lacrime, deluso, col morale a terra. In quel momento tu hai accanto una persona che sta soffrendo, cosa puoi fare? Devi stare in silenzio, aspettare e poi, con delicatezza, provare a vedere se ha voglia di parlare. Devi cercare di portarla per qualche attimo fuori da quel mondo perché quel mondo, in quel momento, è l'oggetto della sua delusione. Con Manuele ci sono riuscito e quando è salito sulla sua ammiraglia ha sorriso». Fabio Allotta prova a fare lo stesso con tutte le persone che incrocia sul percorso: «Mi faccio vedere, saluto. Le persone sono incuriosite anche dalla mia vettura, vogliono capire cosa faccio. Per questo cercano di sbirciare dai finestrini, proprio come fanno con le ammiraglie».

Perché, alla fine, la realtà del fine corsa è fatta proprio da questi piccoli momenti. «Non c'è molto tempo per parlare, ma i ciclisti sono una specie rara. Io ho sempre in macchina dei gel o dell'acqua. La crisi di fame è orribile, si soffre in maniera indicibile, avendola provata lo so e, se li vedo in difficoltà, passo una barretta. Loro se ne ricordano, ti ringraziano e da quel momento maturano una forte fiducia in te. A me quella fiducia fa stare bene». Forse quella fiducia deriva anche dal fatto che è proprio Fabio ad alzarsi all'alba ogni mattina per andare in un punto prestabilito, recuperare l'acqua per i corridori e portarla ai pullman. «Così ho conosciuto i massaggiatori ed i direttori sportivi. Magari scambiamo solo due parole, al volo, quando ci fermiamo a fare pipì durante la tappa, ma, in fondo, il bello della carovana è proprio questo. Basta poco, che poi poco non è mai».


Andare a vedere il Giro

La domenica, forse, è il giorno in cui meno ci si sorprende quando si incontrano tante persone sulle strade del Giro d'Italia. Non ci si sorprende perché di solito è il giorno in cui non si lavora e non si va a scuola, così c'è tutto il tempo per venire qui, per sedersi su un marciapiede e aspettare il passaggio. Non è sempre così, però, e forse dovremmo ricordarcelo più spesso. A noi, ieri pomeriggio, a Gorizia, lo ha ricordato Guido.
Non sapevamo nulla di Guido e Guido non sapeva nulla di noi. Ci ha colpito perché era fuori dall'uscio di una casa con un grembiule azzurro, sporcato sul petto e sulle maniche di grigio. Ci ha colpito, forse, proprio perché era domenica e di domenica, al Giro, tutti si presentano con l'abito della festa. Solo scambiandoci qualche parola abbiamo capito.
Guido è un falegname, come era un falegname suo padre, e la sua è la realtà di tutte le botteghe artigiane. «Mio padre mi ha sempre detto che si fa festa quando si è fatto il proprio dovere, per questo, se alla domenica non si è finito di preparare le consegne, non è domenica. Quando hai fatto il tuo dovere, mi diceva, ti riposi anche meglio perché sei tranquillo con te stesso e non hai più pensieri».
Per Guido ieri non era domenica, perché ha molto lavoro da fare e pochi giorni per terminarlo, così era in bottega, così stava lavorando e fino a qualche giorno prima non pensava neppure al Giro d'Italia perché «dopo quello che abbiamo passato con la pandemia, con tutte le spese che ho da pagare, con tutti i problemi che mi vengono in mente appena apro quella porta, figuratevi se ho tempo di pensare al Giro d'Italia».
Fino a qualche giorno fa, perché poi ha cambiato idea. «L'altro giorno mio figlio mi ha detto se lunedì potevo farlo restare a casa da scuola e portarlo a vedere il tappone di Cortina d'Ampezzo perché “il Giro arriva anche domenica, ma la tappa di lunedì è più bella”. Cosa pensate gli abbia risposto? Gli ho detto di no, che poteva scordarselo, che il dovere viene prima del piacere, che se non va a scuola, se non studia, si troverà a lavorare giorno e notte come me, a non saper parlare come si deve, a fare brutte figure. Gli ho detto che avrebbe dovuto accontentarsi dell'arrivo di domenica». Poi, però, Guido è andato da solo in bottega, si è messo a lavorare ed ha ripensato a tutto.
«Mentre non avevo lavoro, nei mesi scorsi, ho passato davvero momenti difficili ed ho capito quanto avesse ragione mio padre: quando manca il lavoro si disfa tutto, crolla tutto. Se non riesci a mettere assieme un pranzo con una cena non c'è storia che tenga. Sinceramente, però, ho anche capito quanto avesse ragione mio figlio. No, non andare a scuola è sbagliato ed infatti non lo farò stare a casa, però anche non fare ciò che vorresti per pensare sempre e solo al dovere è sbagliato. Perché poi, se succede come è successo in questi due anni, non sei solo a terra perché non porti a casa la pagnotta per le persone a cui vuoi bene. Sei a terra anche perché col tuo modo di essere le hai rese tristi due volte: prima negandogli i divertimenti per il senso del dovere, poi spiegandogli che era stato tutto inutile perché non solo non avrebbero avuto più i divertimenti ma nemmeno le cose a cui erano abituati perché “papà non ha lavoro”. Sì, domani chiudo presto bottega e appena mio figlio torna da scuola lo porto a vedere il Giro che passa. Fosse anche solo uno sguardo da un cavalcavia, ma lo porto al Giro. Il tempo bisogna trovarlo. Stasera mi studio la cartina».
Così Guido e suo figlio oggi avranno tempo per il Giro, ma soprattutto avranno trovato tempo per se stessi. Assieme come un padre ed un figlio e questo è quello che conta davvero. Sempre.


Una questione di equilibrio

Il lavoro di Ugo Demaria è uno di quei lavori da spiegare bene. Demaria è fisioterapista e osteopata da molti anni ed è al Giro d'Italia con l'AG2R Citroën. «Credo ci sia un errore di base: alcuni pensano che dall'osteopata si vada solo quando ci si è fatti male in seguito a una caduta. In realtà non è e non deve essere così. Il nostro ruolo è anche quello di prevenire, di risolvere problemi che, magari, ad ora non sono nemmeno avvertiti come tali. Mi spiego meglio: se sali su una bicicletta con una ruota fuori centro, tu puoi pedalare comunque e, per i primi tempi, ti sembrerà anche normale. Fino a quando tutta la bicicletta si storterà e pedalare diventerà impossibile. Agli uomini e alle donne accade esattamente la stessa cosa».

Il punto centrale, osserva Demaria, è che gli umani non hanno naturalmente una conformazione fisica adatta a stare in bicicletta e molti movimenti che devono fare per stare su quella sella sono, per così dire, innaturali. «Determinate posizioni possono comportare dolore, proprio per questo motivo. Tendenzialmente sono situazioni marginali che se corrette portano un vantaggio minimo. Però un Giro d'Italia o un Tour de France spesso si giocano su pochi secondi e non ci si può permettere di trascurare nulla. Io parlo di riequilibrio: provo a fornire un equilibrio al corpo che per molte ore sta in una posizione a lui non consona».
La giornata di un osteopata al Giro inizia sin dal mattino presto, aiuta i massaggiatori, prepara i rifornimenti e poi va in hotel ad attendere l'arrivo della squadra. «Per questioni di tempo non riesco a trattare tutti gli atleti ogni giorno, così la priorità va a chi ha più bisogno di un trattamento per problematiche specifiche». Negli anni, Demaria ha affinato tecniche e capacità e, ultimamente, dopo cena, pratica anche trattamenti che aiutino il riposo.

«A questi atleti si chiede tutto, da loro si vuole tutto. Lo stress e la pressione sono una componente importante. Non sono uno psicologo e non mi arrogo competenze che non ho, ma sono sicuro del fatto che ogni persona che stia a diretto contatto con gli atleti debba cercare di affinare la propria sensibilità e avere particolare attenzione ad ogni dettaglio, anche quello che sembra trascurabile». E la sensibilità, che è pane per il lavoro di Demaria, è duplice. «La palpazione è fondamentale, aiutano i test e gli esami. Soprattutto, però, è necessario ascoltare e, se possibile, aver provato ad andare in bicicletta e conoscere quelle sensazioni. Conoscere la dinamica di un corpo in bicicletta, non solo a livello teorico ma anche pratico».

Il resto sono aneddoti e conoscenza personale. Per esempio quando si parla di Andrea Vendrame. «Potrebbe essere mio figlio. L'ho visto crescere. Nel primo giorno di riposo non stava molto bene, stava ancora entrando in forma. La sera prima ci ha detto che ci avrebbe provato. Diciamo che ci è anche riuscito. Noi avevamo il timore che non tenesse sull'ultima salita, quando ha scollinato poteva perderla solo lui». Demaria gli consiglia di riguardare le gare di Paolo Bettini e di ispirarsi a lui per istinto e tenacia.

Non solo, però, perché Demaria lavora anche con atleti fuori dalla squadra. «Se tutti avessero la testa di Pozzovivo, avremmo una qualità stellare. Pensate che è venuto a cena da me il 22 dicembre: c'erano tante golosità in tavola, lui no. Lui si è mangiato la sua insalata con la carne cruda. A Modolo, invece, una volta feci assaggiare il carpaccio, lo mangiò di gusto e, pensate, il giorno dopo fece scintille alla Sanremo».

Foto: Luigi Sestili


L'ultimo Giro di Manuel Belletti

Quando Manuel Belletti è partito per il Giro d'Italia era felice, ma aveva anche paura. Al Giro di Turchia, una caduta gli aveva causato delle microfratture delle costole, bastava un nulla per peggiorare la situazione ed in corsa può succedere di tutto. «Purtroppo durante la terza tappa sono caduto: il medico di gara ha capito subito la situazione e mi ha consigliato di fermarmi. Non l'ho ascoltato e all'arrivo faticavo a respirare. Nei giorni successivi ho provato a continuare, ma un colpo di vento, mentre infilavo la mantellina, mi ha messo fuori gioco. Non è possibile fare i conti solo con ciò che si vuole, arriva il momento in cui devi accettare ciò che puoi e non puoi fare. Alla sesta tappa, sono tornato a casa».

Sì, perché Manuel il suo ultimo Giro d’Italia avrebbe voluto concluderlo a tutti i costi. «Dopo la caduta ho proseguito solo di testa. Il ciclismo ti insegna anche ad usare la testa per ingannare il corpo e per arrivare dove non penseresti mai. Quando ti guardi indietro, non riesci nemmeno a capire come hai fatto, perché lo hai fatto. Sembra illogico pedalare per cento chilometri quando anche da fermo senti un male assurdo perché non respiri. Anzi, è illogico». Belletti è sempre stato così, sin da ragazzo, dopo quattordici anni di professionismo, però, c'è di più: «Ho imparato a conoscermi, ho scoperto cose di me che non avrei mai immaginato. Molti mi dicono che ora sono un uomo più forte, in parte è vero. Ma è altrettanto vero che sono anche fragile, molto fragile su certi aspetti. Senza dubbio mi conosco e questo credo sia un dovere di ogni persona. Per esempio, dopo la Tirreno Adriatico di qualche anno fa, ho capito che ho paura del freddo, l'ho accettata ed ho provato a farci i conti per superarla».

Belletti è un ragazzo sincero, lo capisci quando gli chiedi come stia e non si limita alla risposta di circostanza. Te lo dice chiaramente, prendendo seriamente la domanda ed ancor più la risposta: non sta ancora bene e si sta sottoponendo a fisioterapia. Una domanda che, quando sei un ciclista, ti senti fare dai tuoi familiari al telefono, ogni mattina ed ogni sera. «Loro vogliono solo che io stia bene e di questo si preoccupano. Però, nel tempo, ho capito anche che non puoi pensare di ascoltare sempre tutti, di non far mai torto a nessuno. La tua fatica e le tue scelte ti appartengono: devi imprimere tu la direzione che vuoi».
Lui spiega di averlo sempre fatto, anche quando ha deciso che sarà l'ultimo anno da professionista. «Proprio perché credo al valore delle decisioni, voglio scegliere io quando smettere. Non voglio arrivare ad essere obbligato a farlo per mancanza di contratti. La mia testa dice così. Chi mi conosce, pensa che avrei potuto ottenere di più nella mia carriera se, in qualche occasione, non mi fossi accontentato. Credo sia vero. Io, così critico con me stesso, mi sono accontentato diverse volte. Continuare a pensarci, però, non cambierà la situazione. Ad un certo punto ho iniziato a sentire il bisogno di una vita più regolare. Meglio: ho iniziato a sentire la necessità di vivere il mondo che c'è la fuori, quello reale».

Ed è a proposito di quel mondo che Belletti ha la sua paura più grande. «Ho fatto tanta fatica in bicicletta, ma chiunque lavori fa fatica. Sono stato un privilegiato perché sono stato pagato per fare ciò che mi piaceva. Molte persone, per portare a casa uno stipendio, devono fare cose che non amano, che odiano nel peggiore dei casi. Ora che anche per me viene il momento di andare là fuori, ho il timore di non esserne capace. So di non avere le competenze per fare un altro lavoro, so di dover ripartire da zero e questo mi fa paura. Ma l'ho scelto e lo farò. Senza dubbi».


Giancarlo Brocci e le strade polverose

«Gaiole ha tanti pregi, ma anche un limite: il telefono prende male. Che è un limite ma pure una risorsa».

Giancarlo Brocci risponde così alla nostra telefonata nella serata della tappa dello sterrato, del suo sterrato. Basta questo aneddoto per descrivere Brocci, anima e ideatore dell’Eroica.
Lui, testa bassa, come si direbbe in gergo ciclistico, inizia subito a parlare. «Intanto, forse, abbiamo capito che lo sterrato è un valore. Per molto tempo non lo si era considerato così, ogni tornata elettorale era quella giusta per promettere di asfaltare strade polverose. Più in generale credo sia anche un fatto di mentalità: se qualcuno viene a chiedermi una mia bicicletta per correre L'Eroica, gliela cedo volentieri. Torna impolverata, sporca? Certo, qual è il problema? Le cose vanno adoperate e nell'uso si sporcano o si rompono. Mi sembra così normale, così bello».

Quel “forse” porta la mente di Brocci indietro di undici anni, al Giro del 2010, a Gianni Mura.
«Era ospite fisso del Processo alla tappa, poi accendeva il sigaro ed iniziava a scrivere. Quella sera, a Montalcino, dopo la vittoria di Evans, mi disse: “Avevi ragione, Giancarlo. Il ciclismo ha bisogno di tornare al passato per guardare al futuro”. La redazione di Repubblica gli aveva appena chiesto di raddoppiare le battute del pezzo. Alle persone questo ciclismo piace. Sapete a chi non piace? Ai maniaci della programmazione, dei watt, delle tabelle e dei numeri. A loro non piace e non piacerà mai, perché questo ciclismo le costringe a cambiare. Ma il vecchio ciclismo continuerà ad esistere e ad entusiasmare, non possono farci nulla, se non accettarlo».

Così Brocci è rammaricato per l'esito della tappa di ieri. «Il rispetto va in maniera indiscriminata a tutti, però la mia sincerità mi impone di dire che me l'ero immaginata diversa. Per questo mi sono emozionato di più domenica, coi giovani che hanno corso l’Eroica juniores. Perché lì non ci sono stati calcoli, lì si è dato tutto ciò che si aveva con la voglia di arrivare al traguardo, di vincere o anche solo di concludere. Si tratta di rispetto di quello che è il ciclismo, della fatica. Quando ti disinteressi della fuga e la lasci naufragare a minuti e minuti, forse non stai dando alla strada il rispetto che merita».

Il primo ricordo che Brocci ha del Giro lo riporta agli anni di Vittorio Adorni ed alla sua attesa di ragazzo per sentire alla radio le prime notizie riguardanti la tappa del giorno. Sostiene che, negli anni, il Giro lo ha deluso, ma allo stesso tempo confessa di non aver mai smesso di seguirlo. Per questo ieri era a Montalcino. «Perché c'è la fatica e, dove c'è fatica, c'è la parte buona dell'uomo. Noi, adesso, tendiamo ad anestetizzarla in ogni modo: non conosciamo più il vero senso della fame, della sete, della stanchezza. Questi giovani hanno scelto la fatica in un mondo che fa di tutto per cancellarla. Qualcosa vorrà pur dire».
E parlando di sterrati, di campi e di Giro, si parla di Alfredo Martini. «Mi diceva: “Noi uscivamo al mattino presto a pedalare e nei campi c'erano i contadini. Facevamo molti chilometri, poi tornavamo, e nei campi c'erano ancora i contadini. Noi eravamo fortunati, almeno eravamo riusciti a fermarci in trattoria a mangiare. Loro no”. Capisci? Si sentivano fortunati per poter fare tutta quella fatica».