Al termine della cronometro inaugurale di Torino, vinta da Filippo Ganna, Edoardo Affini gli si è avvicinato e gli ha detto: «Pippo, guarda che a Milano farò di tutto per romperti le uova nel paniere». Ganna e Affini sono accomunati dalla genuinità: poche chiacchiere e pedalare, per dirla in gergo ciclistico. Per questo, se Edoardo dovesse scegliere due parole per descrivere il suo lavoro al Giro sceglierebbe affidabilità e tenacia. La prima perché la fiducia, nel ciclismo, è fondamentale: «Da gregario, so di essere qui per gli altri, per far fare meno fatica possibile ai miei capitani. Questo significa dare tutto, anche più di quello che daresti per te stesso. Se guardate il mio viso sullo Zoncolan, capite il vero significato dell’essere gregari. Ero finito, non ne avevo più, distrutto. Ci vuole coraggio e grinta per sacrificare te stesso per un’altra persona». Essere gregari significa mettere le tue gambe per qualcun altro, ma non solo. «Se le gambe non girano, non puoi farci nulla. Tutte le parole sono inutili, se il tuo capitano non è in condizione. Però, quando sei in corsa per tre settimane, serve anche la parola giusta al momento giusto. Non incide sulla prestazione, ma sulla persona, sul suo stato d’animo».

A lui, per esempio, ha fatto molto piacere il gesto di George Bennett che, proprio quel giorno, scendendo dallo Zoncolan dopo il traguardo, lo ha visto in difficoltà in salita e gli si è avvicinato per un breve tratto, per ringraziarlo. «Mi ha detto che più di così non era riuscito a dare, che gli spiaceva. Anche questa è fiducia, è considerazione di chi ha lavorato con te». Qui c’è un appunto: «Purtroppo a seguito della voce che raccontava di Bennett che ha scalato due volte lo Zoncolan per starmi vicino – cosa impossibile: avremo fatto assieme 50 o 100 metri – mi sono sentito dire che avrei dovuto essere squalificato, che avevamo commesso un’irregolarità. Spiace perché si rovina un bel gesto. Un gesto da raccontare, ma correttamente».

Verona è stata la città in cui più si è meravigliato, proprio mentre stava lavorando per Dylan Groenewegen. «Ho preso la testa mentre arrivavano le altre squadre da sinistra per non rimanere imbottigliato. Andavo talmente bene che pensavo fosse il lancio perfetto. In volata non ti volti mai, ma ti accorgi se hai qualcuno a ruota ed io non sentivo nessuno. Ho continuato a spingere fino a quando non ho sentito l’aria mossa da Nizzolo alle mie spalle. Lì ho capito che mi avrebbe superato». Dylan Groenewegen e Edoardo Affini non si conoscono molto: si sono visti qualche giorno in ritiro e poi sono venuti qui.

Affini crede che il segreto per ritrovare Groenewegen sia la normalità. «Noi lo abbiamo trattato come il ragazzo di sempre, come un velocista che sa vincere e vincere bene. Ogni volta che abbiamo formato il suo treno, abbiamo pensato questo e lui lo sa, lo ha capito. A Verona era arrabbiato con se stesso, perché avrebbe voluto fare di più. Mi sembra un buon segnale» In ogni caso, dice Affini, tornare serve, sempre, anche se fa paura. «Dopo quell’incidente lui e la sua famiglia hanno subito minacce molto pesanti. Sono passati nove mesi, ma è tornato ed è molto motivato. Certo, qualche residuo questi avvenimenti lo lasciano, lui, però, è molto bravo a separare la parte umana da quella professionale. Credo soffra ancora per l’accaduto ma, da professionista qual è, in gara riesce a metterlo da parte. Riesce a essere quanto più simile al ragazzo che tutti conoscevamo».

Poi una battuta, sulla terza settimana. «Per me sarà sopravvivenza e costante aiuto in squadra. Però i freni non li tirerò. Se capito davanti e vogliono battermi devono andare più veloci altrimenti potrei metterci lo zampino».

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