C’è un qualcosa di estremamente spontaneo nel modo di essere di Jacopo Mosca, qualcosa che nemmeno lui sa spiegare a fondo. Di certo, però, sa bene dove trovarne le radici. «A due anni e mezzo ho imparato ad andare in bici senza le classiche rotelle. Il motivo è molto semplice: le rompevo continuamente, così non me le hanno più messe. Un giorno sono uscito in cortile e ho provato a salire in sella, sono stato in equilibrio ed è andata bene. Qualcuno mi ha raccontato che da ragazzino ero scatenato e saltavo su e giù dai marciapiedi. Non lo so, ma potrebbe benissimo essere, vista l’indole». Sì, perché, alla fine, ciò che suo padre gli ha sempre ripetuto, in realtà apparteneva già a Jacopo. «Mi diceva che bisogna mettere il massimo dell’impegno in qualunque cosa si faccia. A prescindere dall’importanza di ciò di cui ti stai occupando, tu devi fare il massimo di ciò che puoi fare. Serve per non avere rimpianti. Serve per essere seri quando si prende un impegno».

Dice che la sua fortuna arriva con lo stage in Trek-Segafredo nel 2016 perché ha conosciuto l’ambiente e perché ha conosciuto Luca Guercilena. «Se guardi l’ordine d’arrivo del Tour of Britain di quell’anno, quando arrivai decimo, ti accorgi che fu un’ottima prestazione. Quelli che mi erano davanti erano nettamente superiori. Luca non mi prese in squadra, l’organico era al completo, ma quando mi salutò mi disse: “Questa volta è andata così, però tu insisti che nel ciclismo non si sa mai”. Non sapevo che a quelle parole avrei ripensato spesso negli anni seguenti». Già, perché di lì a poco sarebbe successo ciò che succede di frequente nella vita. Non lo vorremmo, ma succede.

«Passai in Wilier, ne ero felice ed in quegli anni mi sembra anche di aver ottenuto buoni risultati. In ogni caso, ci ho sempre provato. Ancora oggi non me lo so spiegare, ma a fine contratto rimasi a piedi». Il periodo è difficile e a molti verrebbe quasi in mente di smettere. A Jacopo Mosca no. «Non ci ho mai pensato. Anzi, io volevo correre perché quello era l’unico modo per dimostrare che potevo ancora fare il corridore».
Quando firma il contratto per la D’Amico UM Tools, Jacopo Mosca sa bene che si tratta di una squadra Continental e che, per forza di cose, le possibilità sono minori, ma non gli interessa. «Dello stipendio non mi importava molto, prendevo i rimborsi delle gare e mi bastavano. Devo ringraziarli, se sono ancora qui è merito anche loro».

Umile, forse anche troppo. «Sono consapevole del fatto che il mio ruolo qui al Giro sia quello di aiutare gli altri a vincere. Io me la cavo su tutti i terreni, è vero, ma non eccello in nessuno. In volata possono battermi, in salita pure. Bisogna essere onesti con se stessi». Sarà, eppure c’è una fame particolare in ogni attacco di Mosca, una voglia feroce di dimostrare, di farcela. Qualcuno potrebbe pensare che venga dal periodo buio, lui smentisce.
«No, sono sempre stato così. Per fortuna ho preso il carattere da mio padre e sono un gran testardo». Di quel periodo, però, qualcosa resta davvero: «Credo sia qualcosa che proviene dalla mia famiglia. Ho imparato ad essere sereno e questo aiuta molto. Nel momento in cui le cose non sono andate bene, non sono mai rimasto solo, erano tutti accanto a me. Quando accade così, capisci che puoi davvero farcela».

Foto: Luigi Sestili