Il mondo dall'alto di Federica Zavischi
La storia di Federica Zavischi è una storia di sguardi dall'alto. Dalle parole di mamma che nei momenti no le diceva «stai investendo su di te, sul tuo futuro, ed il futuro è troppo bello per lasciarlo alla casualità», alle notti in maneggio, quando era la prima ad arrivare e l'ultima ad andarsene. La storia di Federica è la storia di chi ha voluto cambiare prospettiva e ha deciso che «dall'alto si vede tutto diversamente, non so se è meglio, ma di sicuro mi piace di più perché puoi guardare gli altri ed imparare». Federica è cresciuta fra quei cavalli anche quando passava ore sui libri o faceva l'assistente di volo, anche quando l'agonismo era diventato troppo invadente per essere sopportato, provava qualcosa di troppo forte per lasciar perdere. Il momento di lasciar perdere arriva solo quando ti accorgi che le cose non sono più come prima e che non c'è più possibilità di ritorno, non è la fatica a causarlo, è la delusione.
Federica Zavischi lo ammette: l'idea di tornare a casa e non avere più una passione di quelle vere, di quelle non sai manco tu come sono arrivate a te, ma sono lì e le senti forte, la spaventava. «L'ultima volta che ho cavalcato, sulla strada parallela alla nostra c'era una gara ciclistica. Ho pensato che forse avrei potuto ripartire dalla bicicletta». C'è voglia di intensità, quella voglia sparita da tempo: Federica compra una bici, è agosto. In due mesi la usa talmente tanto da distruggerla. «L'ho torturata quella bicicletta, ma dovevo conoscerla. Dovevo fare ciò che mi veniva in mente. Anche se sembrava impossibile, anche se non ero capace e finivo col farmi male».
Quando le viene l'idea di partecipare alla Tre Valli Varesine, si rende conto di dover cambiare bicicletta. Manca poco più di una settimana ma lei vuole esserci. «Ero folle. Non ero per nulla preparata, me lo hanno sconsigliato in molti, non li ho ascoltati. Ho fatto una fatica assurda ma al traguardo sono arrivata. Non ho mai messo il piede a terra». E questo concetto di fatica, Federica lo conosce molto bene: «Mia madre non mi ha mai obbligato a fare nulla. Avevo iniziato a sciare grazie a lei ma non mi piaceva. Ho smesso ed era contenta quanto me. Lei ha amato l'equitazione alla follia ed era orgogliosa di ciò che stavo facendo, quando ho smesso e ho lasciato la mia cavalla ad un'amica ne ha capito le ragioni e sapevo che era dalla mia parte. Mamma mi ha sempre fatto capire che abbiamo tutta la libertà di scegliere e dobbiamo usufruirne a piene mani perché è nostra. Poi, però, dobbiamo essere coraggiosi e andare avanti. Non esiste libertà di scegliere senza coraggio di decidere». Le prime pedalate di Federica sono un inno all'avventura e l'avventura è anche correre il rischio di essere impreparati.
Quando si corre la Bourgogne Cyclo diluvia, lei non é preparata, non ha l'abbigliamento ideale e non sa nemmeno cosa la aspetti. Il suo allenatore la invita a non partire. Lei non vuole sentire ragioni: «Quando cavalcavo avevo l'assillo del risultato, adesso no. Adesso pedalo perché voglio riprovare la sensazione di un gruppo che si muove, che viaggia, che condivide. Se avessi dovuto pensare al risultato, non sarei partita. In quel momento pensavo a me».
Da quel giorno Federica inizia a viaggiare. «Quando cavalchi ci sono mille possibilità, puoi essere preparatissimo e sbagliare tutto. Si tratta di una sintonia. In bicicletta la responsabilità è tua, dove arrivi o dove ti fermi sei tu a deciderlo». In bicicletta, torna la condivisione di un punto di vista diverso: «Ho scalato lo Stelvio con una compagnia variegata: da Como, alla Svezia, al Sudamerica. Vuoi la verità? Non conoscevo quasi nessuno. Molti dicono “ho fatto lo Stelvio”, per me puoi dire di aver fatto lo Stelvio solo se lo hai fatto in bici. Solo se, verso gli ultimi tornanti, ti sei affacciato e vedendo quanta strada mancava hai pensato fosse meglio non guardare. Se poi ci hai ripensato e hai sorriso. Perché hai capito quanto è valsa quella fatica, cosa ti sei costruito anche mentre non ce la facevi più. In bicicletta si parte quasi sempre da sconosciuti e si arriva che, pur non conoscendosi, ci si sente legati. Così fai la foto di gruppo davanti al cartello che indica la località, perché devi raccontare che ce l'hai fatta. Che ti sei portata lì».
La bicicletta per Federica non è solo questo, è soprattutto un luogo ed un cambio di vita. «Sono stata in vacanza all'Hotel del bosco'' sulle Dolomiti. Cosa vuoi che sia una vacanza? Vai in un luogo, lo vedi, ti piace, ti diverti poi torni a casa. Io da lì non sono stata più capace di tornare davvero a casa. Ci sono tornata solo apparentemente». Così Federica cambia ancora prospettiva e decide di trasferirsi a vivere in Trentino Alto Adige, dalla Lombardia. La prima cosa che chiede quando arriva e se ci sia una squadra di ciclismo. Sono in tre, ma non conta. «Quando ho detto che mi sarei trasferita in molti mi hanno detto che ero pazza. No, non sono pazza. Sono solo giovane e voglio provare. Sbaglio? Si può tornare indietro, non è un destino scritto, non è irreparabile. Succede come quando cadi dalla bicicletta e torni subito in sella. Se non avessi provato non saresti caduto, certo. Ma se non avessi provato non saresti neppure in sella». E da lì, dal Trentino, Federica Zavischi vuole poche cose: «Voglio godermela questa bicicletta e riprendermi tutto quello che la velocità e l'agonismo mi avevano tolto. Per guardare bene devi rallentare. Se vai troppo veloce non puoi. Io voglio prendermi la libertà di pedalare al mio passo, di andare dove voglio e magari di provare quella nostalgia di quando sei arrivato e puoi rilassarti ma in realtà vorresti tornare indietro per ripartire. Voglio godermi il viaggio, come una buona cena, un buon vino e tutta la compagnia che desideri».
Storie di scelte: intervista a Enrico Battaglin
C’è stato un momento in cui i pedali di Enrico Battaglin sembravano non girare più. Era il 2019 e nella testa di Enrico cominciavano a tornare le domande. «Quando vedi che le cose non vanno e non ne capisci il motivo, non sai più cosa raccontarti. La spiegazione è essenziale, almeno per accettare la situazione. Qualche giorno me lo sono anche detto: “Chissà forse non vado più. Magari è arrivato il momento di smettere”».
Non era quello il caso, per Enrico, infatti, tutto cambia dopo un’operazione al naso. Quel periodo, però, gli lascia molta consapevolezza. «Di persone pronte ad aiutarti, nella vita non solo nel ciclismo, ce ne sono poche. In compenso molte aspettano di sostituirti, di prendere il tuo posto. Non è il mio caso ma spesso succede così. Alla fine capisci che i problemi devi provare a risolverli da solo, ad uscire da solo dal fango in cui sei rimasto bloccato, altrimenti non c’è via. Ma forse è anche giusto così, non possiamo chiedere ad altri di semplificarci la vita. Si tratta di una nostra responsabilità».
Il ritiro diventa così per Enrico Battaglin l’occasione per conoscere al meglio i compagni e soprattutto per farlo in tranquillità: l’adrenalina delle gare spesso non lo permette ma la conoscenza non è un aspetto trascurabile per stare in gruppo.
Frequentare i luoghi e le persone, per conoscerle e migliorarsi. «So di un ragazzo che ha un preparatore che non ha mai incontrato personalmente. A me sembra impossibile. Vero è che questa realtà tecnologica tende ad annullare le distanze, ma la fiducia è anche questione di conoscenza diretta. Se c’è una cosa che cerco di portare ai giovani in Bardiani è la mia esperienza. Anche Giovanni Visconti fa lo stesso, ma abbiamo caratteri diversi. Lui è più estroverso, io più discreto, più timido. Non mi piace stare al centro dell’attenzione. Come provo ad aiutare i più giovani? Raccontando ciò che è capitato a me. Io credo che gli esempi restino più in mente. Per portare esempi, però, devi esserci, devi essere presente anche fisicamente, farti vedere, metterti in gioco. Come fai da uno schermo?».
Le esperienze estere di Battaglin, prima del ritorno in Bardiani, gli hanno reso evidente il valore della comunicazione. «Quando ho scelto la Jumbo-Visma, ci ho visto lungo. Non era la squadra di adesso. Poi ho avuto fretta e per non restare nell’incertezza sono passato subito in Katusha. Lì credo di avere sbagliato. C’è una costante: avrei dovuto conoscere meglio le lingue, l’inglese almeno. All’estero considerano molto questo aspetto, puoi avere tanti numeri ma, se si accorgono che non riesci a comunicare, iniziano a nutrire dubbi. So che nella nostra squadra è difficile perché siamo tutti italiani, ma credo serva lavorarci. Impari molto e stai certo che ti servirà».
Comunicazione che può e talvolta deve essere schietta, anche molto schietta. «Prendi Roberto e Bruno Reverberi: il primo è più diplomatico, il secondo più schietto. Alcuni dicono che il modo di Bruno è da vecchio ciclismo, io non credo. Ognuno ha la sua sensibilità ma personalmente se hai qualcosa da dirmi, voglio che tu lo faccia nel modo più diretto possibile. Senza troppi giri di parole. Dritto al punto». Sui Reverberi, Enrico è chiaro: «Bardiani è cresciuta, migliorata da quando io sono andato via. La Bardiani di adesso ha il livello di alcune World-Tour. I Reverberi mi hanno lasciato andare via e mi hanno lasciato tornare. Sono tanti anni che fanno questo lavoro, potrebbero anche stancarsi no? Può accadere a tutti. Invece con la loro parsimonia, vanno sempre avanti. E ogni anno qualcosa di buono lo fanno».
Al ciclismo Enrico Battaglin è arrivato quasi per caso. Praticava anche sci di fondo e gli piaceva, crede che le due discipline siano complementari. Ogni tanto si sofferma a guardare il Biathlon, in televisione. «Il punto è che con questi sport sei in mezzo alla natura, usi tutto il tuo corpo, lo conosci, ti conosci e in questo modo ti senti libero». Battaglin ha anche scelto il ciclismo, all’inizio come negli anni a venire. Dice che del ciclismo ha imparato ad accettare la distanza che, se all’inizio può essere avventura e scoperta, con gli anni, e con una famiglia al proprio fianco, può diventare faticosa da accettare. Poi riprende il filo del discorso e, lentamente, precisa: «La testa è fondamentale. Non devi tralasciare nulla, devi dare tutto ciò che hai ed anche di più. Non sono frasi fatte, lo capisci anno dopo anno. Così diventi consapevole e hai meno paure. Ti alleni meglio e sai esattamente cosa puoi fare. Arriva il giorno in cui puoi anche non gareggiare ma sei tranquillo, sai come hai lavorato e sai quanto puoi fare. Credo sia il momento migliore. Si cresce continuamente: bisogna saperlo per continuare a fare quello che si fa e per continuare a crederci».
Foto: Paolo Penni Martelli
La nuova vita di Sevilla
Chissà se anche a Medellín sarà lo stesso. Se quell’eco arriva fino a lì. I nomi dei ciclisti sono evocativi. Riportano indietro di anni e si collegano quasi automaticamente ad altri nomi, come nella ricostruzione di un puzzle. Succede per il ciclismo come per tutti gli altri sport. Chi non ricorda a memoria la formazione dell’Italia campione del mondo nel 1982? Alcune volte quei nomi sono persino associati alla particolare cadenza nella loro pronuncia da parte di un cronista. Quasi sempre a ricordi o pomeriggi estivi davanti al televisore. Magari nell’infanzia o nell’adolescenza. Per questo se vi nominiamo Óscar Sevilla, è come se vi nominassimo anche Santiago Botero, Juan Manuel Garate, Beat Zberg, José Maria Jiménez, Santiago Blanco, Igor Gonzàlez de Galdeano e molti altri. Solo alcuni fra gli atleti che hanno fatto parte del gruppo a cavallo fra gli anni novanta e il duemila.
Magari eravate ragazzini e seguivate il Tour de France durante le vacanze estive, oppure eravate già adulti e per sapere qualcosa dell’andamento della Grande Boucle aspettavate di infilarvi in macchina e di accendere la radio. Sevilla ebbe il suo anno migliore proprio in quel 2001 ed il racconto apparterrebbe agli annali, non fosse che il ”ragazzino” nato ad Albacete, in Castiglia-La Mancia, il 29 settembre 1976, è ancora sulla breccia e a quasi quarantacinque anni, qualche settimana fa, si è imposto nella prova a cronometro della Vuelta al Tàchira, in Venezuela, chiudendo poi secondo in classifica generale.
Óscar Sevilla arriva in gruppo nel 1998. Esile, non molto alto, ha il classico fisico da scalatore ed il sorriso tipico degli spagnoli. Corre per la Kelme marchio di abbigliamento divenuto noto in Italia per quella maglia a strisce verdi e bianche. Squadra di scalatori e fuggiaschi: Roberto Heras e Fernando Escartìn i più celebri, Alejandro Valverde tra i volti noti lanciati nel professionismo. Al Tour del 2001 chiude settimo, Sevilla. Ha quasi venti minuti da Lance Armstrong, non tiene il passo dell’americano ma è sempre nel gruppo dei migliori e prova anche a giocarsela. A Parigi vestirà la maglia bianca di miglior giovane e solo poche settimane dopo rischierà di vincere la Vuelta, superato dal connazionale Ángel Casero. Sarà la sua migliore annata, negli anni successivi stenterà a riconfermarsi a quel livello. Ma la batosta non è questa, la batosta deve ancora arrivare ed inizia a serpeggiare a fine giugno del 2006 fra le pagine dei giornali e il villaggio di partenza del Tour de France a Dunkerque. È l’Operación Puerto.
Sevilla non è coinvolto personalmente, ma come compagno di squadra di Jan Ullrich alla T-Mobile. «Ho sofferto molto- racconta a Cyclingnews- non potevo fare nulla. Non potevo neanche difendermi perché non ero accusato personalmente. La federazione ci ha lasciato in un limbo: non potevamo tornare e non avevamo nemmeno una giusta pena da scontare». Il ricordo più doloroso per Sevilla è legato alla sofferenza che respirava in casa, la paura di aver deluso. Se vuole andare avanti, deve cambiare qualcosa. Una delle possibilità, è cambiare terra. «Non fosse stato per l’Operaciòn Puerto correrei ancora in Europa. Avrei guadagnato più soldi e sarei anche stato più famoso. Ma non sarei mai stato felice come lo sono ora». Sevilla parte, va in Colombia.
Lì trova la vita vera: «La verità è che sono contento di aver superato quelle difficoltà e di essere qui. Nonostante tutto sto ancora facendo ciò che ho sempre voluto fare. Ho trovato un’altra vita, me la sono costruita. Perché? Perché ho trovato un’altra nazione, dove la vita è considerata per ciò che è e per quanto vale. Spesso in Europa non apprezziamo quello che abbiamo e abbiamo tantissimo. In Colombia hanno molto ma molto meno però danno un valore enorme ad ogni cosa. Si godono la vita e si godono ogni giorno. Non sono arrivato qui in un periodo facile, ma sono riusciti a farmi sentire a casa, a farmi sentire felice».
Così, a chi si chiede perché Óscar Sevilla corra ancora, a chi si meraviglia e non capisce come faccia ad essere così competitivo e a sfidare ragazzi che potrebbero essere suoi figli, lui risponde spontaneamente, quasi non percependo la profondità di ciò che va a dire. Sempre quel suo sorriso, a metà tra lo spavaldo ed il timido e quella cadenza impastata di spagnolo. «Alcune volte la vita ti toglie delle cose. Alcune volte molte cose, ma sappi che te ne restituirà altre. Cose che nemmeno ti immagini. Se ho avuto l’opportunità di ricominciare da capo, dovevo sfruttarla fino in fondo. Con tutto il bene e con tutto il male».
Foto: BettiniPhoto©2020
La scalata di Omar Di Felice all'Everest
Quando squilla il telefono, Omar Di Felice sta sistemando i bagagli per la partenza ed è proprio di questa idea legata al viaggio che inizia a parlarci quasi confidenzialmente. «Ogni volta che si parte o si riparte si rivive la stessa storia. C’è entusiasmo per la carica di avventura che ti aspetta ma hai paura perché, alla fine, cosa realmente ti aspetta lo sai quando lo vivi». Del resto Di Felice non sta partendo per un viaggio qualunque: in circa tre settimane, senza supporto, raggiungerà il Campo Base dell’Everest a quota 5364 metri. Il 6 febbraio, dopo essersi sottoposto a un tampone molecolare per il Covid, Omar volerà verso il Nepal, verso Kathmandu. Da lì, il 15 febbraio, dopo un periodo di quarantena e un altro tampone, aggancerà i pedali e ripartirà, questa volta in sella. «Devo dire la verità, con il periodo che stiamo vivendo mi riesce sempre più difficile essere certo di ciò che farò. Anche in questo caso, credo che la certezza vera e propria non l’avrò fino alla prima pedalata».
L’idea viene da lontano, dall’autunno. «L’ultracycling è qualcosa di solo apparentemente individuale, in realtà dietro devi avere delle persone competenti, che credano in te, che credano alla tua idea e che ti aiutino a realizzarla. Certe cose sono possibili solo grazie a loro, anche se poi a pedalare sono io. Alcune idee mi vengono durante le sgambate invernali, poi c’è la realizzazione. Sono queste persone che ti aiutano ad attrezzare tutte le vie di fuga possibili, le uscite di sicurezza, tutto ciò che ti rende più sicuro e rende più tranquille anche loro che magari ti vogliono bene e ti sanno su qualche passo himalayano nel mezzo della notte. Non è facile».
Da Kathmandu, Omar pedalerà verso nord-ovest sino alla suggestiva regione del Mustang. Di Felice spiega che i primi trecento, quattrocento chilometri per quanto difficili saranno su strade percorribili. Il problema arriverà quando si inizierà a salire verso Kora La Pass, 4660 metri, Annapurna e Thorung La, 5416 metri. Da qui, infatti, si giungerà al Campo Base del Tilicho Lake, 4919 metri, e successivamente al Campo Base dell’Everest.
«In molti tratti dovrò per forza procedere a piedi, con la bicicletta in spalla. Per esempio sull’Annapurna, un passo che in inverno non percorre nessuno. Io mi aiuterò con ramponi e scarponi per oltrepassarlo. Sarò l’unico lì in quei giorni. Nello zaino avrò l’essenziale, gomme chiodate, attrezzatura da bikepacking e vestiti adatti, il più compattabili possibile. Non potrò portare molte riserve di cibo o di acqua. Mi affiderò all’ospitalità dei villaggi locali. Le popolazioni asiatiche sono molto accoglienti, lo sappiamo. Chiederò aiuto a loro». Il problema sarà il freddo. «La possibilità di congelamenti non è data tanto dalle temperature di meno venti, meno trenta gradi, è la quota a fare la differenza. Sarò per molti giorni a 4000, 5000 metri, col rischio di rimanere bloccato e di passare lì la notte, magari in mezzo a una bufera di neve».
In questi casi Omar monterà la sua tenda ed utilizzerà il sacco a pelo, il resto delle notti, invece, lo passerà nei villaggi. «In Mongolia mi trovavo in un deserto, qui no. Credo che gli abitanti del Nepal non siano abituati a vedere ciclisti, però si relazionano con alpinisti ed escursionisti. Chissà. Di sicuro stare con loro mi aiuterà a recuperare. Dovrò avere molta pazienza per l’acclimatamento ed in alcuni casi dovrò anche tornare indietro per aiutare il mio fisico». Di Felice si è confrontato con un medico che gli ha sottoposto un protocollo per il freddo. «L’altitudine è imprevedibile. Noi europei non siamo abituati a confrontarci con queste altitudini. Si può andare incontro a edemi polmonari, a edemi cerebrali. Ho dei medicinali che potranno aiutarmi. Spero di non averne bisogno».
Se Di Felice dovesse trovare una chiave di lettura per questo percorso di circa 1300 chilometri e 40000 metri di dislivello, parlerebbe di visione: «Se chiedi a cento persone se sia il caso di affrontare un viaggio come questo, almeno novanta ti daranno del pazzo. Io mi fido dell’appoggio di chi ho accanto e mi scordo il consenso delle persone. Questo ha voluto essere sin dall’inizio un viaggio “verticale”, un’ascesa al tetto del mondo. Quante possibilità c’erano di realizzarlo? Poche, abbiamo visto tutti cosa è successo con questa pandemia. Credo, però, che le possibilità dobbiamo anche essere bravi a crearcele da soli. Essere visionari, in questo senso. Ed io sono visionario».
Omar chiude la cerniera di uno zaino e torna a parlare. «L’istinto è solo la prima fase. Ti immagini un qualcosa e decidi che vuoi provare. In realtà, quando inizi a camminare dentro ciò che hai immaginato, capisci che l’istinto non basta più. Servono persone che non frustrino le tue idee e che ti aiutino a ritrovare i migliori pensieri anche quando non ne hai più. Soprattutto serve la paura. Non sono un uomo invincibile, non sono un supereroe. Posso sbagliare, posso farmi male. Può accadere di tutto anche a me. Per questo una buona dose di paura la avverto sempre. Non è qualcosa di cui vergognarsi. La paura mi ha sempre salvato, la paura mi ha fatto capire quando dire basta, quando fermarmi, quando tornare indietro. Alla paura devo un grazie».
Foto: @6Stili/Luigi Sestili
Patagonia Alvento: in viaggio con Willy Mulonía
Alvento vi porta dove nasce il vento, in Patagonia.
Ora lo possiamo dire: il viaggio è confermato. Sono bastati poco più di cinque giorni perché il vostro entusiasmo per questa avventura ci invadesse. La conferma del viaggio è delle ultime ore: diverse persone hanno ufficializzato la propria partecipazione al viaggio #alvento con Willy Mulonía e sono rimasti davvero pochi posti disponibili, quindi se siete interessati a partecipare fatevi avanti!
Ma non si tratta di viaggio come altri, che avete affrontato nella vostra vita; ce lo spiega Willy con la sua solita contagiosa energia: «Dodici tappe, ventiquattro ore su ventiquattro. Non si tratta solo di pedalare, anzi, a tratti quella potrebbe anche essere la parte più semplice del percorso. Sei allenato e sai dove stai andando, in fondo devi solo pedalare. Qui si tratta di accamparsi, di prepararsi il proprio giaciglio, di prendersi cura di se stessi, di badare al cibo e all’acqua, di volersi bene. Forse è questa la parte più difficile, quella a cui non siamo abituati».
E la parola chiave per Willy non è impresa, ma consapevolezza. «Non lo nascondo, quando ho iniziato a fare questo tipo di viaggi anche io parlavo di epicità, di condizioni estreme e di imprese. Avevo addirittura il mio sito web che faceva riferimento al concetto di extreme. Non c’è voluto molto perché mi rendessi conto dell’errore colossale che stavo commettendo e lo cancellassi. Sai la verità? Ero talmente preso dall’agonismo che non riuscivo a custodire nemmeno un ricordo. Quando ho fatto il viaggio nelle Americhe sono arrivato a Santiago del Cile senza quasi rendermi conto di ciò che avevo visto in quei primi tremila chilometri. Dentro mi era rimasto davvero ben poco».
Ed è in quel momento che è arrivata la consapevolezza. «Sarà un viaggio di gruppo, sì, ma ognuno potrà permettersi il lusso di compiere un viaggio dentro se stesso, nel proprio io. Consapevolezza significa sapere perché sei lì in quel momento. Significa rendere lo straordinario ordinario. In fondo è straordinario solo perché non lo hai mai fatto prima. Quando lo fai per due, tre giorni, inizia a trasformarsi in un rituale, cominci ad abituarti e a capire che la routine non è poi così negativa, quando sei stato tu a sceglierla per davvero. Io vorrei portare questo fra le quattordici persone che verranno con me».
Solo ad una domanda Willy Mulonía non vi risponderà: «Non chiedetemi che tappa ci sarà il giorno seguente. Non deve interessarvi: ora state facendo la tappa di oggi e vi interessa questa. A sera, a cena, vi dirò del giorno dopo. Prima non saprete nulla. Perché? Perché dovete gustarvi quello che state facendo adesso e se iniziate a pensare al domani, una volta a casa non vi ricorderete più quel che stavate facendo ieri, ovvero oggi. Quando tornate a casa, dovete portarvi un ricordo che vi segni, che vi faccia venire voglia di tornare, qualcosa di dolce, di piacevole».
In quei giorni, Willy racconta che ciascuno potrà scoprire qualcosa di se stesso. «Si proveranno emozioni forti, diverse per ognuno. Ogni persona si porta qualcosa dentro, ciò che è, che sente o che prova. Una sorta di inquilino che le abita il corpo. Per alcuni un coinquilino, per altri un estraneo. Si dice “in vino veritas”, in realtà anche “in fatica veritas”. Quando soffri, scopri qualcosa di te. Da un viaggio del genere si torna cambiati, chi più e chi meno. Ma tutti cambiano. Alcuni cercheranno una sorta di serialità in questo tipo di avventure, altri si soffermeranno su ciò che hanno capito. Spesso non è così importante sapere cosa si vuole ma può essere oro colato capire quel che non si vuole più».
Per Willy il cambiamento è, in realtà, una delle poche costanti della vita. E qui non c’è filosofia, c’è la quotidianità di ognuno di noi. «Accettare il cambiamento è difficile. Spesso si tende a lottare contro il cambiamento o a rinnegarlo, perché cambiare fa sempre paura. Può ribaltarti la vita per come la conosci. Non tutti hanno il coraggio o la voglia di cambiare. Ma il cambiamento resta una costante ed, in un modo o nell’altro, influisce sulle nostre giornate».
Ma il viaggio più bello rimane quello che possiamo fare all’interno delle persone. «Non è un viaggio di due anni, ma anche con dodici giorni una persona può ritrovarsi con la corazza spezzata. Dodici tappe che tirano fuori tutte le tue fragilità, le tue debolezze, anche i tuoi difetti. Vale per chi fa ventimila chilometri all’anno, come per chi ne fa cinquecento. Non ci sono differenze. Una persona conosciuta anni fa in un viaggio, con famiglia e figli, uno di quelli tosti, all’undicesima tappa scoppiò a piangere pedalando accanto a me. C’ero solo io. Qualcosa si era rotto e lui volle rendermi partecipe di questo suo momento così intimo. Mi fece questo regalo. Quando ci scrivevamo prima della partenza, avevo avvertito delle tensioni. Se vuoi, una persona puoi capirla anche da come scrive, da come parla, perché c’è qualità anche nell’ascolto oltre che nel comunicare. Quel regalo, quella confidenza, mi è restata addosso talmente tanto che abbiamo continuato a scriverci e, qualche giorno fa, di fronte ad un periodo complesso lui mi ha detto: “Sono fatto proprio male, Willy”. No, non sei fatto male. Non siamo fatti male. Siamo semplicemente fatti così. Dobbiamo imparare a conoscerci, ad accettarci e a chiedere aiuto. In questi viaggi, io ho imparato anche questo: a chiedere aiuto alla gente senza timore o vergogna».
Julio Cortázar scriveva: “Nulla è perso se si ha il coraggio di dichiarare che tutto è perso ed iniziare nuovamente daccapo”. Questa è la consapevolezza di cui ci parla Willy.
Scheda tecnica del viaggio in Patagonia
Foto: Paolo Penni Martelli
I sogni leggeri di Umberto Marengo
Umberto Marengo ricorda molto bene i giorni d’estate della sua infanzia. Nonno usciva presto con la bici, andava in edicola, comprava il giornale, faceva un giro in paese e poi tornava a casa. Dopo pranzo si sedeva con lui sul divano e aspettava la sigla d’inizio del Giro. «Vedevo quella macchia di colore sulle strade e mi immaginavo di essere lì». Marengo ricorda come le volate di Mario Cipollini riuscivano a tenerlo incollato allo schermo. «Da ragazzino avevo i suoi poster in camera. Chi avrebbe mai pensato di poterlo incontrare? Mi piacerebbe passarci una settimana assieme, solo per stare ad ascoltarlo. Avrei tante cose da farmi raccontare».
Quando invece pensa alle salite, pensa allo Stelvio e ad Alberto Contador. «Forse non dovrei nemmeno dirlo perché non sono uno scalatore puro e quando la strada sale faccio abbastanza fatica. Ma credo sia per questo che Contador mi ipnotizzava con la sua pedalata. Lui non saliva, lui danzava sui pedali. E poi aveva tanta fantasia, di quella fantasia leggera, da potersi permettere di inventare qualsiasi cosa». La famiglia di Umberto è appassionata di ciclismo, papà operaio e mamma maestra, ma, quando si tratta di scegliere uno sport, il ciclismo è la scelta più difficile. «A otto anni sono entrato nella mia prima squadra. Forse i miei avrebbero voluto facessi altri sport».
Nonno c’è sempre e, se non può seguirlo nelle trasferte più lontano da casa, appena Umberto è vicino corre a vederlo. «Mi chiamava a fine gara e riusciva a farmi star bene anche quando ero deluso. Purtroppo è mancato due anni prima che diventassi professionista. Ero il suo orgoglio, il suo nipote ciclista».
Il fratello di Umberto ora è un cuoco ma, per un anno, ha corso assieme a lui. I loro caratteri sono diversi e, forse, Umberto non poteva che avere il suo carattere per diventare professionista. «Un conto è ciò che vuoi fare, un conto è quello che ti accade. Ci ho creduto solo quando ho firmato, in alcuni momenti, per quanto mi intestardissi, mi sembrava impossibile». Sono tempi difficili: Marengo resta dilettante e torna a casa alla sera deluso, amareggiato, talvolta con l’idea di rinunciare. Gli amici gli dicono che forse dovrebbe cambiare strada, lui non vuole ma capisce che così non si può andare avanti. «Ho provato ad andare a letto con l’idea di buttare tutto all’aria, certo. Ma al mattino mi alzavo più convinto di prima».
Se Marengo parla in un certo modo della fuga è anche per il suo vissuto. «È la mia chiave di lettura del ciclismo: un modo per migliorarsi e mostrare che ci sei». Certo, perché quando ci metti tanto a conquistare qualcosa e sembra sempre che ti sfugga via, poi hai più paura di chiunque altro all’idea di svegliarti di nuovo a mani vuote. L’altro sostantivo per parlare di ciclismo è la furbizia. «Sono furbo. Riesco a risparmiarmi e ad attaccare nel momento giusto. Nelle volate ristrette questa dote è fondamentale».
L’altro giorno parlava con Giovanni Visconti e si dicevano che ormai è il loro terzo anno assieme. Marengo ha fame di imparare e appena parla di un compagno più esperto questo sentimento torna forte, per Enrico Battaglin ad esempio. «La Bardiani Csf Faizanè condensa tutto ciò che potevo immaginarmi del ciclismo. Ora so come ci si sente, mi immedesimo in ogni corridore quando vedo una corsa. Ora comprendo la fatica oltre l’impresa». Sorride quando gli chiediamo di proiettarsi in avanti e di immaginarsi fra cinque o sei anni e ritornano tutti i sogni semplici di un ragazzo alla mano. «Ho sempre sognato di correre la Milano-Sanremo e l’ho già corsa più di una volta. Sì, forse vorrei far bene al Giro d’Italia, magari vincere una tappa. Ma non chiedo poi molto. A me basterebbe restare qui, in questo ambiente. Ed essere una di quelle maglie colorate in mezzo al gruppo. Chissà quanti altri bambini a casa vedono le corse con i nonni e vogliono immedesimarsi. Non voglio altro. Davvero».
Foto: Paolo Penni Martelli
Negli occhi di mio fratello: intervista ad Alessandro Donati
L’intervista con Alessandro Donati, direttore sportivo della Bardiani-Csf Faizanè, parte da una pausa. Alessandro guarda fuori dalla vetrata, abbassa un attimo lo sguardo e inizia a parlare: «Negli occhi di mio fratello vedevo tutto ciò che può dire il ciclismo».
Walter Donati è mancato a causa di una malattia nella tarda primavera del 1998, dopo aver visto vincere il suo idolo, Marco Pantani, al Giro d’Italia. Aveva solo otto anni. «Era un bambino ma lo vedevi che era fatto per il ciclismo. Era perfetto su quella bici, esile, corporatura ideale. Quando si alzava sui pedali assomigliava a quel pirata che tanto amava. Sarebbe diventato un ciclista e avrebbe vinto molto, ne sono convinto. Io avevo cinque anni in più di lui ma, quando pedalavamo assieme, mi massacrava».
Alessandro e Walter sono cresciuti nel piazzale davanti al bar della vecchia stazione di Pescara. Quel bar era gestito da papà: «A noi bastava poco: quattro pietre su un marciapiede e avevamo una porta per la nostra partita di calcio. Quando non era il calcio, era il ciclismo, il nuoto, la pallavolo, il basket. Io sono cresciuto in strada come tanti ragazzi della mia età e lì ho imparato a voler bene allo sport. Non pensavo che sarei diventato un ciclista professionista, pensavo a divertirmi, facevo tutto con una leggerezza assurda. Mi faceva bene».
Alessandro si diverte, esce con gli amici, va a ballare la sera. Alcune volte anche di nascosto dai genitori, scappando da una finestra sul retro della casa. Quando manca Walter, si rompe tutto.
«Dovevo diventare ciclista e fare quello che non aveva potuto fare lui. Non sono stato un vincente ma sono stato corridore e ho sempre amato il mio lavoro. Di più. L’ho amato ancora maggiormente conoscendolo».
Il papà di Alessandro è stato professionista, suo nonno ha gestito una squadra da cui sono usciti diversi professionisti abruzzesi. Lui è stato deluso dall’ambiente del ciclismo ma non lo ha mai abbandonato. «Nel 2013 ho fatto una scelta sbagliata. Sono rimasto senza lavoro e non potevo permettermi di attendere altre proposte. Mia moglie aspettava nostra figlia ed avevamo da poco investito tutti i nostri risparmi per la casa. Ho dovuto cercarmi un lavoro».
Alessandro trova un impiego in una ditta di arrosticini, prodotto tipico abruzzese. Il proprietario è appassionato di ciclismo e investe in quello amatoriale. Dapprima Alessandro partecipa a qualche gara con lui, poi gli parla e si racconta. L’ambiente lo conosce bene, i fondi ci sono e i due investono in una squadra. Si tratta del ritorno, in ammiraglia questa volta: «Io sono cresciuto col ciclismo, ho imparato quasi di più dal ciclismo che dalla scuola. L’uomo che sono è maturato qui. Un uomo tranquillo, pacato ma determinato. Poche parole e pedalare. Il nostro è un lavoro duro. Un lavoro precario, direi. Passiamo circa centocinquanta giorni fuori casa, è vero. Ma ne passiamo altri duecento a casa. Siamo dei privilegiati e dobbiamo ricordarcelo quando andiamo al lavoro».
A casa ad aspettarlo ci sono due bambine, di nove e tre anni: «Per loro vinco sempre. Mi chiamano e chiedono: Papà hai vinto? No? Fa niente, per noi hai vinto lo stesso. Sai perché? Perché a loro, alla fine, della vittoria non interessa nulla. La più grande corre, io la accompagno alle gare e faccio semplicemente il papà, lei del ciclismo ama le cose più genuine».
In fondo Donati era già direttore sportivo in corsa, lo sa bene Stefano Garzelli per cui Alessandro è come un fratello. «Lui si fidava ciecamente di me. Io sapevo dove dovevo portarlo e lavoravo per quello. Il modo dovevo sceglierlo io, carta bianca. Ma Stefano doveva arrivare nel migliore dei modi al punto designato. In corsa non c’è molto spazio per parlare di famiglia o di casa. Quando abbiamo smesso ci siamo raccontati tutto. Ci vogliamo un gran bene». Donati scherza. «Ma sai che io organizzavo le vacanze per tutta la squadra? Sceglievo i voli con le coincidenze migliori, quelli più economici e li portavo in giro per il mondo». In un certo senso è rimasto un qualcosa di quel ragazzino che scappava dalla finestra per andare a ballare.
«Quando correvo pensavo sarebbe stato meglio fare il direttore sportivo. Ora, quando vedo i ragazzi, mi dico che mi piacerebbe tornare con loro in gruppo. Credo che fino a quando non si smette non ci si renda conto del privilegio che si ha. Fuori da qui c’è tutta una vita che molti di questi ragazzi non conoscono, ma è normale. Succede a tutti».
Da quando è salito in ammiraglia Alessandro ha dovuto fare i conti con questo e con molto altro. «Io devo decidere, il direttore ha questa responsabilità. Devo dare indicazioni sul lavoro di altri. Talvolta ho timori anche io, ho dubbi, magari sono nervoso o non sto bene. Ma questo non deve filtrare. Chi dirige deve sapere mantenere l’ambiente sereno. Questo però non significa abdicare alla decisione. Io preferisco sbagliare ma devo assumermi ogni responsabilità. I ragazzi sono tutti diversi, anche psicologicamente. Può capitare di sbagliare approccio. Spiace e si modificherà ma se non decidessi sarebbe ancora più grave. Non farei il mio lavoro».
La riflessione porta Donati al ciclismo di oggi e l’analisi è decisa. «Tutti vogliono vincere, nel professionismo come nelle categorie giovanili. Bisogna capire, però, che si fanno errori colossali se non si ha chiara la situazione. Da giovani noi dobbiamo crescere dei ragazzi non dei campioni. Altrimenti li roviniamo. Di campioni ce ne sono pochi, di uomini tanti. La vita del ciclista oggi è molto esasperata. A breve non ci saranno più carriere di quindici anni, solo di sette, otto anni. Credo manchi quella spensieratezza del gioco in strada, con quattro pietre e tanta fantasia. Credo che, almeno fra i più giovani, dovrebbe tornare questa leggerezza».
Foto: Paolo Penni Martelli
Il tempo non torna più: intervista a Filippo Fiorelli
«Non mi ha mai detto bravo. Se arrivavo in volata e vincevo mi diceva che avrei potuto partire prima, se partivo troppo presto mi spiegava che sarebbe stato meglio aspettare la volata. Non lo faceva per cattiveria, lo faceva per insegnarmi a non sedermi mai, a fare la vita del corridore. Mi diceva sempre: “Se vai in gara, devi correre. Altrimenti ti alleni e basta. Non si va in corsa per giocare”. Tutti i miei errori li ho capiti grazie a lui». Filippo Fiorelli parla così di Marcello Massini, il suo preparatore, lo definisce «un tipo strano ma in senso buono, uno di quelli che devi conoscere per capire».
Dopo le prime vittorie in Beltrami, Fracor e la convocazione in nazionale, è stato proprio l’incontro con Massini nel 2017, un anno difficile dopo la mononucleosi, a far scattare qualcosa in questo ragazzo di Palermo dai capelli rossi e dalle tante lentiggini. «Ha visto in me qualcosa che nessuno aveva mai visto e me lo ha tirato fuori. Lui e Paolo Alberati sono stati i miei appoggi: tanta sincerità e poche illusioni».
Il papà di Filippo era un amatore nel settore mountain bike e avrebbe voluto vedere suo figlio correre da subito in bici anche lontano dalla Sicilia. «Mia mamma era abbastanza preoccupata: sarei dovuto andare lontano da casa e avrei dovuto lasciare gli studi. Purtroppo in quei giorni papà ebbe un grave incidente ed io alla bicicletta non pensai più per diverso tempo». Sotto casa, però, ci sono dei locali di proprietà dei nonni e un anno il nonno affitta il negozio a un venditore di biciclette; lì accade qualcosa, lì la bicicletta torna nella vita di Filippo.
Questa volta è qualcosa di più serio, qualcosa che impone una decisione. Filippo decide di partire per andare in Toscana, c’è una squadra ad aspettarlo. «Ho passato una settimana a non dormire per l’entusiasmo prima della partenza. Sono partito con un amico: in treno abbiamo parlato tutto il tempo. Ci chiedevamo che vita ci aspettasse, è normale no? Ti chiedi sempre cosa ti aspetti. Le difficoltà le capisci dopo, quando sei solo e devi crescere prima, devi diventare grande più in fretta. All’inizio ero abbastanza scosso da questo tipo di vita ma la accettavo in quanto tale. Mi dicevo che se per fare il dilettante era necessaria, non potevo fare altro».
Filippo Fiorelli è un tutt’uno con la sua terra. «Non si parla solo di famiglia o parenti. Quando mi allontano, della Sicilia mi manca qualcosa che non si può nemmeno raccontare. Mi manca l’aria, mi mancano le sue strade, le sue estati e il gelato sul muretto con gli amici. Fatico a immaginarmi lontano dalla mia terra». Due settimane fa, Fiorelli era a Palermo con Giovanni Visconti. «Per noi è un esempio, un modello. Per molti ragazzini è la ragione stessa per cui iniziano a correre, perché vogliono essere come Giovanni. Ricordo benissimo cosa ho pensato la prima volta che l’ho incontrato in nazionale. Qualcosa che riprovo ogni volta che penso ora che siamo compagni di squadra».
Visconti racconta di parlare poco il dialetto siciliano ma quando è con Fiorelli, sì. «Dice che gli tiro fuori un lato caratteriale che manco lui sa di avere». Così giù a ridere e scherzare, la mattina a colazione o su un divanetto, la sera prima di tornare in camera.
L’altro giorno Fiorelli lo diceva ai suoi compagni: «Dai, sono stato anche fortunato». La fortuna di cui parla Filippo è quella che insieme alla determinazione lo ha portato a diventare ciclista, pur iniziando a pedalare tardi. Determinazione, perché a Fiorelli non piace proprio lamentarsi. «Quando sei in mezzo ad un problema, qualunque problema, devi cercare una soluzione. Non lo risolvi piangendoti addosso e tanto meno lamentandoti con te stesso o con gli altri». Poi una riflessione. «Quando inizi a pedalare seriamente a diciannove anni, non è come quando lo fai dai dodici anni o anche prima. Non è facile arrivare al professionismo. Però non mi pento di nulla. Sono felice delle scelte che ho fatto e credo anche siano state le scelte giuste».
Già perché Fiorelli del tempo ha capito la cosa più importante. «Diciotto anni li hai solo quando sei realmente diciottenne, non prima e non dopo. Non puoi riaverli a sessant’anni. Per cui è giusto che vivi in pieno i tuoi anni e fai tutto ciò che puoi fare. A costo di provare e sbagliare. Certe cose devi viverle perché, si sa, il tempo non torna più».
Foto: Paolo Penni Martelli
La schiettezza e l'orgoglio: intervista a Roberto Reverberi
Poco dopo la metà della Vuelta 1996, Bruno Reverberi ha fatto le valigie ed è tornato a casa. In ammiraglia è restato il figlio, Roberto. È il 19 settembre. Il giorno seguente, nel tardo pomeriggio, Roberto telefona a casa, risponde papà: «Papà, abbiamo vinto. Abbiamo vinto con Biagio Conte». Bruno Reverberi non ci crede. «Sai, più di vent’anni fa non c’era tutta l’informazione che c’è oggi e papà non sapeva nulla. Probabilmente pensava fosse uno scherzo, ci ho messo diversi minuti per convincerlo che era effettivamente andata così. Suo figlio aveva vinto la prima corsa in cui si era trovato in ammiraglia da solo». In realtà il ciclismo era di casa dai Reverberi, almeno dai tempi in cui, con Roberto ancora piccolo, Bruno aveva corso qualche periodo nei dilettanti. Successivamente il passaggio come direttore sportivo nelle categorie minori e qualche anno dopo nel professionismo. Parliamo di circa 39 anni fa. Roberto si era subito appassionato al ciclismo guardando papà. Aveva anche provato a correre, per circa sei anni, ma ben presto si era reso conto che non sarebbe mai diventato un corridore di livello. «Inizialmente seguivo papà e facevo il meccanico. Mi piaceva, e per sette, otto anni ho continuato. Poi mi sono sposato e ho deciso di aprire e gestire un negozio. Il fatto è che a me la vita del direttore sportivo è sempre piaciuta, soprattutto per il fatto organizzativo. Mi piace pianificare, organizzare, studiare tutto nei minimi dettagli. Forse, in cuor mio, ho sempre saputo che, alla fine, sarei ritornato». Bruno sa che la passione di Roberto è il ciclismo e vede in lui alcune delle doti fondamentali per fare bene questo lavoro. Passa qualche tempo e Roberto torna. Questa volta in ammiraglia accanto a papà.
«Io e papà siamo molto diversi. Il mio carattere somiglia a quello di mia mamma. Papà è uno molto forte, duro, autoritario direi. In famiglia come con i corridori. Lui ci va giù dritto. Ha ben chiare poche e semplici regole e quelle devono essere rispettate. Io cerco di mediare maggiormente, dico ciò che c’è da dire ma lo pondero bene prima. Il punto è che poi, quando mi rendo conto di non essere ascoltato, sbotto e quando sbotto non ce n’è per nessuno. Non so se sia un bene, forse sarebbe meglio essere più lineari». Con papà si parla molto di ciclismo ma Roberto avverte: «Certi argomenti è meglio evitare proprio di toccarli. Ogni tanto ho provato a impuntarmi ma con lui è una battaglia persa. Non ti dirà mai che hai ragione. Magari lo pensa ed agisce di conseguenza ma non lo ammette nemmeno per scherzo. Una cosa però devo dirla: mi ha sempre lasciato fare la mia strada liberamente, non si è mai intromesso, non mi ha mai condizionato nelle decisioni».
Roberto Reverberi è di poche parole con i suoi corridori, questione di chiarezza e schiettezza. «Io lo dico sempre: i treni passano una volta sola nella vita. Posso dirti una volta che per fare la vita da ciclista devi impegnarti, altrimenti è meglio se vai a lavorare. Non te lo dirò una seconda volta. A me fa sorridere chi continua a criticare le squadre per i corridori lasciati a piedi. Sia chiaro e cerchiamo di ricordarcelo: non siamo un ente assistenziale. Un conto è dare una possibilità, un conto è approfittarsene. Alcuni ragazzi se ne approfittano e a questo gioco non ci sto».
Negli anni Roberto Reverberi ne ha viste davvero di tutti i colori e con cortesia estrema, ma anche fermezza, ci tiene a non lasciare dubbi. «Molti ragazzi che sono venuti in Bardiani hanno corso subito il Giro d’Italia, la Milano-Sanremo o altre gare importanti. Da noi funziona così: se sei forte, se hai le caratteristiche adatte per una gara, hai tutta la squadra a disposizione anche se sei giovane. A queste condizioni devi metterci tutto l’impegno possibile. Non puoi permetterti di fare il turista, di trovare scuse ogni volta che c’è da andare in fuga, di pensare a vivacchiare. Nel ciclismo non si può vivacchiare. Alcuni non lo hanno ancora capito: ci sono atleti con un fisico e delle potenzialità incredibili che si buttano via perché non hanno la testa giusta. Non sai quanto mi fa arrabbiare questa cosa».
Bardiani è sempre stata una squadra di formazione, in cui molti giovani hanno spiccato il volo e Reverberi ne è orgoglioso. «La cosa più bella che possa succedere a un direttore sportivo è veder vincere un neo professionista. Valgono anche i piazzamenti, i tentativi. È inutile girarci intorno: o sei un campione, o ci provi da lontano, o ti metti a disposizione. Si tratta dei ruoli, chi non rispetta i ruoli fa un danno tremendo a tutta la squadra. Pensano di fare di testa loro per un piazzamento che salvi il contratto, in realtà fanno peggio. Noi vediamo tutto, vediamo chi si impegna, chi è solo sfortunato, chi ha qualità, chi si mette a disposizione e chi fa il furbo. Negli anni i furbi ho imparato a riconoscerli a chilometri di distanza».
Quando parla di ricordi ed emozioni, Reverberi pensa alla maglia gialla di Ciccone al Tour de France, quella che lo ha commosso perché «Giulio era stato fermo un anno e mezzo per un’ablazione e noi abbiamo continuato a crederci. Fosse stato in una squadra World Tour, chissà…». Alla mente poi affiora il piazzamento di Sacha Modolo alla Sanremo: «Alla Tirreno-Adriatico lo vedevo che era fresco come una rosa. Al ritorno, in auto, c’erano lui e Pozzovivo, e ho detto al Pozzo: “Hai da fare nel fine settimana? No? Porta Sacha a provare il percorso. Questo arriva nei cinque”. Alla fine è arrivato quarto. Ma ci credevamo solo io e Domenico, gli altri quasi mi prendevano in giro. Bisogna guardarli i corridori, c’è poco da fare». Quest’anno Bardiani ha in parte cambiato politica, inserendo in squadra due atleti di esperienza del calibro di Enrico Battaglin e Giovanni Visconti. Per stare vicino ai giovani e aiutarli a crescere nel migliore dei modi. «Giovanni ha proprio l’indole del capitano, è un atleta modello. Lo vedi che li consiglia in ogni cosa, dal pranzo alle frenate brusche in corsa. Lavorare con uomini così è un piacere».
Questo cambio di politica è dato anche da un cambio abbastanza radicale nel modo di orientarsi del ciclismo. «I giovani si fanno ingolosire sempre più dalle squadre World-Tour perché credono di avere più opportunità lì. Così per sperare di inserire qualche buon corridore dobbiamo cercare sempre ragazzi più giovani. Faccio notare una cosa: le corse non vengono disputate da trenta ragazzi per squadra. Non è detto che tu correrai perché sei in quel team. Lì ci sono i capitani che hanno sempre la precedenza, non puoi inventare molto, non puoi inventare fughe o azioni particolari. Ti vengono a riprendere e ti mettono a lavorare. Preferisci fare panchina in una squadra di grande livello o provare a crescere in una buona squadra? Noi abbiamo vinto trenta tappe al Giro d’Italia, non so se rendo l’idea. La domanda è semplice, basta rispondersi».
La colpa però non è solo dei ragazzi. «Quante litigate ho fatto e faccio quotidianamente con i procuratori? Molti pensano solo a inserire i ragazzi nelle squadre per la soddisfazione di dire di averli inseriti. Sai quanti ne hanno bruciati facendo così? Il loro compito dovrebbe essere quello di fare il bene dei ragazzi, così fanno tutto tranne che il loro bene». Il tempo ha cambiato anche Roberto e la constatazione per quanto amara è molto significativa. «All’inizio mi fidavo ciecamente di tutto ciò che mi dicevano i corridori, li giustificavo sempre, non mettevo mai in dubbio una parola. Così qualcuno cercava di fare il furbo, di schivare le fatiche e magari consigliava male i compagni. Non tutti gli atleti esperti si mettono a disposizione del gruppo. Rimanendo deluso ho capito che certe volte bisogna aspettare a fidarsi, bisogna essere lungimiranti. Purtroppo il mondo non è sempre come ci piacerebbe che fosse. Basta saperlo e provare a prenderne le misure».
Foto: Paolo Penni Martelli
Di lezioni e umiltà: intervista a Giovanni Visconti
Era il 2007 e Giovanni Visconti era a Stoccarda con la nazionale italiana di Franco Ballerini. In quel gruppo, che pochi giorni dopo avrebbe vinto il Mondiale, Giovanni era riserva assieme a Vincenzo Nibali. Ad un certo punto Danilo Di Luca lascia il ritiro. Nella testa del siciliano scatta qualcosa: «Volevo correre ed in quel momento ero veramente convinto che il “Ballero” mi avrebbe chiesto di entrare in squadra». Franco Ballerini la pensa diversamente e quella sera telefonò a Matteo Tosatto. Il “Toso” sta guidando verso l’Oktoberfest ma al richiamo della Nazionale non può che rispondere presente. Visconti e Nibali non se l’aspettano. «Sono abbastanza permaloso, “musone” direi. Negli anni ho migliorato questo aspetto ma questo continuo rimuginare mi ha molto condizionato durante la mia carriera. Quella sera ho reagito male ed il giorno dopo, in allenamento, non andavo proprio. Stavo in fondo al gruppetto dei miei compagni, con la testa bassa. Come un cane bastonato. Non parlavo più con nessuno, non salutavo nemmeno Franco. Pensa che io e Franco eravamo come fratelli: da bambino, a casa sua, mi aveva regalato il casco e gli occhiali della Roubaix. Quello, però, per me era un affronto. Non riuscivo a digerirlo».
Franco Ballerini si accorge di questo stato d’animo di Giovanni e gli si affianca in allenamento. «Visco, stai rompendo. Ora basta. Levati sto muso e vai davanti a menare. Vuoi la verità? Se non avesse corso Tosatto, avrei fatto correre Nibali. Quindi evita queste scene». La lezione è pesante, Giovanni Visconti racconta di avere i brividi ancora adesso a pensarci, ma allo stesso tempo in quel giorno c’è un bagaglio da custodire. «L’umiltà. Le batoste servono per questo, ti fanno tornare con i piedi per terra. Quando sei giovane devi dimostrare e devi farlo con umiltà. Il tuo tempo arriverà. Prima però c’è bisogno di pazienza e voglia di imparare: la fame di apprendere. Ho vissuto tre generazioni del ciclismo e quando vedevo correre Boonen, quando gli correvo accanto, ero felice per il solo fatto di essere al suo fianco».
Ora, forse, il ciclismo, corrisponde un poco meno a Visconti sebbene Visconti corrisponda perfettamente al ciclismo. Sono cambiate tante cose, forse troppe. «Qui, in Bardiani, non manca nulla e non è assolutamente scontato. Scherzando dico sempre che il primo che si lamenta prende due schiaffi. Voglio essere sincero: sento di poter ancora far bene, sento di poter ancora vincere. Non sarei qui altrimenti. L’altra missione è quella di stare accanto ai giovani, di aiutarli. Ci sono tanti giovani molto promettenti in Bardiani. Credo che la mia esperienza potrà aiutarli. Certo, dovranno ascoltarmi e con i giovani di oggi non è sempre facile».
L’analisi va in profondità e Visconti tocca due punti importanti: la mentalità dei giovani e quella del mondo che li circonda. «Non è solo colpa loro, ci mancherebbe. Secondo me negli ultimi anni sono saltati alcuni passaggi. Tanti ragazzi quando arrivano al professionismo si sentono già ciclisti navigati. Credono di non avere nulla da imparare, non ti ascoltano. Sanno che io metto a disposizione tutto quello che so, l’esperienza serve a questo, altrimenti sarebbe inutile. Però devono avere la curiosità di venirmelo a chiedere e l’umiltà per provare ad ascoltare. In parte sono io a dovermi adattare a certe cose che sono cambiate nel tempo, in parte loro a dover capire che il ciclismo non è tutto qui. C’è una storia del ciclismo, c’è un passato. Perché non vogliamo riconoscerlo?». La storia di cui parla Giovanni è una storia radicata nella pelle, una storia di vento, decisioni ed anche errori. Una storia di sensazioni. «Il tuo corpo comunica. Ci sarà un motivo per cui ti senti stanco piuttosto che carico. Non dico di ascoltare solo le sensazioni, bandendo la tecnologia. Dico di abbinare le due cose. Se un giorno non stai bene, è meglio che non ti alleni. Che fai qualche chilometro in meno, altrimenti è controproducente. Non muore nessuno, non cambia nulla. Sai cosa accade in realtà?».
Il nostro sguardo incrocia quello di Giovanni e lui ricomincia a parlare. «I ragazzi hanno paura di non seguire alla lettera ogni minimo consiglio dei preparatori. Devono avere tutto scritto, in ogni dettaglio. Non è più ciclismo questo, sono telecomandati. Io lo dico sempre: “Ma il preparatore vi restituisce i soldi se non raggiungete i risultati che volete?”. Discorso analogo vale per i procuratori. Siamo noi a pagarli e loro sono “al nostro servizio”. Possono indicarci una via, ma quello che è meglio per il nostro fisico dobbiamo iniziare a saperlo noi. Un domani vorrei fare il preparatore per provare a cambiare questa realtà. Sia chiaro, non tutti i preparatori ragionano così ma alcuni sì. E i ragazzi di conseguenza hanno timore a fare un giro più tranquillo e a fermarsi a prendere un cappuccino prima di tornare a casa. Se saltano un passaggio sulla tabella, vanno in panico. I ritiri dovrebbero servire anche per fare bagarre, per fare gruppo, per stare con i compagni. Alcuni preparatori assegnano il loro lavoro da fare durante i ritiri. Non esiste. Sai cosa è accaduto? Nel ciclismo, con il World Tour che era un bene all’inizio, ora forse meno, è arrivata tanta gente che lavora esclusivamente per lo stipendio. Senza passione».
Senza peli sulla lingua, argomento dopo argomento. Giovanni Visconti lo dice chiaramente: «Io sono fatto così. Magari risulto antipatico, ma mi sento libero. Forse alcuni preferiscono i mezzi discorsi. Io credo che la chiarezza sia un valore». Certi discorsi non sono casuali, provengono da ciò che hai dentro, dalle difficoltà che hai vissuto, dai mostri che hai vissuto.
Marco Pastonesi, quando Giovanni Visconti vinse sul Galibier al Giro d’Italia 2013, scrisse che Giovanni aveva vinto sul mostro perché il mostro lo aveva dentro. Ora Giovanni può parlare di quel mostro. «Ho sofferto di attacchi di panico. Un’esperienza bruttissima da cui non riuscivo a liberarmi. Era quello il mostro che avevo dentro. L’anno prima mi ritirai ed in ambulanza mi dovettero tenere l’ossigeno perché non riuscivo più a respirare. Anche nel giorno in cui ho vinto ho avuto un attacco di panico. Quando il tuo malessere viene da qualcosa di mentale, di psicologico è tutto più complesso. Fai fatica anche a spiegarlo e in pochi lo capiscono. Però, vedi come funziona la testa? Dopo quella vittoria mi sono sbloccato. Due giorni dopo sono tornato a vincere a Vicenza, forse la vittoria più bella di tutta la carriera. Non sai quanti affrontano periodi simili. Quando ci sei dentro è bruttissimo».
Sono quegli stessi mostri a restituirti empatia, capacità di comprensione e di unione. A Giovanni Visconti è da tutti riconosciuta la capacità di fare gruppo e quella capacità è annodata a doppio filo con queste vicende. «Ti rendi conto di tante cose. Del rispetto dovuto ai collaboratori, allo staff, di quanto ogni piccolo gesto li renda orgogliosi, cementi il rapporto e permetta a tutti di stare meglio. Basta un semplice grazie per ciò che fanno per noi. Basta un vassoio con quattro pasticcini ed un caffè. Certe volte una birra ad un meccanico mentre sistema le biciclette. La differenza passa per questi gesti».
Qui si entra in un altro campo e Giovanni Visconti è deciso. «Ad alcuni campioni manca la riconoscenza. C’è troppo egoismo in certe situazioni. Tu come campione hai gloria, soldi, fama. Agli altri cosa resta? Se tu arrivi dove arrivi è anche merito della squadra. Nella vita, prima che nel ciclismo, bisogna riconoscere chi ci aiuta e ringraziarlo. A me forse sono mancate altre cose ma le squadre le ho sempre unite. Forse per le mie origini. Io vengo dal basso, in tutti i sensi. Dalla Sicilia, da Palermo. I viaggi nascosto in macchina li ho fatti davvero, ho conosciuto il nulla e ci ho combattuto per provare ad essere quello che vedi oggi».
Cos’è Palermo per Giovanni Visconti in un pomeriggio di gennaio a Benidorm? «Sono io, è tutto quello che vedi in me. Nel mio modo di parlare, di fare. C’è sempre quella fame che mi monta dentro, quel desiderio di andare a lottare per prendermi qualcosa che ancora non mi sono preso. Questa cosa la conosci se cresci a Palermo, se provi ad emergere da Palermo. Per me Palermo è luogo di allenamento, di sacrifici, di rinunce. Per me Palermo è salita, è quella pasta che mi portavo a scuola, quella che mangiavo a ricreazione mentre i miei compagni uscivano a mangiare le pizzette. Lo facevo per uscire in bicicletta prima che facesse buio. Non conosco nient’altro di Palermo. Oggi per me la casa è in Toscana. Quando vado in Sicilia, dopo due, tre settimane, sento desiderio di tornare a casa. La Sicilia è stupenda, meriterebbe molto di più. Dalla Sicilia viene tutta la forza che ho avuto per costruirmi quello che mi sono costruito. La mia casa in Toscana ha fondamenta in Sicilia. Io sono un siculo-toscano. Palermo è stato il mio sacrificio».
Casa vuol dire famiglia e famiglia per Giovanni Visconti vuol dire figli. Quando pensa a casa, pensa a suo figlio. «Forse perché mi vedeva correre, da piccolo, ha iniziato a praticare ciclismo. Vedevo che non gli piaceva e quando ha smesso, ti dico la verità, sono stato contento. Quando ci sentiamo al telefono parliamo poco di ciclismo, parliamo di altro. Credo che lui vorrebbe smettessi. Ma è anche giusto, ha undici anni e desidera avere il papà vicino. Non me lo ha mai chiesto e credo non me lo chiederà mai ma non smetterei nemmeno se me lo chiedesse. Non per un capriccio. Non smetterei per il suo bene, per il suo futuro. La mia è stata una carriera da onesto lavoratore ma non ho avuto guadagni che mi consentano di mantenermi senza lavorare. Io continuerò fino a quando sarò in grado di fare bene, fino a quando mi sentirò bene».
Qui il discorso ritorna su una vena più intima e Visconti racconta delle sue chiacchierate col figlio. «Cerco di educarlo al valore del denaro. Gli dico sempre che per guadagnare si fa fatica, tanta, e molte persone lavorano tutto il giorno per guadagnare ben poco. Qualche anno fa, quando tutti si trasferivano a Montecarlo, sono andato lì con moglie e figli a fare un giro anche io. Come sono arrivato e ho visto la situazione in cui avrei dovuto vivere ho guardato mia moglie e le ho detto: “Via, andiamo subito via da qui”. Avrei dovuto vivere in un appartamento di cinquanta metri quadri, pagando fior di affitto, in mezzo alla finzione più totale. Non fa per me. Ho fatto i bagagli e me ne sono tornato a casa».
Fuori ormai è buio pesto, nonostante siano appena le otto. Giovanni Visconti sorride, sistema la felpa e riprende a parlare. «Ho trentotto anni e sono ancora qui. Sto facendo ancora il lavoro che ho scelto da ragazzino e lo sto facendo mettendoci tutto quello che ho. Ho fatto una vita sana, integra, consapevole. Le persone mi dicono che sembro più giovane, che in corsa sembro ancora un ragazzino e questo mi riempie di orgoglio. Certo, sono stato deluso. Ognuno di noi si fa male con la vita. Capita a tutti. Anche da questo versante, però, posso dirmi fortunato. Non erano delusioni troppo forti, troppo importanti, troppo pesanti. Visco è in sella, è questo che conta».
Foto: Paolo Penni Martelli