Di Eva Lechner e della libertà

Ci piace ricordare chi notava una profonda similitudine tra uomini e cavalli: «Il cavallo avrebbe una tale forza che, se non intendesse sottomettersi, nessuno riuscirebbe a domarlo. Ad un certo punto però si arrende e accetta questa sorte. Noi siamo così: l'uomo, per natura, è indomito ma deve vivere e vivere con gli altri e per questo cede. Noi crediamo a tante cose di cui in realtà non sappiamo il vero significato, ci crediamo perché ci sono indispensabili per continuare ad esistere in questa società». Ci piace ricordarlo perché parlare di Eva Lechner, in fondo, significa parlare di questo: «La mia è una continua ricerca di libertà. I cavalli rappresentano perfettamente questa libertà di cui mi nutro come pane. Già da ragazza li amavo e ne avrei voluto uno ma i cavalli costavano troppo e in famiglia non potevamo permetterceli; avevamo un pony. Il giorno in cui lo abbiamo venduto è stato il giorno della mia promessa a me stessa: "Quando sarò grande, mi comprerò un cavallo!" Quel giorno é arrivato nel 2009 quando ho comprato il primo cavallo: oggi ne ho cinque». E non è il solito discorso, tanto vero quanto inflazionato, legato alla bicicletta che fa sentire liberi. Non vi stiamo raccontando solo di questo. La libertà nella storia di Eva Lechner ha qualcosa in più. Perché Eva Lechner della libertà ha capito qualcosa in più.

La libertà di Lechner è una libertà densa. Colma di tutto ciò che le appartiene ed anche di ciò che, apparentemente, ne è l'opposto. Di rinunce, ad esempio, che non sono quasi mai l'opposto della libertà, anche se all'inizio possono sembrarlo. Sono il suo prezzo, semmai, ma questo è il senso della conquista: «La mia famiglia non aveva molte possibilità economiche e all'inizio usavo la bicicletta di mia sorella. Per avere una bicicletta tutta mia, una mountain-bike, quell'estate andai a lavorare. Era una Giant argento con la marca scritta in blu. Avevo sedici anni». Perché la libertà, in fondo, a parte la bellezza, l'importanza, non ha molto di diverso da tutte le altre cose che possiamo desiderare nella nostra vita. Vive di un delicato gioco di equilibri come ogni fatto, qui. Forse sembra differente perché scorre in ogni dove, la si può cercare ovunque, la si può inventare o "costruire" ovunque, e gli uomini, nella loro tracotanza, la bramano ansiosamente e la vorrebbero tutta, ma proprio tutta, senza nulla in cambio. Eva Lechner potrebbe raccontare di tutto questo ed in un certo senso lo fa.

«La mia quotidianità è anche una quotidianità di rinunce. Vado poche volte al cinema e vedo poco i miei amici. Mi dispiace? Certo che mi dispiace. Dico di più: certe volte mi sveglio al mattino e avrei voglia di fare tutto tranne che di uscire in bicicletta. In inverno fa freddo, spesso piove, magari non stai bene o hai preoccupazioni che ti tolgono energie. Lì devi lottare con te stesso. Devi dirti che questa è stata una tua scelta, che oggi è il tuo lavoro e hai il dovere di continuare a farlo al meglio senza lasciarti influenzare da tutto quello che ti frulla in testa. Questo dovere, per te, è ancor più forte perché questo lavoro lo hai scelto, cercato, voluto. Perché, alla fine, sai che quando riesci a varcare la soglia di casa e inizi a pedalare ti torna in mente il motivo per cui lo fai. Torni a sentirti bene, meglio di prima, e sei sicura che scelta migliore non avresti mai potuto fare». Una libertà totale sarà difficilmente possibile e forse gli uomini, indomiti per natura, continueranno a soffrirne e a dibattersi come cavalli con le redini al collo e l'anima altrove, in qualche prateria ai confini dell'azzurro. Per l'uomo sarà però sempre possibile la libertà di scegliere ciò che vuole diventare, consapevole di tutto ciò che questa scelta gli toglierà ma fiero di quello che questa stessa scelta gli porterà. Perderà qualcosa ma avrà qualcos’altro. Del resto non esiste prateria che non si disperda nell'orizzonte.

Foto: Bettini


Rosso Roglič

Nel ciclismo c'è una locuzione, di poche parole, che racchiude molti significati. Si dice "andare del proprio passo", che poi non è un passo ma una pedalata, che, alla fine, sembra un respiro, come ha scritto Marco Pastonesi. "Andare del proprio passo" significa seguire il proprio ritmo, assecondare la propria possibilità di quel momento, in un certo qual modo significa non aver paura di ciò che si è in quel preciso istante. Già, perché "andare del proprio passo" può voler dire "perdere del tempo", può aver voler dire "arrivare fuori tempo massimo" che significa fermarsi o meglio essere fermati perché non c'è più tempo. Si può andare del proprio passo in testa o in coda al gruppo, si va del proprio passo per la gloria o più spesso per la speranza. Per arrivare primi, per arrivare prima o semplicemente per arrivare. "Andare del proprio passo" può voler dire arrivare in ritardo, può voler dire perdere, può anche voler dire arrendersi se quel passo finisce, ma non vuol dire andare piano. Magari vuol dire andare più piano di qualcun altro, solo quello. Chi va del proprio passo non sta risparmiando nulla, sta dando tutto. Tutto quello che ha. Sta inseguendo o sta scappando da qualcuno, nel ciclismo è sempre così, fidandosi del proprio modo di seguire o scappare. Il tuo "modo" non sarà sempre il migliore in termine assoluti ma resterà comunque il tuo e non seguirlo, non fidarsi di lui, significherà sfinirsi lottando contro il vento e poi cedere. Tu puoi fare ciò che ti è possibile e nulla cambierà questa realtà.

Ma riconoscere questa realtà non significa fare del "fatalismo" o del "vittimismo". No, è l'esatto contrario. Riconoscere questa realtà significa vivere più forte e esprimere al massimo ogni potenzialità perché andare del proprio passo vuol dire lavorare sulla propria persona, bandendo inutili lamentele, colpe e invidie. Vuol dire, per esempio, avere uno sguardo simile a quello di Primož Roglič, oggi durante la cronometro della Vuelta, da Muros a Mirador de Ézaro di 33,7 chilometri, ma forse ancor di più domenica all'Alto De Angliru o sabato, all'Alto de la Farrapona/Lagos de Somiedo. Perché? Perché oggi per Roglič era anche facile andare del proprio passo, contro il tempo è nettamente migliore dei suoi avversari. Il difficile era nei giorni scorsi, quando la strada era tutta all'insù e a dettare legge erano altri. Lì andare del proprio passo significava staccarsi e pagare dazio, significava contare i secondi o i minuti di distacco. Serviva coraggio, di più serviva pazienza. La forza che serve per tenere a freno quell'istinto di fare qualcosa che non puoi fare, solo per dimostrare, per non passare staccato, per lasciare nulla agli avversari. Diremmo che serviva consapevolezza. E Roglič è stato consapevole.

Consapevole del fatto che è possibile non essere i migliori in ogni tappa, che è possibile staccarsi e anche cedere il simbolo del primato. Ci si può dare questo permesso e farlo con consapevolezza e serenità significa essere già pronti a rimettere la propria ruota davanti a quella degli altri. La costruzione di ogni vittoria, in fondo, parte sempre dal primo momento dopo la sconfitta. Da come reagisci, da come accetti il rifiuto e da come sei disposto a ripartire. Senza rinunciare al proprio traguardo ma dandosi il proprio tempo per raggiungerlo. Roglič questo tempo lo ha scandito al ritmo del cronometro e adesso il suo passo è il passo giusto. Non sappiamo se lo resterà, non sappiamo se le salite imporranno un altro passo e un altro battito. Sappiamo però quello che questo martedì di inizio novembre in Spagna ha voluto rimarcare. Abbiamo tutti il diritto di inseguire un qualcosa a cui sentiamo di appartenere. Un diritto che somiglia a un dovere. Un diritto che è consapevolezza del fatto che "col nostro passo" possiamo arrivarci. Un passo che sarà adatto per certi giorni, veloce per altri, troppo lento in alcune circostanze. Ma un passo da accettare, un passo di cui essere comunque orgogliosi, perché è la nostra unica possibilità di progressione.

Foto: Bettini


Paolo Mei, la voce del Giro

Ogni volta che Paolo Mei prepara la valigia e parte per raccontare una nuova corsa, si ricorda delle parole del suo collega Stefano Bertolotti: «Stefano mi ha sempre detto che, in fondo, la nostra è una piccola missione. Per vedere gli eventi che presentiamo le persone magari prendono un permesso dal lavoro o spostano i loro impegni. Qualcuno viene a vederci per evadere da un momento difficile o per staccare la spina dalle difficoltà. Abbiamo il dovere di restituire serenità, leggerezza, di farli divertire. Volendo potrei essere talmente tecnico da stufare tutti. Non avrebbe alcun senso. Noi siamo lì per loro. Lo speaker non deve mai porsi al centro, al centro c'è la storia che racconti, ci sono le persone che ti ascoltano. Tu sei un tramite. Se vuoi essere al centro dell'attenzione forse hai sbagliato qualcosa». Come in ogni missione conta tutto, anche il più piccolo gesto. Se hai la consapevolezza di essere lì, sul palco, per gli altri, sai che ogni attenzione é importante: «In questo Giro d'Italia, una sera mi ha scritto Filippo Ganna. Era la sera prima di una cronometro. Mi ha chiesto se fosse possibile far trasmettere due canzoni prima della sua partenza: parliamo di Engeltje e Kind Van De Duivel di Jebroer. Un gesto davvero piccolo ma importante. Che ne sappiamo? Magari un pezzetto di quella vittoria viene anche da quella musica, ci pensi? Magari una sensazione positiva viene da quelle note. Sono stato felice». E mentre parla degli atleti, Paolo Mei restituisce tutto il senso di gratitudine per un lavoro che è, in realtà, una passione.

«Sono un uomo fortunato, sono un appassionato di ciclismo che vive della sua passione. Certo c'è la tenacia, c'è la determinazione e la professionalità ma c'è anche tanta fortuna. Fare ciò che ti piace è una delle più grandi fortune che possano capitarti. Sono arrivato per caso a questo lavoro, un incidente nel 2002 ha bloccato la mia carriera da atleta. Amo alla follia andare in bicicletta. Sono appena tornato da un giro di sei ore in montagna, in gravel. C'è un raro benessere in bicicletta. All'inizio parlare con un microfono in mano era poco più di un gioco, come cantare, poi le circostanze della vita mi hanno portato qui. Il mio passato da atleta mi consente di vivere gli atleti stessi con una intensità particolare, li capisco, li capisco molto bene. Con alcuni ho un rapporto da amico, con altri da fratello, per alcuni sono il fratello maggiore che consiglia, altri con i loro piccoli gesti mi hanno reso un uomo felice». Il pensiero va al Giro d'Italia del 2011 e a Michele Scarponi: «All'ultima tappa, gli sono andato vicino e gli ho detto scherzando: "Bravo eh. Neanche un cappellino mi regali, grazie". Io stavo scherzando, lui si tolse la maglietta e me la regalò. Andò in conferenza stampa in canottiera. Capisci cosa significhi questo a livello umano? Parliamo della costruzione di un rapporto umano che passa attraverso tante delicatezze. Per esempio io chiedo sempre ai ragazzi se se la sentono di rispondere alle mie domande sul palco. Mi sembra giusto, mi sembra un gesto di rispetto verso di loro».

Il lavoro di Paolo Mei è basato sul contatto umano, il pubblico è il suo universo: «Di base sono un intrattenitore più che un giornalista. A me interessa prendere il pubblico per mano, tenerlo quasi in ostaggio, catturarlo e accompagnarlo per tutta la durata della presentazione. Per fare questo mi sono inventato un modo tutto mio di svolgere la professione. Non ho modelli, non li ho mai avuti. Non avrei mai pensato di fare questo lavoro e, come ho iniziato a farlo, ho provato a colorarlo di una personale interpretazione. All'inizio presento sempre l'evento in maniera allegra. La musica giusta aiuta tantissimo, è un vestito cucito addosso all'evento. Poi cerco di interagire con gli spettatori, cerco di capire cosa desiderano vedere. Cerco di portarli con me». Per fare questo c'è un ingrediente essenziale: «Il pubblico, per seguirti, deve fidarsi di te e per fidarsi di te deve capire che sei competente, che conosci quello che stai raccontando. Se si fida poi ti segue. Se si fida puoi prenderlo per mano». Quella particolare intesa resta addosso a chi racconta, sotto forma di sensazione e talvolta commozione: «Ogni lavoro impone un bilancio. Io lo faccio in ogni momento della giornata, mi interrogo e mi chiedo se e dove sbaglio. Certe volte come sali sul palco ti accorgi che il pubblico non interagisce. Il pubblico ha un carattere esattamente come le persone. Certe volte il pubblico è timido, certe volte estroverso. Forse questo è anche il bello ma tu comunque ci pensi, provi e riprovi. Ci sono istanti bellissimi che non ti scordi più, quando il pubblico diventa parte di te, quando il pubblico si sente forte. Se ripenso alla tappa Cosenza-Matera del 2011 o alla tappa di Feltre dello scorso anno ho ancora i brividi. Quell'entusiasmo ti resta appiccicato addosso. Quell'entusiasmo fa parte di te».


Miriam Vece, il mondo dei velodromi, la paura e il coraggio

Miriam e la paura si sono conosciute bene. Forse, proprio conoscendo la paura, Miriam ha capito che c'è sempre almeno una possibilità di salvarsi o di essere salvati. Spesso, poi, la salvezza dalla paura non viene nemmeno da un eroe coraggioso, da un cavaliere senza macchia e senza paura. Spesso dalla paura ti salva chi ha paura quanto te, chi riesce a sentire la tua paura e a starti sempre più vicino: «Ero alla Sei Giorni di Fiorenzuola, qualche anno fa. A portarmi su nel keirin c’era Davide Arzeni. Io tremavo per l’ansia e per la paura, è normale. Si tratta di una adrenalina molto forte. Anche Davide però tremava mentre mi spingeva. Forse il suo tremore era anche più forte del mio. Io posso raccontarti le mie sensazioni, posso spiegarti il perché, posso narrarti il più piccolo sussulto nel mio stomaco. Questo posso farlo. Non riuscirei mai a spiegarti il suo. Mi ha commosso. Sai perché? Per quanto riusciva a starmi vicino, per quanto riusciva a condividere il mio sentire. Davide era me in quel momento. Senza dire una parola, solo con la forza della vicinanza». Senza parole, certo, perché come tutte le sensazioni e la maggior parte delle condivisioni spiegare non serve a nulla. Quante volte vorremmo essere capiti in un nostro timore o in un nostro volere e per questo cerchiamo di spiegare o di chiedere? Spesso non serve. Sì, perché per capire certe cose devi farti parte dell'altro e provare ad ascoltarle. Ascoltare le sensazioni prima delle parole. Lì capirai come stare vicino a qualcuno, lì capirai cosa desidera veramente la persona a cui sei accanto.

Miriam Vece in pista è arrivata proprio grazie a chi ha saputo ascoltare un istinto, un talento non ancora pienamente palesato. Quel giorno, quel primo giorno, Miriam ha pianto e ha avuto paura. Qualcuno però stava ascoltando oltre. Per fortuna, perché poi il velodromo è diventato il mondo di Miriam: «Nel velodromo c’è una sorta di vita parallela che accomuna tutti coloro che sono all’interno della struttura. Si condivide tutto. Con le compagne, ma non solo. In gara non deve essercene per nessuna, ma finita la gara si esce assieme. A Berlino, l’ultima sera siamo uscite tutte assieme: russe, messicane, olandesi. Tutte assieme. Ti senti meglio quando puoi condividere». Chi ha più anni di te, chi è più grande di te, ha questo dovere: spronarti affinché tu possa seguire la strada in cui credi perché lì e solo lì avrai la felicità che chi ti vuole bene desidera per te: «Ai primi ostacoli mi ero sempre fermata. Come accadeva qualcosa che mi faceva male, che mi faceva soffrire o mi mortificava, cambiavo strada convinta che quella intrapresa non facesse per me. È successo anche con la pista, sai? Cosa si può pretendere, d’altra parte? Tanti allenamenti, sacrifici, notti insonni e pasti saltati perché le prime volte, da junior, divorata dalla tensione, non riuscivo neanche a mangiare i giorni prima della gara. E poi magari ti qualifichi, fai la prima batteria e ti eliminano. Me lo sono chiesta tante volte: siamo sicuri che questo sia il mio futuro?».

Oggi Miriam ha risposto a quella domanda e sa bene cos'è giusto. Anche quando ha paura: «Una volta, in una partenza del keirin, sono incappata in una brutta caduta. Quella abilità, quella di fiutare la partenza giusta, è rimasta nel mio DNA, ma la mente mi riporta sempre a quei momenti e ho paura. Razionalmente non riuscirei a fare ciò che faccio. Si va a sessanta chilometri orari e posso assicurarti che tra i manubri spesso non c’è più di un centimetro. Alcune atlete sono molto brave a buttarsi in tutti gli spazi. Io, ironizzando, le chiamo “assassine”. Sono incredibili. Bello da vedere, ma posso assicurare che quando si è lì si ha paura. E quel ricordo torna sempre». In camera sua ci sono tutte le medaglie che la pista le ha consegnato: «Sono tutte qui, sai? A volte le guardo e penso che ne vorrei di più. Poi guardo meglio, ci penso un attimo e mi dico che per ora possono bastare». Questo è molto bello ma non sono solo quelle ad averle dato la forza di affrontare le paure che le si sono presentate e continueranno a presentarsi alla sua mente. Le paure, Miriam, le ha sconfitte perché non é restata sola a viverle e perché ha capito che lasciare quel mondo per la paura non la avrebbe salvata dalla paura stessa, che si sarebbe ripresentata in altre forme ed in altri mondi, l'avrebbe solo resa infelice: «C’è un rapporto troppo stretto con la bicicletta. Me ne sento parte. Per quante volte nei periodi di crisi abbia pensato di gettarla in qualche angolo e lasciarla lì, non saprei mai vivere senza la bicicletta. È un futuro che non riesco nemmeno a pensare. O forse non voglio proprio pensarci».

Foto: Bettini


Raffaele e l'importanza dei piccoli gesti

«Sai quando sei bambino e ascolti le favole o le fiabe raccontate dai genitori o dai nonni? Credi agli alberi che parlano o si muovono, credi alla magia e agli incantesimi. Succede perché sei immerso nell'ascolto. I racconti dei viaggiatori del BAM mi hanno riportato lì». In realtà, Raffaele Fanini non è riuscito ad ascoltare tutti quei racconti perché, mentre saliva al rifugio, stava mettendo assieme una storia, una di quelle belle, una di quelle da raccontare. Una di quelle storie che iniziano con un uomo che prova a cambiare qualcosa: «Da ragazzino lessi su una rivista di queste "isole di plastica". Non volevo crederci, ho addirittura pensato fosse una notizia falsa. Invece no, tutto vero. La cosa incredibile è che troppo spesso non abbiamo coscienza del problema. Per questo non lo affrontiamo e spesso non vogliamo neanche parlarne. Crediamo che l'inquinamento, il surriscaldamento globale siano qualcosa che non ci toccherà mai direttamente e pensiamo ad altro. In realtà il problema è già qui, tocca noi e tutte le persone a cui vogliamo bene. Se aspettiamo, se non facciamo nulla, quando ci sveglieremo sarà troppo tardi. So bene che il mio gesto non risolverà il problema ma so anche che al mondo siamo in sette miliardi e bastano pochi sciagurati per rovinare tutto. Se, invece, provassimo a metterci d'impegno per cambiare qualcosa? Uno per volta, uno alla volta». Il nostro "c'era una volta" parte da qui, da un ragazzo di trentadue anni in sella a una "Moser" del 1978 con agganciato un carrello per raccogliere i rifiuti trovati lungo la pedalata: «La mia bicicletta è abbastanza vecchia ma funziona e poi ci sono affezionato. Questa è una storia comune, no? Forse la potenza della bicicletta è proprio qui, lei è rimasta intatta nonostante tutto quello che è cambiato negli anni. Ha resistito all'innovazione, al futuro che avanzava a grandi passi e tutti siamo legati alla nostra prima bici. Alle medie trascorrevo interi pomeriggi a vedere VHS di Bmx. La mia prima Bmx, una Atala color argento, con cui saltavo le prime cancellate, è nella cantina dei miei genitori. Qualche tempo fa, papà, mentre era intento a liberare la cantina, mi propose di buttarla. Ma stiamo scherzando? Non serve a nulla ma resta lì».

Le cattive abitudini delle persone si misurano in spazio e tempo e Raffaele rende bene questa idea: «Quando mi chiedono quanta plastica raccolga nei miei viaggi parlo di chilometri e di minuti. Noi percorriamo circa 60 chilometri in un giorno ma stiamo in sella dalle dieci alle dodici ore. Capisci quanto tempo trascorriamo fermi a raccogliere plastica? Io sono convinto che parte della gente che mi segue e mi fa i complimenti sia la stessa che poi, magari, butta il pacchetto di sigarette fuori dal finestrino. Perché? Perché viviamo nell'inconsapevolezza dell'importanza dei piccoli gesti». Uno di questi passa per la scelta della bicicletta: «Sarei scontato se ti dicessi solo che la bicicletta mi regala la libertà. Allora mi spiego meglio: la bicicletta non inquina e ti porta dove vuoi. Non spendi praticamente nulla e puoi arrivare lontano in tempi anche abbastanza brevi. In questo periodo disgraziato lo stiamo scoprendo». Il punto, e Raffaele Fanini lo spiega bene, sono le priorità: «Ognuno ha una propria scala di cose importanti. Alcuni pongono al vertice il benessere economico, altri i divertimenti e così via. L'ambiente? Il pianeta? A che punto sono della scala? Sono la nostra casa esattamente come le mura in cui viviamo. La terra non è nostra, non l'abbiamo avuta in eredità dai nostri genitori. L'abbiamo in prestito dai nostri figli. Questo me lo ha detto mio fratello, lo ha letto in un libro ed è verissimo». Poi c'è il cambiamento, quello a cui dobbiamo contribuire tutti ma in cui le istituzioni hanno un ruolo fondamentale: «Si possono lanciare tanti messaggi e tante campagne di sensibilizzazione ma poi la gente ha a che fare con una realtà che talvolta scoraggia altre scelte. Se i prodotti bio o ecologici costano molto di più, possiamo immaginare che verranno scelti gli altri. Si potrebbero vendere anche più prodotti sfusi, in modo da non avere un sovraccarico di imballaggi. Serve la volontà di farlo e l'appoggio delle aziende».

Alle persone invece servirebbe, ogni tanto, rinunciare all'abitudine e alla comodità del momento. Un passo fondamentale quanto difficile: «Molti dei ragionamenti che sentiamo tutti, quelli della matrice "ma si è sempre fatto così", purtroppo, hanno una visione limitata e una forte resistenza al cambiamento. Io sono sicuro che a tutti piacciono gli spazi aperti immersi nella natura, puliti e spazzati da aria limpida e fresca. Perché stiamo così bene in montagna? Per questo. Pensiamo se riuscissimo a fare in modo che buona parte del pianeta fosse così, pensiamo a quanto staremmo bene. Le cose possono cambiare. Serve fiducia, volontà di cambiamento e anche la più piccola azione è importante». Noi, da parte nostra, siamo certi che servano anche le storie e che anzi le storie, quelle belle, siano parte della fiducia. Ancor di più nei momenti difficili. La fiducia è un esercizio da fare nei momenti complessi, sarebbe troppo facile altrimenti. Fiducia che non vuol dire non vedere i problemi. Fiducia che significa tenere d'occhio la parte salva della realtà e ricominciare a costruire da quella. Magari raccontando una storia. Magari quella di Raffaele.


Sua Maestà Stelvio

Lo Stelvio ha risvegliato un Giro d'Italia che sembrava essersi addormentato, abbandonato ad un letargo autunnale. Lo ha fatto nell'unico modo possibile, impassibile di fronte a ciascuna delle storie dei ciclisti che lo scalavano. Giudice ferreo di responsabilità inevitabili. Non c'è pietà fra i monti in mezzo a cui si inerpica una strada serpentina che sibila paure. Chissà cosa avrà pensato Almeida quando ha iniziato a perdere posizioni, quando ha capito che quelle ruote si allontanavano sempre più, quando ha pensato a tutti i suoi sogni, con quella maglia rosa addosso, e ha temuto di non poterne concretizzare alcuno. In fondo il difficile è proprio rinunciare alla felicità immaginata, a quella possibile fino a qualche secondo prima. Lassù faticano tutti ma i pensieri cambiano forma alla fatica. Wilco Kelderman per qualche chilometro alleggerisce la pedalata proprio grazie al pensiero, grazie a quel punto rosa che si allontana e gli fa credere che oggi è possibile, che Almeida, ora, è alla frutta. Tutto cambia, si ribalta, con una velocità che qui puoi solo immaginare.

Tao Geoghegan Hart è più tranquillo perché non è solo e lì davanti la sua squadra sta davvero facendo tutto il possibile. Tutto il possibile o anche di più lo ha fatto Rohan Dennis, davvero commovente oggi. Dennis aiuta con l'anima di chi vuole aiutare e lo fa sino all'ultimo respiro. E noi immaginiamo il suo pensiero: «Dai, ancora una pedalata e poi mi sposto. Arrivo a quel sasso, a quell'albero, a quel tifoso e poi mi sposto. Cambio rapporto, un'ultima spinta e mi sposto». Ha rimandato tanto Rohan Dennis, così tanto che quando si è spostato non ne aveva davvero più, quasi si fermava. Ha dato tutto, Dennis. Geoghegan Hart, in quel momento, avrà pensato alla responsabilità che aveva sulle gambe, perché quando qualcuno si sfinisce per te, per aumentare le tue possibilità di farcela tu ti senti in dovere di fare qualcosa. Qualcosa di speciale, magari vincere, magari indossare la maglia rosa. E chissà cosa avrà pensato quando non ci è riuscito. Cosa ha pensato Jai Hindley, invece, lo sappiamo. Lo ha detto più volte dopo il traguardo: «Incredibile, è incredibile». Dopo il traguardo, quando in maglia rosa c'è già Kelderman, per pochi secondi. In gara, mentre saliva ai Laghi di Cancano e parlava con Geoghegan Hart, avrà rivisto i suoi genitori e quel giorno in cui lo misero in bici a soli sei anni.

Avrà pensato che oggi sarebbe stato proprio un bel giorno per dimostrare che mamma e papà ci hanno sempre visto lungo. Magari per farlo in maglia rosa. E intanto la voce dalla radiolina, la voce di Kelderman che è lì e da chilometri e chilometri è maglia rosa virtuale. Chissà se uno dei due ragazzi Sunweb avrà pensato anche a questo? A cosa avrebbe ottenuto l'altro a fine tappa. Chissà se c'è un pizzico di rivalità fra Kelderman e Hindley? Chissà se, anche solo per qualche istante, avranno pensato: “La maglia rosa la voglio io, la devo avere io”. Perché certe cose sono umane ed è anche giusto dirle. Dei tanti chissà non sa cosa farsene la classifica generale che pone Kelderman in prima posizione e Hindley in seconda. Anche Geoghegan Hart ha altro da pensare perché stasera non ha solo due rivali ma ha due rivali che sono alleati o almeno dovrebbero esserlo. Lui, forse, può sperare. Può sperare che qualcosa fra i due vada storto, può sperare di essere lì per approfittarne. Ma questa è un’altra storia e ve la racconteremo molto presto.

Foto: Pentaphoto


Essere Mathieu van der Poel

Spesso c'è tutto in un grido. Il grido di Julian Alaphilippe che a trentacinque chilometri dal traguardo frana rovinosamente a terra dopo che col gomito sbatte violentemente contro la moto della giuria. C'è la disperazione nel viso di quest'uomo, nel suo corpo che, senza l'appoggio delle braccia, non riesce a girarsi, a mettersi supino e si dibatte in un'impossibilità atroce. Nessuno riesce a capire, almeno in un primo momento: lo sguardo vaga cercando una risposta a quel dolore. Il motociclista della giuria si avvicina, quasi a chiedere scusa, quasi a voler porre rimedio. Non è più possibile ormai. Quando errore c'è, bisogna pensarci prima, dopo è tardi, è inutile. In realtà prima bisogna pensarci anche quando non c'è errore perché basta poco, pochissimo, per cambiare sorte alle cose e alle persone. Cade Julian, cade e con lui frana tutto. Si è rialzato molte volte e tornerà a rialzarsi ma oggi no e a lui serviva essere in sella oggi. Del resto possiamo discutere noi, del resto parleranno le corse. Resta quell'immagine al suolo, come un castigo degli Dei alla fantasia e a quella forza del continuo provare, del continuo inventare, che tanto piace agli uomini. Wout van Aert e Mathieu van der Poel si voltano di scatto appena sentono il rumore della caduta, le grida del francese. Si guardano, proseguono, non possono fare altro: devono proseguire. E la gente, i tifosi, vivono un contrasto di sensazioni, come il viandante su un mare di nebbia di Caspar David Friedrich. Vorrebbero essere lì, vorrebbero essere su quelle strade ma non possono. L'immedesimazione è l'unica via per essere proiettati, almeno per qualche istante, nella realtà sensoriale di una gara che sta diventando un duello di spada e fioretto. I pochi tifosi che si affacciano dai cancelli gridano forte, più forte che possono e, chiudendo gli occhi e ascoltando, per qualche secondo ci si può pure inventare che le cose non siano cambiate così tanto.

Svanisce tutto, come quel silenzio ritorna e non si può fingere di non sentirlo. Il silenzio è attorno, non nel gruppo che d'improvviso si risveglia e accende un folle inseguimento, non nella testa di van der Poel e van Aert che pullula di pensieri. Alberto Bettiol, ieri, ha raccontato di essere bravo a giocare a scacchi e ha ricordato come il Fiandre assomigli a una partita a scacchi. Negli scacchi prevale l'attendismo, le partite possono proseguire per ore e le mosse possono essere così sottili da sembrare ininfluenti. Probabilmente sono già passati tanti chilometri, troppi, quando Bettiol si mette in testa al plotone e forza l'andatura stringendo i denti. In molti fanno così, come se quel ghigno potesse sfogare una rabbia repressa, un dolore ancestrale che è l'unica spinta per cercare di arrivare al traguardo, per non cedere a quella voce che tutti abbiamo dentro e che ci suggerisce la via più facile. Non la migliore, la più semplice. Davanti quei due, van der Poel e van Aert, trovano l'accordo e vanno via che è una meraviglia. Loro, i due rivali, i più attesi, quelli che tutti stamattina hanno guardato con una peculiare attenzione. Come a dire: "Vi teniamo d'occhio". E quando si è tenuti d'occhio è tutto più difficile ma i campioni sono chiamati anche a questo, oneri ed onori. Loro lo sanno e si prendono la responsabilità della gara come giganti che reggono sulle spalle un pianeta parallelo. Qualcuno teme qualche tatticismo di troppo, teme che sprechino quel vantaggio gettandolo al vento d'ottobre che spazza le pietre e la natura che inizia a sonnecchiare nell'inferno del nord.

Qui il fuoco e le fiamme sono di freddo e brina. Qualcosa che sembra rallentare il circostante, quasi a lasciarlo immutato, come in una fotografia. Come all'ultimo chilometro di una qualunque gara, ma questa non è una gara qualunque, in cui la velocità, le spallate ed i cambi di direzione al millimetro sono preceduti da una calma ansiosa. Quell'attesa che mischia euforia e timore per poi gettarseli alle spalle in una frazione di secondo. L'attimo in cui decidi che il tuo tempo è giunto e ti scordi di ogni pensiero antecedente. Così è l'ultimo chilometro di van der Poel e van Aert: una sensazione di infinito che si sprigiona dall'arco e dura fino alla linea finale ed anche oltre. Prima uno a tirare davanti e uno a inseguire dietro, poi uno sulla destra e uno sulla sinistra, entrambi prima seduti e poi sui pedali, entrambi con la testa che sembra assecondare quella volontà di supremazia. Un "sì" riaffermato continuamente. Una certezza che non c'è ma pretende di avverarsi. Sulla linea, van der Poel e van Aert, arrivano assieme e si lanciano in un colpo di reni che tende e affina ogni linea del loro corpo di atleti. L'incertezza è un respiro strozzato, un calcio alle illusioni, un ricordo e un augurio. Sono quei secondi, una manciata, che pesano più delle ore a tremare su quella sella, quei secondi in cui anche i campioni perdono quella invulnerabilità che solo apparentemente li caratterizza e tornano uomini che guardano lo staff nella speranza di un assenso, che ascoltano le voci sul traguardo immaginando di sentire il loro nome. Vince Mathieu van der Poel: è il grido, l'altro grido, in cui c'è tutto. Per l'ennesima volta, tutto uguale e diverso. Come uguali e diverse sono quelle lacrime che non hanno il tempo di cadere a terra, trattenute dalle sue mani che chiudono gli occhi. Quegli stessi occhi che, ora, non hanno bisogno di vedere, che forse non hanno neanche voglia di vedere, che vogliono stare così fra quelle mani. A liberare un sentimento straripante, sciolto e trattenuto lì, vicino. Quello di Mathieu van der Poel che oggi, a venticinque anni, ha vinto il Giro delle Fiandre.

Foto: Bettini


Un senso di Fiandre

Nelle Fiandre capisci cos'è l'empatia, quella fra cielo e terra. In questo nulla di strade disseminate fra brulle colline, aspre come un taglio nella pelle, addolcite malinconicamente solo da un pallido sole che fugge e rifugge e da quella luce, fredda, che ricorda un bagliore d'autunno anche agli albori della primavera. Qual è la luce delle Fiandre? Quella foschia che lascia solo sognare le distese azzurre del mare del nord. Un oltre che pare irraggiungibile, mentre tutto è avvolto dalla foschia. C'è il vento che spazza così forte quelle terre che ti chiedi come faccia a non spezzarsi nulla, dentro e fuori. Come facciano le cattedrali, maestà nel vuoto, a restare lì impassibili: quanto freddo c'è fra le loro vetrate? Quanto cielo è rimasto fra le guglie ed i pennacchi? Già, perché qui il cielo si abbassa e ti resta addosso. Sarà per quelle nuvole sbattute dal vento che perdono in un attimo il loro cupo grigiore per riscoprirsi bianche, candide. Sarà per quella bruma che seppellisce tutto. Cardarelli diceva che il mare odora quando è sepolto dalla bruma. Non solo il mare, tutta la natura ed anche queste vie ortogonali a disperdersi chissà dove. Se hai il coraggio di respirare a pieni polmoni, quell'aria, a tratti gelida, ti porta dentro ciò che vedi. A dir la verità, qualcosa ti resta appiccicato lo stesso, anche bardato: è nelle ossa che la bruma fa il nido. Lì cade senza far rumore e viene assorbita. L'empatia, nelle Fiandre, è questo: un richiamo continuo.

L'empatia nelle Fiandre è ciò che prova un milione di persone che si riversa nelle strade, in queste strade, per vedere il passaggio della Ronde van Vlaanderen. Questi uomini e queste donne «dai desideri limitati, dall'esistenza modesta; calmi, misurati, freddi, flemmatici, in una parola "fiamminghi", come se ne incontrano a volte tra la Schelda e il Mare del Nord», diceva Jules Verne. Loro, per natura, rispecchiano ciò che c'è e, forse, soprattutto ciò che non c'è. I luoghi che viviamo ci plasmano, ci afferranno o ci respingono. Forse per questo chi arriva nelle Fiandre, chi arriva al Giro delle Fiandre, vuole toccare quella terra, quelle pietre, e ci mette le mani, ci si sdraia sopra, qualcuno ci appoggia anche le orecchie. Perché chi non vive qui, non riesce a capacitarsi di quello che accade e cerca una risposta, la cerca ovunque, aspetta una rivelazione. Questa umanità sente qualcosa e brulica, si accende e vive di una vita in festa in quei giorni. C'è la birra, in quelle bottiglie dalle marche variegate e in quei bicchieri di plastica, appoggiati a terra, accanto alle transenne dove lo sguardo sceglie la sua regia. Ci sono musica e voci che non si seguono in scia, ma si rimpallano ed in alcuni momenti sembra il caos. In alcuni istanti non senti nemmeno la tua voce e ti chiedi dove sia, se, per caso, a forza di gridare e di incitare chiunque, sia finita, si sia addormentata come accade a qualche bambino di pochi mesi che riesce a dormire anche in questo "inferno". Si incita davvero chiunque, dal professionista all'amatore, all'anziano signore che su una vecchia bici non percorre più di cento metri fra quelle pietre sgangherate, ma lo fa qui e questo basta. Li si incita urlando il nome, il numero, un colore che li caratterizza od un soprannome che si inventa al momento e che ricorda una loro caratteristica. Che insomma li fa sentire al centro per qualche secondo, accolti. Perché il mistero delle Fiandre è anche in questa loro accoglienza che diviene urgenza di farvi ritorno.

Quelle pietre sono diverse. Non sono piane ma hanno forme strane, strambe. Una caratteristica è comune: una sorta di bombatura sul dorso. Le linee che si arrotondano dovrebbero suggerire pacatezza, tranquillità, come una discesa, come qualcuno che accompagna. Invece no. Quelle pietre a "cappello di prete" sono le spine dell'inferno. Devi trovare l'equilibrio e mantenerlo perché basta una minima sbandata per cadere o per essere costretti a mettere il piede a terra. Quelle pietre conservano il dolore di una processione triste. Fanno male quanto la terra che si alza ovunque e si confonde con la foschia. Vedi solo qualche bandiera con i leoni rampanti, gialla e nera, e preghi che la cantilena dei muri dai nomi multiformi, finisca presto perché senti male ovunque. Ti accorgi di ogni minima parte di te in questo inferno. Se pensi a Karel Van Wijnendale, il giornalista che a questa corsa pensò per primo, ti sembra un uomo nato per far soffrire altri uomini, quelli che lui definiva Flandrien per questo spirito votato al martirio. Perché non ne puoi più e non trovi una buona ragione per essere ridotto come sei ridotto in questo momento. Le ragioni, però, nella vita arrivano sempre dopo e certe volte è anche meglio evitare di cercarle. Non devono per forza esserci, non tutto deve avere un senso. E questo forse un senso non lo ha ma esiste ed è così spietato, reale, brutale da essere bello.

Foto: Bettini


Il tempo di riflettere

Riflessioni sugli ultimi avvenimenti al Giro d’Italia.

Diciamolo chiaramente ed evitiamo pericolosi fraintendimenti: ogni persona che svolga il proprio lavoro ha il sacrosanto diritto di pretendere che siano assicurate misure di sicurezza adeguate. Se queste misure non sono garantite ha la possibilità ed il diritto di segnalare le mancanze ed, eventualmente, di agire, anche giudizialmente, affinché queste carenze siano rimosse. La salute è un bene troppo importante e non ci si può nascondere: la pandemia da Covid-19 la mette a repentaglio. Il punto non è questo ma un altro. Il punto è assicurarsi che quando si agisce con recriminazioni varie, in tutti gli ambiti della società ed anche nello sport e quindi nel ciclismo, lo si faccia veramente a tutela del bene salute e non prendendo a pretesto questa tutela per difendere altri interessi personali. Chi protesta per difendere il bene salute ha tutta la nostra approvazione, chi lo fa in maniera pretestuosa per altri interessi, invece, crediamo debba riflettere. Quanto meno sul fatto che, in questo modo, non ha rispetto proprio per quel bene di cui finge di farsi paladino.

Cosa vogliamo dire? Abbiamo parlato con diversi direttori sportivi e ci è stato assicurato che le misure di sicurezza adottate dall'organizzazione del Giro d'Italia, per quanto concerne gli atleti, sono assolutamente adeguate. L'organizzazione questo deve fare: garantire il massimo della sicurezza possibile. La sua è un'obbligazione di mezzi, non di risultato. Risulta evidente a tutti come i numeri dei contagi siano aumentati e il ciclismo, per quante bolle possano isolarlo, vive in questa realtà. Per questo motivo qualche contagio poteva esserci e purtroppo c'è stato. Ci spiace e auguriamo agli atleti coinvolti una pronta guarigione ma il rischio che loro hanno corso e corrono è il rischio che corrono tutte le persone che, nonostante questa situazione, continuano a svolgere il proprio lavoro. Un rischio che si auspica sempre più vicino al minimo ma che non potrà mai toccare quota zero. Al Giro, fino ad ora, sono state trovate positive al Covid-19 otto persone: due atleti e sei membri dello staff fra i 571 test effettuati tra l'11 ed il 12 ottobre. Ci pare che, al momento, non siano numeri che possano mettere a repentaglio lo svolgimento di una manifestazione sportiva del livello del Giro d'Italia. In questi giorni si stanno effettuando altri test e una nuova tornata di test a tappeto è prevista per il secondo giorno di riposo: aspettiamo i risultati e proviamo a mantenere razionalità ed occhio critico. Vale per tutti ed anche per gli addetti ai lavori della stampa che anche in questi giorni, in taluni casi, per la fretta di diffondere una notizia, sono stati parte di un'informazione approssimativa che altro non fa se non seminare panico e allarmismo. Soprattutto a causa dei titoli, studiati per attirare click e visualizzazioni.

Si veda la vicenda dei 17 poliziotti della scorta del Giro-E positivi al tampone per cui, per fare chiarezza, è dovuto persino intervenire il ministero degli interni.
A qualcuno non sta bene la situazione in corsa? Ci risulta che nessuno impedisca alle squadre di esporre lamentele, cosa peraltro fatta, oppure di meditare il ritiro dalla corsa. Vista la situazione, ci permettiamo di non condividere una simile scelta e di dubitare che le reali motivazioni che la accompagnano siano da ricercare nella tutela della salute. Dubbio nostro, sia chiaro. Ogni squadra però deve scegliere secondo ciò che ritiene opportuno: non volete più restare in corsa? Ritiratevi, nulla da obiettare, state perseguendo un vostro legittimo interesse. Quello che invece è intollerabile è pretendere che quel vostro interesse, che visti i dati non rappresenta una tutela della salute, debba inficiare l'intera manifestazione impedendole di giungere alla normale conclusione a Milano. In ogni decisione sarebbe auspicabile una attenta ponderazione e scissione, a mente fredda, tra quello che è l'interesse generale e quello che è invece un interesse personale. Non sempre le due fattispecie sono nettamente separabili, in particolare quando la tensione e la pressione aumentano. Servirebbe solo qualche pausa di riflessione in più prima di formulare richieste e suscitare polemiche. Proviamo a prendercela. Tutti.

Foto: Gabriele Facciotti/Pentaphoto


Elogio di Peter Sagan

Se Peter Sagan non ci fosse, bisognerebbe inventarlo perché di gente così il ciclismo ha bisogno. Forse, però, avremmo dei problemi, perché la persona più adatta per inventare qualcuno di simile a Sagan sarebbe proprio Peter Sagan. La fantasia non è per tutti e per inventare cose belle ne serve tanta. Sagan non ha problemi con l'inventiva ed oggi lo ha dimostrato, ammesso che ce ne fosse bisogno. Ha dimostrato che gli uomini hanno un unico modo per essere, e quel modo è il "nonostante". Tanto avrebbe potuto lamentare o recriminare, e sappiamo tutti quanto sia facile quando le cose non vanno, tanto avrebbe potuto dire, invece no. Peter Sagan ha scelto di usare la fantasia e l'inventiva: la salvezza che troppo spesso dimentichiamo di avere a portata di mano. Non quella che porta altrove, non quella che rifugge la realtà o i problemi, in cui comunque siamo calati, ma quella che si infila tra i problemi e prova a leggerli diversamente, a declinarli diversamente, a interpretarli mettendoci qualcosa che altri non vedono, che altri non capiscono. Gli altri certe cose non possono nemmeno immaginarle, forse non vogliono immaginarle perché immaginare un finale differente costa fatica.

Forse Sagan intendeva questo quando ha detto: «Finalmente ho vinto come piace a me. In che modo? Dando spettacolo, no?». Sagan che ha vinto a Tortoreto Lido dopo 471 giorni di digiuno e ci dicono avesse gli occhi lucidi dopo il traguardo. Non ha vinto come tante altre volte perché non ha fatto come tante altre volte, con intelligenza e lungimiranza. Arnaud Dèmare in volata è più veloce, non solo di lui, di tutti in questo momento. Non ci si può far nulla. O meglio: si può fare di tutto ma niente cambierà questa realtà. La realtà la cambi con ciò che realtà non è o almeno con qualcosa che realtà non è ancora. Non è realtà quando la pensi, quando la immagini, quando sei tu l'unico a crederci. La cosa peggiore è che realtà potrebbe non diventare mai: se la squadra di Dèmare insistesse ancora qualche chilometro, se tu non avessi più le forze o la fiducia per insistere ancora, se quei secondi ti sembrassero troppo pochi, se gettarti in discesa in quel modo ti incutesse qualche paura, se pensassi di accontentarti dei punti per la maglia ciclamino, se ti tornassero in mente quelle voci che hai sentito e non ti sono piaciute, di più, ti hanno ferito. Anche se non lo dai a vedere, anche se hai sempre il sorriso sulle labbra e la battuta pronta.

Le realtà immaginate si sbriciolano proprio in quel momento: quando ti fossilizzi sulla realtà che c'è invece che su quella che ci sarà o che potrebbe esserci. Come a dirti: «Se non ci credi più tu, cosa facciamo?». Tu devi crederci a qualunque costo. Peter Sagan non ha mai avuto dubbi su quel sogno sognato, non oggi almeno. Lui sa che si vive e si vince sempre "nonostante". Il che non significa arrendersi, non significa adeguarsi, non significa rinunciare. Significa vedere chiaramente ciò che c'è e cercare tanto e ovunque ciò che vorresti ci fosse. Con l'ostinazione dei sogni e con la concretezza della realtà.

Foto: Gabriele Facciotti/Pentaphoto