Spesso c’è tutto in un grido. Il grido di Julian Alaphilippe che a trentacinque chilometri dal traguardo frana rovinosamente a terra dopo che col gomito sbatte violentemente contro la moto della giuria. C’è la disperazione nel viso di quest’uomo, nel suo corpo che, senza l’appoggio delle braccia, non riesce a girarsi, a mettersi supino e si dibatte in un’impossibilità atroce. Nessuno riesce a capire, almeno in un primo momento: lo sguardo vaga cercando una risposta a quel dolore. Il motociclista della giuria si avvicina, quasi a chiedere scusa, quasi a voler porre rimedio. Non è più possibile ormai. Quando errore c’è, bisogna pensarci prima, dopo è tardi, è inutile. In realtà prima bisogna pensarci anche quando non c’è errore perché basta poco, pochissimo, per cambiare sorte alle cose e alle persone. Cade Julian, cade e con lui frana tutto. Si è rialzato molte volte e tornerà a rialzarsi ma oggi no e a lui serviva essere in sella oggi. Del resto possiamo discutere noi, del resto parleranno le corse. Resta quell’immagine al suolo, come un castigo degli Dei alla fantasia e a quella forza del continuo provare, del continuo inventare, che tanto piace agli uomini. Wout van Aert e Mathieu van der Poel si voltano di scatto appena sentono il rumore della caduta, le grida del francese. Si guardano, proseguono, non possono fare altro: devono proseguire. E la gente, i tifosi, vivono un contrasto di sensazioni, come il viandante su un mare di nebbia di Caspar David Friedrich. Vorrebbero essere lì, vorrebbero essere su quelle strade ma non possono. L’immedesimazione è l’unica via per essere proiettati, almeno per qualche istante, nella realtà sensoriale di una gara che sta diventando un duello di spada e fioretto. I pochi tifosi che si affacciano dai cancelli gridano forte, più forte che possono e, chiudendo gli occhi e ascoltando, per qualche secondo ci si può pure inventare che le cose non siano cambiate così tanto.

Svanisce tutto, come quel silenzio ritorna e non si può fingere di non sentirlo. Il silenzio è attorno, non nel gruppo che d’improvviso si risveglia e accende un folle inseguimento, non nella testa di van der Poel e van Aert che pullula di pensieri. Alberto Bettiol, ieri, ha raccontato di essere bravo a giocare a scacchi e ha ricordato come il Fiandre assomigli a una partita a scacchi. Negli scacchi prevale l’attendismo, le partite possono proseguire per ore e le mosse possono essere così sottili da sembrare ininfluenti. Probabilmente sono già passati tanti chilometri, troppi, quando Bettiol si mette in testa al plotone e forza l’andatura stringendo i denti. In molti fanno così, come se quel ghigno potesse sfogare una rabbia repressa, un dolore ancestrale che è l’unica spinta per cercare di arrivare al traguardo, per non cedere a quella voce che tutti abbiamo dentro e che ci suggerisce la via più facile. Non la migliore, la più semplice. Davanti quei due, van der Poel e van Aert, trovano l’accordo e vanno via che è una meraviglia. Loro, i due rivali, i più attesi, quelli che tutti stamattina hanno guardato con una peculiare attenzione. Come a dire: “Vi teniamo d’occhio”. E quando si è tenuti d’occhio è tutto più difficile ma i campioni sono chiamati anche a questo, oneri ed onori. Loro lo sanno e si prendono la responsabilità della gara come giganti che reggono sulle spalle un pianeta parallelo. Qualcuno teme qualche tatticismo di troppo, teme che sprechino quel vantaggio gettandolo al vento d’ottobre che spazza le pietre e la natura che inizia a sonnecchiare nell’inferno del nord.

Qui il fuoco e le fiamme sono di freddo e brina. Qualcosa che sembra rallentare il circostante, quasi a lasciarlo immutato, come in una fotografia. Come all’ultimo chilometro di una qualunque gara, ma questa non è una gara qualunque, in cui la velocità, le spallate ed i cambi di direzione al millimetro sono preceduti da una calma ansiosa. Quell’attesa che mischia euforia e timore per poi gettarseli alle spalle in una frazione di secondo. L’attimo in cui decidi che il tuo tempo è giunto e ti scordi di ogni pensiero antecedente. Così è l’ultimo chilometro di van der Poel e van Aert: una sensazione di infinito che si sprigiona dall’arco e dura fino alla linea finale ed anche oltre. Prima uno a tirare davanti e uno a inseguire dietro, poi uno sulla destra e uno sulla sinistra, entrambi prima seduti e poi sui pedali, entrambi con la testa che sembra assecondare quella volontà di supremazia. Un “sì” riaffermato continuamente. Una certezza che non c’è ma pretende di avverarsi. Sulla linea, van der Poel e van Aert, arrivano assieme e si lanciano in un colpo di reni che tende e affina ogni linea del loro corpo di atleti. L’incertezza è un respiro strozzato, un calcio alle illusioni, un ricordo e un augurio. Sono quei secondi, una manciata, che pesano più delle ore a tremare su quella sella, quei secondi in cui anche i campioni perdono quella invulnerabilità che solo apparentemente li caratterizza e tornano uomini che guardano lo staff nella speranza di un assenso, che ascoltano le voci sul traguardo immaginando di sentire il loro nome. Vince Mathieu van der Poel: è il grido, l’altro grido, in cui c’è tutto. Per l’ennesima volta, tutto uguale e diverso. Come uguali e diverse sono quelle lacrime che non hanno il tempo di cadere a terra, trattenute dalle sue mani che chiudono gli occhi. Quegli stessi occhi che, ora, non hanno bisogno di vedere, che forse non hanno neanche voglia di vedere, che vogliono stare così fra quelle mani. A liberare un sentimento straripante, sciolto e trattenuto lì, vicino. Quello di Mathieu van der Poel che oggi, a venticinque anni, ha vinto il Giro delle Fiandre.

Foto: Bettini