Cara ASO, il rispetto delle donne è una faccenda seria

La notizia è di giovedì: Aso ha deciso che, al Tour de France, il protocollo delle premiazioni verrà modificato. Non piu due miss sul podio ma un uomo e una donna accanto al vincitore. La motivazione fornita è semplice: le due miss sul podio sarebbero indice di sessismo e strumentalizzazione della donna.
Proviamo a fare un passo indietro. Ci risulta che ad Aso, la società organizzatrice del Tour de France, sia stato proposto ben più di una volta di tornare ad organizzare il Tour de France femminile. Ci risulta anche che Aso abbia sempre rifiutato quando per problemi logistici, quando per problemi organizzativi. Ci risulta poi, lo racconta Giovanni Battistuzzi per “Il Foglio”, che quando i 110 volontari organizzatori del Tour cycliste féminin de l'Ardèche hanno chiesto ad Aso di fornire un aiuto nell’organizzazione della corsa, Aso abbia risposto picche, dimostrando non poco disinteresse. Lo diciamo perché non sfugge a nessuno che le cicliste, che avrebbero corso il Tour de France femminile come quelle che corrono il Tour de l’Ardèche, sono donne. Ed è altrettanto evidente a tutti che quelle stesse donne avrebbero avuto un grande beneficio dal poter partecipare a queste manifestazioni. Soprattutto in un mondo come quello del ciclismo femminile in cui i problemi economici e di visibilità sono all’ordine del giorno. Crediamo che Aso, con i potenti mezzi di cui dispone, non avrebbe molti problemi a smuovere quegli ostacoli di cui parla e a rendere possibile l’organizzazione di questi eventi. Del resto Aso è una società che organizza eventi di alto livello, se non erriamo.

Invece no. Invece Aso, nei giorni scorsi, era impegnata in ben altra decisione per tentare di sconfiggere il sessismo. Christian Prudhomme ha stabilito che, sul podio, accanto agli atleti ci saranno un uomo e una donna. Bene. Sessismo cancellato, notizia diffusa su ogni quotidiano, in alto i calici e si brindi all’ennesima svolta avanguardista di sua maestà “Le Tour de France”. Saremmo davvero sollevati se il sessismo nella nostra società si radicasse solo lì, in due miss accanto al vincitore di tappa o alla maglia gialla. Vorrebbe dire vivere in una società davvero matura. Purtroppo non è così, nella società come nel ciclismo. E gli organizzatori del Tour de France lo sanno benissimo. Come sanno benissimo, ci auguriamo, di aver preso la decisione più semplice ed assolutamente inutile. Non si sconfigge il sessismo vietando le miss o, ancora peggio affondando nella melma del politicamente corretto, affiancandole ad un uomo. Come non si sconfigge il sessismo alterando la dizione delle cariche pubbliche. Chi lo sostiene, ci perdoni, si sta lavando bellamente le mani.

Il sessismo, in una società maschilista come la nostra, lo si sconfigge provando a modificare ognuno nel proprio settore le abitudini sbagliate. Prima di tutto pensare che le donne abbiano bisogno di un benestare da parte di una carica superiore maschile per accedere a un compito o ad una posizione. Pensando così che sia un uomo a dover concedere questa possibilità per poi fungere da benefattore. Storia già vista troppe volte. Le donne, a patto di averne la possibilità, sanno farsi strada da sole. Il punto è che questa possibilità viene spesso negata. E no, signor Prudhomme, non viene negata dal podio de “Le Tour de France”. Viene negata, nel ciclismo, da chi continua a privilegiare il mondo maschile togliendo opportunità al femminile. Da chi non investe nel ciclismo femminile. Da chi non prova a organizzare nuove gare, gare di cui queste ragazze hanno bisogno come il pane. Dalla stampa che sottrae loro spazio. Da chi non si chiede perché sempre più ragazze smettano, da chi non si preoccupa del gap economico tra le gare maschili e quelle femminili. Da un certo tipo di racconto sportivo. E anche da chi, pur di potersi dire dalla parte giusta della barricata, prende decisioni risibili.

Aso è una società organizzatrice. Negli anni scorsi ha fatto bene ad affiancare alle prove maschili anche le prove femminili di Liegi-Bastogne-Liegi e Parigi-Roubaix. Provi a fare altrettanto con altrettante gare. E, per cortesia, resti fuori da certe decisioni che hanno del ridicolo e dell’irrispettoso. Come tutti coloro che si illudessero di fermare uno tsunami con un ombrello.


Di Elia e del senso di responsabilità

«Quando gli ho telefonato, Elia era dispiaciuto, molto dispiaciuto. Mi ha detto che sarebbe stata un’occasione importante, che aveva già dato la sua disponibilità a Davide Cassani, che aspettava l’Europeo. Però Viviani, prima che un campione, è un uomo di una intelligenza sopraffina. Ha accettato la decisione voluta da Cofidis con forte senso di responsabilità». Roberto Damiani ci racconta così il momento della comunicazione a Elia Viviani della decisione adottata dai vertici Cofidis: niente campionato Europeo per salvaguardare la salute degli atleti e la possibilità di partecipare al Tour de France, alla luce della situazione sanitaria imposta dal Covid-19. Continua Damiani: «Ha voluto telefonare lui stesso a Davide Cassani per spiegargli la situazione. È un uomo che si assume ogni responsabilità».

«In queste situazioni spesso si ricorre a una logica che non mi piace: il cosiddetto “armiamoci e partite”. Da noi non funziona così: la decisione l’abbiamo presa assieme a Cedric Vasseur e assieme l’abbiamo comunicata a Viviani». Damiani, oltre a essere un attento conoscitore di uomini, è un appassionato di psicologia, nel tempo libero legge libri sull’argomento. Detesta lo scaricabarile quando si tratta di decisioni e non gradisce nemmeno i giri di parole: «Sono decisioni difficili da comunicare. Non sai mai come può reagire una persona, quali meccanismi psicologici possono innestarsi nelle mente. Un conto è quello che noi vogliamo dire, altro ciò che viene recepito. Nella mia posizione devo preoccuparmi anche del recepito. Personalmente con Viviani lavoro da pochi mesi e non è stato facile il momento della comunicazione. Ma onori ed oneri vanno di pari passo. Un direttore sportivo deve gestire anche questi momenti».

«Io lo ripeto sempre: il tatto ed una certa sensibilità sono indispensabili. Abbiamo a che fare con uomini non con supereroi e gli uomini hanno bisogno di tempo e comprensione per gestire le scelte. Questo però non significa non essere chiari o parlare a metà. Io non mi sono mai preparato alcun preambolo o alcun discorso quando ho chiacchierato con quelli che orgogliosamente chiamo i “miei ragazzi”. C’è da dire una cosa? La si dice per quella che è. Bisogna essere chiari, netti e schietti. Serve sempre il massimo rispetto ma senza chiarezza non si va da nessuna parte. Conoscere gli uomini è indispensabile per commettere meno errori possibili. Anche i direttori sportivi sbagliano. Se ti conosco, però, ho la possibilità di sbagliare meno. Credo molto nel faccia a faccia, negli approcci collettivi ed in quelli differenziati. Il nostro lavoro è anche questo e, per fortuna, negli ultimi anni lo si sta capendo sempre di più. Per il bene dei ragazzi ed anche del ciclismo».


«Sei sempre il benvenuto»

La prima volta che ho scambiato qualche parola con Cecilie Uttrup Ludwig eravamo a Innsbruck, al Mondiale 2018. Ero con un collega nella zona bus della partenza della prova femminile: «Vieni con me, ti presento Cecilie. È una ragazza speciale». Avrei accettato senza alcun dubbio, in realtà ho tentennato qualche minuto. La partenza di una prova mondiale è un momento estremamente delicato, non tutti hanno voglia di parlare e, per carattere, temevo di disturbare. Mi è bastato incrociare lo sguardo di Cecilie Uttrup Ludwig, ma chiamatela pure Cylle, per cambiare idea ed avvicinarmi. Qualche parola, qualche sorriso e poi un congedo. Non un congedo qualunque. Poche parole ma dense di significato: «Torna quando vuoi, sei sempre il benvenuto». Cose rare, insomma.

Quel giorno ho iniziato a capire chi era Cylle. Il resto l’ho compreso col tempo. Questa ragazza da leggere. Un libro piacevole, dedicato all’allegria. E lei lo dice: «Io rido perché è bello ridere. Ed è bello il mondo con tante persone felici». Un inno alla felicità, alla genuinità. Come a modellare quel sentimento che sembra innato in lei. In realtà no, in realtà la felicità va difesa, protetta, voluta. Non è una scelta facile, comporta una forte capacità di lettura alternativa del circostante. Una lettura non omogenea, una lettura che sappia distaccarsi dalle tante cose che dice la gente. Ma Cecilie Uttrup Ludwig è affezionata alla felicità e a ciò che è felice. Sarà per questo che oggi parla di “un arrivo felice”. Sarà per questo che raddoppia, se possibile triplica, gli aggettivi che definiscono le sue sensazioni. Non è solo felice, è felicissima. Non è solo soddisfatta, è estasiata.

Una felicità radicata. Sì, perché Cylle nota tutto. Anche il minimo graffio delle compagne di squadra, anche sotto la pioggia, sotto il diluvio. Chiede, si informa, si interessa. Ha un’interiorità ricca che trabocca dalla mimica. Ogni tanto anche dalle parole. Così appena taglia il traguardo del San Luca, dopo aver abbassato le braccia, grida con tutta la voce che ha. Dice solo sì. Yes, in inglese. Uno sfogo. Arriva in fondo al rettilineo, torna indietro, incontra una compagna di squadra ed esulta con tutto quello che ha. Con un’incredulità bambina: «Oh my God, oh my God, oh my God». Fino al podio. Che le restituisce l’applauso degli addetti ai lavori e una inconfessata timidezza quando troppe macchine fotografiche la inquadrano. Si scosta, quasi un passo indietro a fare spazio alle compagne. Un pensiero fugace a tante cose. E di nuovo il suo sorriso.

Sì, Cylle. Sei felice. Tanto.
E te la meriti tutta questa felicità.

Foto: CLaudio Bergamaschi


Forza, c'è ancora strada

A Bergamo, alla partenza, un cartello recita “rinascerai Bergamo”. Cosa significa rinascere? È possibile? Se sì, per quante volte? Per quanto tempo? Per quante cose che ci accadono? Spesso rinascere significa dare anche solo un segnale. Vorremmo che “Il Lombardia” parlasse di questo. Parlasse di un dovere che ognuno può far proprio. Il dovere di andare avanti nonostante il dolore. Non solo perché la vita ci costringe ma perché lo vogliamo. Il dovere di farlo con rispetto, con cautela, con il ricordo a portata di mano, ma di farlo. Di più. Di farlo proprio per chi non può più e avrebbe tanto voluto. È l’unico modo che ci è concesso. Anche quando tutto è così diverso e transitarci è un pugno nello stomaco. Lo è Bergamo, lo è Como. Lo sono il Colle San Gallo, il Colle Brianza, la Colma di Sormano, il Civiglio o il San Fermo della Battaglia. E tuttavia c’è strada, c’è ancora strada, anche nei luoghi in cui il dolore è stato più cupo, più soffocante. Per questo “il Lombardia”, a Ferragosto, ci fa bene: pur fuori stagione, pur così strano, così diverso. Per questo quel mazzo di fiori ha commosso Norma Gimondi, ricordandole che papà, che solo un anno fa era ancora qui, non c’è più ma ricordandole anche tutto ciò che di lui è restato.

Queste cose volevamo già dirvele stamani poi abbiamo avuto paura, lo confessiamo. Perché le parole sono un conto, i fatti un altro. E vedere la caduta di Remco Evenepoel, lungo la discesa verso il lago di Como, è un fatto che non avremmo mai voluto vedere. Diciamo tutti di voler andare avanti nonostante il dolore ma poi, quando ce lo ritroviamo addosso, non basta più nulla, non bastano le parole. Abbiamo ripreso a scrivere solo quando le voci provenienti da qualche televisore ci hanno dato la speranza che Remco fosse sveglio, vigile, cosciente. Ora siamo più convinti che mai di volervele dire queste cose, perché poi la speranza offre questa forza. Anche la speranza è una piccola rinascita. Come quando, mentre si aspetta una notizia negativa, ne arriva una positiva e le gambe sembrano cedere. Ci si siede, non avendo la forza per camminare, ma si vorrebbe correre. È come scattare. Magari quando non hai più una goccia di energia e non sai nemmeno tu chi te lo fa fare. Nella vita, talvolta, devi farlo. Evenepoel lo farà.

Come lo hanno fatto in corsa Fuglsang, Vlasov e Bennet. A ottanta chilometri orari, anche loro in discesa, rovesciando qualche borraccia nel casco per il caldo. Ciascuno consapevole che ogni singolo metro sarebbe potuto costare tutto ma che bisognava andare, perché la strada era lì e l’unico modo di renderle onore era percorrerla. Con tutti i dubbi e le paure che solo gli umani hanno e i ciclisti, per quanto si voglia dire, sono umani. Solo umani. Per fortuna, diciamo noi. Perché diversamente non avrebbe alcun senso e faremmo altro. Poi le energie sono tornate, a Fuglsang come a noi. Così ha lasciato lì Bennet proprio quando sembrava dovesse accadere il contrario. Probabilmente fingeva. O forse no. Forse non ne aveva davvero più e ha ripescato le pedalate da chissà dove. Perché c’era ancora strada. Perché c’è ancora strada.

Forza.

Foto: Il Lombardia, Facebook


Giù le mani

Confessiamo che il giorno successivo alla spaventosa caduta di Fabio Jakobsen al Giro di Polonia, durante la volata testa a testa con Dylan Groenewegen, abbiamo creduto che la maggior parte dell’opinione pubblica pensasse di aiutare Jakobsen etichettando Groenewegen in maniera ingiuriosa. Così abbiamo letto che l’olandese del team Jumbo Visma sarebbe un delinquente, un criminale, che meriterebbe la reclusione, che andrebbe espulso a vita dal gruppo. E tante altre simili idiozie. In quel momento, forse, l’unica cosa da fare sarebbe dovuta essere rivolgere un pensiero a un ragazzo di ventiquattro anni in pericolo di vita. Poi, a sangue freddo, riflettere sulle reali responsabilità dell’accaduto, magari evitando la solita valanga di insulti social di persone che, pur totalmente incompetenti, non hanno resistito alla pruriginosa volontà di gettare fango. Ovviamente nascoste dietro uno schermo, ovviamente senza rispondere delle proprie affermazioni. Ovviamente sull’anello più debole della catena che in quel momento non poteva difendersi.

Prima che la scarica di ingiuriosi epiteti colpisca anche noi che -ci perdonino costoro- esprimiamo un punto di vista differente, sgombriamo il campo dall’equivoco. Dylan Groenewegen ha commesso delle irregolarità in volata e per questo è stato e verrà giudicato. Il suo comportamento è da stigmatizzare senza se e senza ma. Sarebbe però non poco miope la visione che riconducesse solo a Groenewegen le colpe dell’accaduto. Dylan Groenewegen ha commesso solo l’ultimo di una lunga serie di errori che purtroppo stanno pesando su Fabio Jakobsen. Le altre e, diremmo noi, ben più gravi responsabilità ricadono, alla base, sugli organizzatori della corsa e sull’UCI. La stessa Unione Ciclistica Internazionale che non ha perso tempo nell’informare delle esemplari sanzioni pensate per Groenewegen ma che non ha avuto la stessa sollecitudine nel verificare le responsabilità degli organizzatori. Le transenne, su quel traguardo, erano mal posizionate e, a quanto pare, non agganciate. Come da autorevoli pareri, sarebbero servite transenne diverse, di circa due metri, come quelle utilizzate, per esempio, al Giro d’Italia sul rettilineo d’arrivo. Come mai di questo gli autorevoli esperti della rete non hanno detto nulla? La risposta è semplice: perché probabilmente non sanno nemmeno nulla del tema e hanno colto l’occasione per schiumare rabbia. Il bersaglio è stato Dylan Groenewegen ma avrebbe potuto essere chiunque altro.

Ieri le immagini di una recente intervista hanno mostrato Dylan Groenewegen in lacrime, distrutto per l’accaduto. I segni psicologici di simili avvenimenti sono devastanti e spesso non si superano se non con il passare del tempo, di molto tempo. Un’opinione pubblica pronta ad azzannare con tutti i denti che ha, non aiuta. Anzi rischia di creare ulteriori danni. È già successo troppe volte. E in ballo c’erano uomini. Uomini che hanno sbagliato ma pur sempre uomini. Rimpiangere dopo non serve. Occorre invece estrema attenzione prima, occorre cura anche per chi sbaglia. Non si parla solo di cultura sportiva, si parla di cultura umana.

Forza Fabio.
Stiamo aspettando solo te.


Tetè

Rossella Ratto è Tetè. Lo è sin da quel pomeriggio di luglio di alcuni anni fa quando, ancora bambina, sedeva sul divano con i fratelli Daniele ed Enrico e guardava stupita una tappa alpina del Tour de France: «C’erano delle scritte sul teleschermo. Io non riuscivo a leggerle, così chiesi a mio fratello. La scritta era “tête de la course”, testa della corsa, ma lui, ancora troppo piccolo, mi lesse “tetè”. Continuammo a ripetere quel suono così affascinante fino a che non divenne una sorta di soprannome. Tetè da quel giorno sono io». Della bicicletta Rossella si era innamorata pochi anni prima, durante un viaggio tra Sardegna e Corsica, quando i suoi genitori scelsero di stare per qualche periodo senza macchina. Il ciclismo all’inizio era una scusa, un modo per stare assieme, per stare in famiglia e passare la domenica a ridere a crepapelle.

Quando parliamo di Daniele ed Enrico, la voce di Rossella Ratto sembra carezzare i ricordi: «Sai cosa penso? Credo che le emozioni che abbiamo condiviso siano difficili da raccontare, da spiegare. Sono dentro di me e mi danno una carica inspiegabile. Ci allenavamo assieme: fingevamo di essere ciclisti professionisti e alla fine di ogni giornata stilavamo una classifica con premi. Per rendere la corsa più veritiera, a volte, mi lasciavano anche qualche secondo di vantaggio. Ogni tanto mi mancano quei momenti». Rossella Ratto racconta che la competitività è sempre stata parte di lei ma è riuscita a tirarla fuori proprio grazie ai fratelli: «Ogni tanto, scherzando, da bambini, mi dicevano: tu sei una femmina e non ci riesci. E io, pur di dimostrare che ero capace mi sfinivo. Ancora oggi sono così. Se voglio ottenere qualcosa non mi ferma nessuno. A tratti ho anche dovuto controllare questa competitività: stava invadendo ogni campo della mia vita e, se si esagera, non fa per nulla bene».

Se ripensa al bronzo ai mondiali 2013 in Toscana ammette che, a volte, non le sembra ancora vero. «Tutte le aspettative che c’erano nei miei confronti e che all’inizio mi davano una forte carica, dopo quel giorno mi hanno pesato. In quei momenti, per problematiche fisiche, non riuscivo a essere all’altezza delle attese. Mi sembrava anche di avvertire mancanza di fiducia da parte di persone che avrei voluto credessero in me. Lo ho capito dopo. Col tempo». I suoi miti ciclistici da ragazzina erano Paolo Bettini e Michael Boogerd, ora stima Marianne Vos, sia come donna che come atleta, ma ammette di non avere più idoli: «Non c’è nulla di male. Quando si cresce, credo venga meno questa necessità di mitizzare. Gli sportivi sono uomini e come tali hanno pregi, difetti ed anche debolezze. Forse dovremmo apprezzarli proprio per questo, senza mitizzarli o trasformarli in supereroi».

Foto: Claudio Bergamaschi


Di Wout van Aert e di tutti noi

Quest’anno la Milano-Sanremo è di tutti coloro che hanno paura, tanta, ma anche un poco di coraggio. Di tutti coloro che temono i cambiamenti e passano notti insonni, attendendo una mattina che non arriva. Ma poi li accolgono, perché l’esistenza cambia e non saranno le nostre futili resistenze a impedirglielo. Di chi alzandosi dal letto ha il coraggio di lavarsi la faccia e andare in cucina a far colazione. In certi giorni sembra davvero impossibile. Delle tante persone a cui continuiamo a dire che anche per loro, un domani, la vita cambierà e non ci credono perché per loro è sempre stata così. È di chi sa che, in fondo, la bellezza è nelle sensazioni, nei ricordi, nell’immaginazione, nell’immedesimazione e nelle parole che usiamo per raccontare. Di chi sa che, se si vuole, un briciolo di bellezza la si trova quasi ovunque e serve per farci coraggio. Di chi aspetta un ritorno o una partenza e ha un pezzo mancante.

È di chi l’ha sempre vista in strada e oggi si è dovuto sedere sul divano, davanti al televisore, e, visto che si sentiva infelice, ha aperto la finestra e ha creduto di sentire il fruscio del gruppo che scorre. Di chi si è sentito escluso dal cambio di percorso. Di chi non ha mai potuto andare a vederla e oggi l’ha vista dalla finestra di casa e non sa ancora spiegare cosa sia successo. Di quei bambini che sono corsi giù dal letto, come fosse la notte di Natale, chiedendo ai genitori quanto mancasse al passaggio e quando hanno saputo che non potevano stare in strada hanno preso le loro biciclette e si sono inventati una volata nel cortile. E la telecronaca l’hanno immaginata. Degli infermieri che hanno accompagnato qualche anziano nella sala dell’ospedale e hanno cambiato canale “per vedere la corsa”. Dei nonni che l’hanno vista con i nipoti in braccio. È di chi è scattato al chilometro zero, perché delle cose bisogna aver voglia. E quando si ha voglia di qualcosa, le si corre incontro. Ovunque sia.

La Milano Sanremo 2020 è di Wout Van Aert che l’ha vinta sul traguardo, al cardiopalma. Di questo ragazzo che riassume forse tutte le sfaccettature raccontate. È dei genitori di Wout che non ci vogliono credere ma è vero. È tutto vero. È di Via Roma e del silenzio che c’è oggi vicino al mare. È di Matteo Trentin che è caduto e si è dovuto ritirare e un ciclista non si ritira mai se ha anche solo un barlume di speranza. È di Ciccone, di Conci, di Mosca e anche di Vincenzo Nibali perché ci hanno provato. È di tutti quelli che si sentono figli, fratelli, sorelle e vecchi zii di questa corsa. Tanto è il bene che le vogliono. È di chi ha già iniziato il conto alla rovescia per la Milano-Sanremo del prossimo anno. Perché non vede l’ora di tornare lì. Lì dove il cuore batte ed il mare sussurra.

Foto: Bettini


«Mamma, ha vinto papà?»

Oscar, il figlio di Damiano Caruso, un giorno era davanti alla televisione durante una gara ciclistica: «Mamma ha vinto papà?». Quel giorno papà non aveva vinto e mamma dovette dirglielo: «Non è niente mamma. Facciamo finta che abbia vinto, così gli organizziamo una bella festa». Oscar ha sei anni ed è stata la prima persona a cui ha pensato papà Damiano quando, il due agosto, è tornato alla vittoria al Circuito di Getxo, dopo sette anni e mezzo. «Ho pensato a lui dopo il traguardo. Mi sono detto: adesso papà ti porta una coppa vera e organizza una vera festa». Così Damiano Caruso ha regalato quella coppa ad Oscar e per il piccolo di casa Caruso quello è il regalo più bello del mondo. È felice e papà vuole solo questo per lui: «Quando sei felice non ti arrabbi, non provi invidia, non discuti in continuazione. Io sono un uomo felice e la felicità degli altri mi piace».

«Ho passato tanto tempo a casa con la mia famiglia. Quando sono ripartito ho cercato di spiegare ad Oscar cosa sarebbe successo da quel momento in poi. In questi anni mi sono tolto tante soddisfazioni con i miei capitani e le mie squadre; volevo una vittoria non tanto per me. La volevo per la mia famiglia e per i miei amici più cari. La volevo per ricambiare. La volevo perché era giusto che loro potessero gioire vedendomi a braccia alzate». Damiano Caruso è un gregario, un gregario di quelli bravi, ed ha una devozione incondizionata verso il suo ruolo: «Essere gregari vuol dire non avere alcuna riserva sul tuo impegno. I miei capitani si fidano di me perché sanno che la mia parola vale. Perché so quanto è importante la parola data e non la tradirei mai». Quando gli chiediamo chi sono i gregari di questa società, in questo periodo, non ha dubbi: «Credo che siano tutte le persone che, nonostante i rischi, nonostante la paura, continuano a fare il loro lavoro. Dal fattorino che non si è mai fermato un giorno per portare il cibo a casa agli anziani, ai medici nelle corsie degli ospedali. Sono questi i gregari di lusso del mondo. Coloro che rispettano il loro dovere e vanno fino in fondo».

Poi c’è il caro vecchio ciclismo che nel tempo è cambiato, forse troppo: «Credo ci sia dell’esasperazione. Non solo nel ciclismo, sia chiaro. I giovani di oggi sono troppo succubi del risultato, troppo ansiosi. Facendo così, se non finiscono per odiare la bicicletta, finiscono per prendere qualche brutta strada. Bisogna spiegare che ogni storia vale. Ogni storia conta. Anche se non vinci, anche se arrivi ultimo. Bisogna spiegare che ogni storia merita di essere raccontata e rispettata. Siamo duecento corridori con duecento storie diverse. Proviamo a raccontarle tutte».

Proviamo. È una promessa.


Lo sguardo dei ciclisti

Le gocce d’acqua che, cadendo per terra, rimbalzano e rimbombano sulla salita del Montello, spostate dal vento, sono come spilli che trafiggono. Gli ombrelli che si trovano dal lato opposto della strada, quello esposto alle raffiche, incassano le frustate d’aria, si gonfiano da sotto e vengono divelti. È proprio una strana estate. La gente resta lì. Non sono poi così tante persone, è vero. La situazione attuale lo impedisce. Lo sanno. Un ragazzo dice alla sorella (crediamo): «Guarda che stavolta devi gridare anche tu al passaggio. Devono sentirci». Lei ammette di non conoscere nessuno. Probabilmente è lì solo perché lo voleva lui. Succede, no? La risposta è franca: «Tu grida! Fai rumore. Fatti sentire. È imbarazzante questo silenzio». E la ragazza lo ascolta. Appena vede i fuggitivi sbucare dalla semicurva si lancia in un “alé” che toglie un poco di fiato anche a noi. All’arrivo del gruppo batte le mani e incita. Perché, alla fine, quando qualcuno ha bisogno di aiuto, fosse anche solo di una parola, è importante fare qualcosa, senza stare a sofisticare troppo sul cosa. Quella ragazza lo ha capito.
Non è l’unica. Qualche proprietario delle case lungo la salita esce, sotto la stretta pensilina dell’abitazione, ad applaudire. Altri se la sono fatta a piedi e ora si chiedono come scenderanno con questa bufera. Un signore avanti con l’età ci confessa: «Andavo anche io in bicicletta. Mi piaceva. Eccome se mi piaceva. Poi ho avuto qualche problema di salute e sono stato in ospedale. Quando sono tornato a casa, mia moglie aveva regalato la bicicletta a mio figlio perché temeva potessi farmi male. Al compleanno successivo, quando mio figlio mi ha chiesto cosa volessi di regalo, glielo ho detto: “Regalami la mia bicicletta. Per favore». Ci ha fatto tenerezza, simpatia.

Ognuno racconta quel che può e poi prova ad incitare i ciclisti. La salita impone un’andatura lenta e gli atleti hanno modo di sentire le parole degli appassionati. Non solo. Ogni tanto li cercano con gli occhi. Sì, basta una frazione di secondo e guardano negli occhi chi li incita dicendo che ormai è quasi finita. Qualcuno ghigna. Come dicesse: «Ma se siamo solo al primo giro? Cosa vai raccontando?». Il lavoro del ciclista, come scriveva qualcuno, non consente menzogne. Lo sa, lo sa che gli stanno mentendo spudoratamente ma apprezza il tentativo. Sa che chi gli urla così ci crede davvero. Altrimenti non starebbe lì con delle maniche di camicia che a strizzarle sarebbero come appena uscite dalla lavatrice, senza centrifuga.
Sul nostro stesso treno una ragazza sfinita si accovaccia sul sedile, facendosi da cuscino con un sacco di zaini che teneva in spalla. Sul braccio ha diverse scritte. Non riusciamo a leggere bene. Sembra latino. Eccolo: amor vincit omnia. Chissà, forse era anche lei lì, sul Montello. Non la abbiamo vista ma per come è stanca e con i capelli fradici di pioggia potrebbe essere. Magari era davvero lì. E se non fosse così non importa. Perché avrebbe potuto esserci. Perché se per caso leggesse questo racconto, capirebbe al volo ciò che intendiamo. Questo è certo.

Foto: Claudio Bergamaschi


Giovanni Visconti, come al primo giorno

Chi prova a narrare storie sa bene il talento di Giovanni Visconti nel raccontare. Giovanni parla nel modo che preferiamo: umile, semplice, spontaneo. Tu lo ascolti e, qualche volta, quasi dimentichi di rilanciare la domanda tanto quel flusso ti prende. «Sai, mi sembra tanto il primo giorno oggi. Ma non il primo giorno di corsa dell’anno, proprio il mio primo giorno di gare di quando ero un ragazzino. Forse anche bambino. Diciamo che è un poco tornare piccoli, almeno con le sensazioni». In realtà, lo sguardo al mondo del siciliano di Palermo è rimasto quello di quel ragazzo. Basta poco per capirlo. Per esempio osservare i dettagli su cui si sofferma. Dettagli che restano impressi quando si è più giovani, da grandi, purtroppo, si tende a normalizzare tutto. Una disdetta degli anni. «Penso che per i più non sia salvezza ma taluno sovverta ogni disegno» diceva Montale. Visconti è la variante.

Venerdì scorso era dispiaciuto: avrebbe voluto essere a Siena a correre quella che, per lui, è la corsa più bella del mondo, la Strade Bianche. Avrebbe potuto dire e scrivere molte cose, ha scritto solo che gli mancavano «quelle sere fuori dall'hotel a pensare a come sarebbe andata l'indomani, a toccare per l'ennesima volta le ruote, a controllarne la pressione». Gli mancava un dettaglio, un attimo. Quel giorno lo ha passato allenandosi e oggi dice che, forse, aver evitato quel caldo, quella polvere, quella fatica, potrebbe dargli qualche vantaggio. Sì, lo dice. Sorride. Ma c’è nostalgia. C’è voglia di ritorno.

Come sta, a dire il vero, non lo sa neanche lui. Non può saperlo. «Quando torni a fare qualcosa dopo tanto tempo non sai cosa aspettarti. Lo sai solo dopo averla fatta. Spero che vada tutto bene ma allo stesso tempo ammetto che qualche dubbio lo ho. È stato un periodo difficile, per tutti. È così diverso. Ci manca il pubblico. La gente è parte di noi. È così brutto non poterla vedere. Verrebbe voglia di non crederci invece è proprio vero».

Giovanni Visconti ha un desiderio. Vorrebbe che la stampa, che le televisioni, che i mezzi di informazione, raccontassero questa storia seppur triste: «Noi stiamo tornando a correre, stiamo tornando alla normalità ma c’è stata tanta sofferenza in questo periodo. Tanta fatica per restare a galla. Per esserci, per esserci ancora. Proviamo a parlare delle squadre, degli organizzatori, dello staff che c’è dietro di noi. Ricordiamo la loro importanza. Le loro difficoltà. Dovremmo smetterla di dare le cose per scontate. Nulla è scontato. Nulla».

È vero, Giovanni. È vero.

Foto: Claudio Bergamaschi