In fuga per nonno: intervista a Filippo Zana
Probabilmente Filippo Zana in quei giorni avrà chiamato più volte a casa. Chiamava e chiedeva: «Come sta nonno?». Succede quando qualcuno a casa sta male, tu sei lontano e non puoi vederlo. Non puoi sapere nulla, devi sperare che ti dicano la verità, che non ti mentano per «paura di farti star male» o «di farti preoccupare». A Filippo quella verità la dicono e Zana vuole tornare a casa. Allora dall’altra parte della cornetta aggiungono qualcosa: «Nonno vuole che resti lì».
Filippo Zana resta in corsa anche quando le parole sono macigni, anche quando gli dicono che nonno non c’è più. Per ricordarlo deve fare qualcosa, così alla partenza della sesta tappa parte. No, non per tornare a casa, per andare in fuga. «Se sono diventato un ciclista lo devo a mio nonno come lo devo ai miei genitori. Da piccoli abbiamo tantissimi sogni ma non possiamo portarli tutti sulle nostre spalle, così i grandi ci aiutano. Mio nonno è sempre stato il mio più grande tifoso. Lui seguiva il ciclismo e si illuminava alla sola idea che io potessi correre in bicicletta». Così Filippo Zana arriva al traguardo della tappa e scoppia a piangere; la fuga è stata ripresa ma oggi non importa, lì dentro c’era tutto ciò che quel giorno lui avrebbe voluto dire a nonno a parole. C’è riconoscenza nelle parole di questo ragazzo nativo di Thiene, agli albori della primavera del 1999: «Senza tutti i sacrifici dei miei genitori non sarei qui. se io sono quello che sono lo devo a loro. Pedalo da quando avevo sei anni, quanto mi hanno aiutato in tutto questo periodo?».
Filippo Zana ha iniziato a pedalare quasi per caso e per una volta non c’entrano le coincidenze familiari: a casa sono tutti appassionati di calcio, lui si definisce “una pecora nera” da questo punto di vista. «I miei genitori avevano un ristorante ed io giravo in bicicletta in quel cortile. Probabilmente quei metri li conoscevo a memoria. Li ripercorrevo continuamente e non mi stancavo mai. Un signore, vedendomi così tenace, così insistente su quei pedali, mi ha chiesto perché non provassi a iscrivermi alla squadra cittadina. Così è iniziato tutto». L’idolo di Zana è Marco Pantani, per ragioni anagrafiche non lo ha praticamente mai visto correre ma, negli anni ha recuperato molti suoi filmati perché aveva voglia di “conoscere” il Pirata. Quando gli chiediamo quale sia la cosa più importante che gli ha dato il ciclismo, Filippo risponde senza esitazioni: «Penso che mi abbia tolto molto. Correre in bicicletta vuol dire fare sacrifici, tanti sacrifici. Significa rinunciare a tante cose che magari vorresti. Attenzione, però, voglio essere sincero. Il ciclismo mi ha tolto tanto ma, come tutte le cose che vuoi, se prosegui senza arrenderti, ti restituisce tutto quello che si è preso. Sono felice di ogni sacrificio. Ogni sacrificio che faccio, lo faccio per la mia passione. anzi, per il mio lavoro».
E sorride, come a dire: “Ci sono riuscito. Sono un ciclista”. Quel crederci senza volerci credere, tipico di quando si è molto giovani o solo molto innocenti. L’innocenza bella, quella di chi non è ancora stato deluso o di chi sa come reagire alle delusioni. Forse nel caso di Zana si tratta della seconda opzione.
«Sono tre i punti fondamentali della mia carriera fino ad ora: le sconfitte, per un niente, al mondiale e all’europeo da junior e poi la vittoria a Capodarco. Lì è scattato qualcosa». Se pensa alla pianura, Filippo pensa al momento in cui recupera, in cui si lascia andare. Subito dopo alla sua mente affiora la noia. «La pianura sarà bella ma a lungo andare diventa noiosa. In salita fai più fatica ma c’è un’altra soddisfazione. Della discesa, invece, credo si abbia un’idea sbagliata: le problematiche non finiscono in vetta ai passi alpini. La discesa è un esercizio molto particolare, serve attenzione estrema e anche un poco di pazzia. Un minimo spericolati bisogna esserlo, altrimenti non vai. A me piacciono le tappe mosse, movimentate. Detesto il vento, quello sì. Che tormento quando soffia sulla strada. credo sia molto difficilmente immaginabile la fatica di quando corri controvento».
Quando si avvicina a Enrico Battaglin e Giovanni Visconti, Zana ha un poco di timore reverenziale ma anche tanta voglia di imparare. «Succede sempre quando sei accanto a qualcuno che ha più esperienza di te. Da chi vince puoi imparare a vincere ed io vorrei tanto vincere una tappa al Giro d’Italia. Quando si è giovani bisogna prestare attenzione a tutti, così si diventa grandi».
La passione di Filippo Zana per il ciclismo è tale che lui stesso ammette che, sin da ragazzo, non aveva un vero e proprio piano b. «Sono cresciuto sulla sella, non potevo immaginarmi altro di così bello. Nel tempo ti affezioni a tanti piccoli dettagli, tanti particolari. Io, per esempio, ricorderò sempre la prima vestizione della Bardiani. Quando prendi in mano la casacca e sai che sarà la tua. Mi spiego?».
Quella di Zana è una domanda ma anche una risposta. Come quando ci dice: «In inverno devo pur fare qualcosa, no? Mai fermarsi. Così vado a far legna nei boschi o cavalco. A casa, oltre ai cani, ho un cavallo e mi piace molto stare in mezzo alla natura con lui. Sarà per questo che ho studiato agraria. Sarà per questo che ho scelto il ciclismo».
Ad ogni parola un senso ed un peso. In bicicletta ci sono molte regole, nella quotidianità di Zana una vale più di tutte le altre: «Non sono un ragazzo che parla molto. Piuttosto mi piace ascoltare. se c’è da ridere e scherzare non mi faccio problemi, sia chiaro. Però non mi dispiace nemmeno stare da solo. La solitudine non mi spaventa. Soprattutto non mi piace parlare delle cose che non so, quando non so qualcosa mi metto tranquillo e ascolto. Credo sia l’unico modo per capire e conoscere. Sbaglio?».
Foto: Paolo Penni Martelli
Voler bene alla bicicletta: intervista ad Antonio Tarducci
Antonio Tarducci ricorda benissimo le mani di suo papà. Quasi tutti le ricordiamo in ogni dettaglio le mani di nostro padre, il ricordo di Antonio, però, è particolare. «Se ripenso alle mani di papà mentre aggiustava le biciclette mi sembra di rivederle. Non riparava biciclette di professionisti, erano normalissime biciclette della vita di ogni giorno». Quelle mani erano sporche di olio e segnate dalla fatica, come le sue, mentre ci parla. Ma, e Tarducci lo spiega bene, il senso del suo lavoro è proprio qui, nell’artigianalità. «Un grande costruttore qualche tempo fa me lo disse prendendomi da parte: “Antonio, ricordalo sempre, noi siamo dei biciclettai”. Ecco, essere biciclettaio, è questo che mi rende orgoglioso. Qualcuno che lavora plasticamente con le biciclette, che le plasma. La bicicletta è un mezzo che viene dalla povertà, un mezzo che ha visto la povertà, che l’ha affrontata e l’ha riscattata. Su quella sella puoi viaggiare, spostarti, vedere ogni angolo di mondo, anche quelli più nascosti, più intimi, senza spendere una lira. Fatico a vedere un difetto nelle biciclette. Guardiamole assieme: che difetto gli vedi?».
Il papà di Antonio, Ugo, ha iniziato questo mestiere nel 1960 a Viareggio e da quei giorni non ha mai smesso di ricordare al figlio la cosa che più conta in ogni mestiere: osservare. Così gli occhi di un padre e di un figlio sono cresciuti assieme: «Qui si impara sempre ed ogni giorno devi alzarti dal letto sapendo che imparerai, altrimenti parti col piede sbagliato. Bisogna porsi accanto a chi questo lavoro lo sa fare meglio di te e guardare. Se stai lì e guardi, cresci. L’ho sempre fatto: in un angolo, in silenzio, quasi timidamente per la paura di disturbare. Servono uomini esperti che non abbiano timore di condividere ciò che sanno, in particolare per quanto concerne i giorni di corsa, la loro organizzazione, e giovani curiosi che abbiamo fame di sguardi».
I due maestri di Tarducci sono indubbiamente stati Luciano Galleschi ed il mitico “Falcone”. «Avevo vent’anni e per fare il mio lavoro cercavo sempre un posto accanto a Falcone. C’era grande rispetto, divoravo tutto con gli occhi». L’indole di Antonio è quella sanguigna, tipicamente toscana; gli anni però, Tarducci ne ha cinquantacinque, hanno smorzato quell’anima da “toscanaccio” che oggi resta lì, sotto pelle. «Se ho un rammarico è quello di non aver visto crescere mio figlio che ora ha ventiquattro anni. Lui è cresciuto con mamma. Gli mancano due esami alla laurea e i suoi anni più belli me li sono persi. Ricordo come anni fa facevo queste code chilometriche alle cabine telefoniche di ogni città per riuscire a parlarci qualche minuto. La lontananza è una brutta bestia, non ti fa stare tranquillo, ti immalinconisce e così fatichi anche a lavorare. per lavorare bene devi essere sereno. La vita è così, non ci si può fare molto. Però col tempo ti fai un esame di coscienza e capisci che, alla fine, non sei così male. Ti senti soddisfatto di te e sei felice al solo pensiero della famigliola che hai a casa».
Avere a casa un figlio così giovane è anche la molla per capire tutti i “suoi” ragazzi, quelli che Antonio definisce “come figlioli”. «Essere meccanico significa essere a disposizione. Io sono un uomo a disposizione di altri uomini. Non c’è nulla di male, sai? Questa consapevolezza mi ha portato a superare tutte le difficoltà che normalmente si incontrano. Se tu sai che devi reagire per aiutare gli altri, lo fai. Il rapporto umano con questi ragazzi è fondamentali, per capirli, per aiutarli e soprattutto per rispettarli. Cerco sempre di sdrammatizzare. Il punto è che bisogna capire quando si può sdrammatizzare, quando serve e quando invece bisogna stare in silenzio e dare spazio allo sfogo o ai pensieri. Non si può sempre scherzare. C’è un’interiorità da rispettare». Così Tarducci ci racconta dei viaggi in auto in assoluto silenzio dopo una sconfitta o dopo una delusione. Così ci parla della responsabilità che avverte forte. «Non sono mai stato un campione ma ho corso anche io in bicicletta. La verità? Ho sempre avuto paura delle volate. Ne ho anche oggi per i ragazzi. Il nostro è un lavoro di responsabilità, basta un nostro piccolo errore e si può compromettere tutto. Tu devi fare il massimo, non devi poterti rimproverare nulla perché più di così non potevi fare. È l’unico modo per essere sereni. A questo penso spesso».
Dei vecchi tempi, quelli che ora il Covid fatica persino a permettere di immaginare, Antonio ricorda sale di alberghi piene di gente, le chiacchierate nei cortili e quei tavoli con una birra e qualche risata. «Quando arrivi alle partenze e vedi questi piazzali vuoti, ti prende un morso allo stomaco. Quanto è cambiato il nostro caro vecchio ciclismo in questi tempi?». La sua indole sanguigna torna quando parla della gara che ha organizzato per dieci anni, il Trofeo città di Viareggio. «In questo periodo non si sta facendo più nulla per i giovani, questo è un dramma. I ciclisti professionisti di domani sono i ragazzini di oggi. Vorrei tornare a organizzare qualcosa, spero di poterlo fare un domani. Con gli amici di sempre, con Emanuele, con Marietto, tutte persone che vogliono bene a quelle biciclette lì».
Anche Antonio Tarducci vuole bene alla bicicletta, a queste come a quelle che ha a casa, fra le biciclette d’epoca, la sua grande passione, ereditata da papà. La voglia di ritornare a Viareggio è una voglia particolare, qualcosa che riappacifica con sé stessi e con ciò che c’è attorno. «Basta poco, basta tornare a casa, alzarsi la mattina e camminare in Piazza Mazzini, fermarsi al caffè Margherita e dare una sbirciata al lungomare». Sì, perché, alla fine, anche qui a Benidorm c’è il mare ed è bellissimo ma ognuno ha il suo mare. E quello è inconfondibile.
Duecento metri
Per quanti metri la corsa continua a pulsare dopo aver fermato la sua spinta? Saranno duecento, trecento metri dopo il traguardo, il luogo della comprensione. Luogo non luogo perché insieme del tutto e del niente. Ma è lì che l’umanità si tocca a grappoli, come sempre del resto, perché è tutto ciò che non si vede e non si sente a vedersi e sentirsi di più. Perché la regola è sempre quella: non è il rumore a permettere l’ascolto. In quei duecento metri dopo la linea di arrivo c’è un mondo parallelo che apparentemente ha poco a che vedere con la corsa, in realtà per raccontare la corsa quei metri bisognerebbe conoscerli a memoria. Soprattutto di quei metri bisognerebbe fare propria la consapevolezza, che altro non è se non attenzione e conoscenza. Bisognerebbe farla propria perché quando si lasciano quei metri, se ci si è stati come bisognerebbe stare in qualunque situazione che ci tocca, forse si sa qualcosa in più di tutto ciò che serve e di tutto ciò che basta.
Dopo quella linea c’è l’abbandono. No, non solo quello di tante persone per cui la tua esistenza è strettamente connessa al vorticare dei pedali. Come se ci fosse un cono d’ombra dentro al quale puoi perderti senza che a nessuno interessi. Soprattutto se perdi, soprattutto se nessuno ti aspetta al podio, se “il tuo nome non è sui giornali e non si fa ricordare”. Qualche volta ti sei anche sentito parte di un circo più grande di te, ingranaggio di quel gruppo che risveglia voci e applausi. E se a casa hai tua figlia con trentanove di febbre? Se ti hanno detto che l’anno prossimo non correrai più per quella squadra? Se tua moglie ha perso il lavoro e non riesce più a dormire la notte? Che ne sanno quelli lì? Non immaginano neppure che in certi momenti vorresti solo tagliare quella linea per tornare a prenderti cura di quelli a cui vuoi bene. Non pensano che in altri istanti quella linea non vorresti mai tagliarla perché tu che non sei nessuno grazie a quel circo che ti inghiotte puoi sperare e dimenticarti tutto quello che non va, che non è mai andato.
In quei metri l’abbandono maggiore è il tuo. Abbandoni il tuo corpo, sparpagliato là dove solo la forza di gravità lo blocca, per terra. E non importa che ci sia asfalto, ghiaia, erba, sassi, non importa che ci siano quaranta gradi al suolo, che l’acqua ti inzuppi pure l’anima o il gelo rovente ti bruci la pelle. Lì c’è il male e tu sei stanco. Ti butti da qualche parte e ti lasci andare. La comprensione arriva in quel frangente. Quando vengono a raccattarti da dove non ti si riconosce quasi più. E ri-prendere è molto più difficile che prendere. Lo sappiamo tutti se abbiamo provato a intrecciare almeno una volta le mani con quelle di una persona che stava andando altrove. Per ri-prendere devi capire cosa serve e quanto basta. Julio Velasco lo raccontava: «Osservate una qualunque nonna mentre fa il suo piatto preferito. Guardatela mentre aggiunge il sale: una presa, un altro poco, sta per chiudere il barattolo del sale, si guarda attorno e ne aggiunge ancora un poco». Ecco, il “quanto basta” è lì, racchiuso in quel ripensamento senza nemmeno assaggiare la pietanza. Per aiutare qualcuno, anche solo per poterci provare, il “quanto basta” è essenziale. Lo sanno i massaggiatori che in quei metri sono l’anima di scorta di ogni atleta. Lo sanno perché sanno il momento in cui porgere la mano. I momenti sono la questione fondamentale. Per aiutare qualcuno devi avere cura dei suoi momenti, tralasciando parzialmente i tuoi. Vuol dire lasciare che non parli, perché non c’è più fiato, lasciare che non ti guardi nemmeno negli occhi perché arrabbiato o deluso, e restare incollato alla sua ruota anche se non smette di pedalare e fugge via, significa farlo perché sai che di te lui ha bisogno. Che se non sei dove ti vuole il bisogno, per lui sarà tutto più difficile e anche per te perché tu, in quel momento, potevi. Lui no, tu sì.
Comprendere vuol dire questo. Vuol dire che certe cose non sono sempre possibili o almeno non lo sono per tutti. Non significa pesare su una bilancia ma raccogliere da un mestolo. La bilancia segna una quantità, il mestolo raccoglie tutto ciò che può e anche di più. A rischio di traboccare. Ma ecco il segreto: ci sono occasioni in cui il nostro traboccare è un rischio percorribile. Il traboccare di altri un azzardo. Per stare in quei metri, questo devi saperlo. Devi sapere che è tutta adrenalina e che le emozioni incontrollate non guardano in faccia a chi prova a curarle. Non importa, tu ci sei per quello. Tu fai la tua valigia per quello. Per passare la borraccia giusta nel giusto istante. Giusta perché né troppo piena, né troppo vuota, giusta perché con zuccheri o sali minerali, giusta perché né troppo fredda, né troppo calda. Soprattutto giusta perché al servizio della necessità e del ”tuo bene”. Già, perché talvolta la necessità è il tuo bene e talvolta il tuo bene è la necessità. Non è la stessa cosa, no. Pensateci.
Lì dove slacciare un caschetto è un inno alla delicatezza, lì dove appoggiare un borsone a terra per far distendere un ragazzo sfinito è questione di attenzione, lì dove sai che, certe volte, non serve parlare, che non serve toccare, basta esserci. Perché il bisogno non ha per forza la necessità di essere spiegato ma ha la necessità di essere capito. Perché il bisogno non ha bisogno di parole ma di attenzione. E non hanno senso i “potevi dirmelo” ma solo i “potevi capirlo”.
Foto: Eloise Mavian
Di Adriano Malori o del giorno in cui ti portano via
«Durante la mia riabilitazione ho visto bambini lottare per alzare un braccio e lo facevano da quando erano nati. Ecco, cose di questo tipo ti aprono gli occhi». Era passato poco più di un anno dal 22 gennaio 2016, quando Adriano Malori raccontò così a “La Gazzetta dello Sport”. Era passato poco più di un anno da quel messaggio: «La caduta è grave, Adriano Malori è grave».
Uno dei tanti messaggi scambiati in una serata di lavoro mentre qui era ancora inverno e, a dodicimila chilometri di distanza, in Argentina, al Tour de San Juan, c’era un sole che spaccava le pietre. Ma questo non importa. Non sarebbe cambiato nulla, del resto cosa importano le stagioni quando ti portano via? È sempre un brutto giorno per andare via. È sempre inverno quando ti portano via. Ancora peggio quando quel giorno d’estate era proprio quello in cui volevi partire, volevi andare lontano, molto lontano e avevi già preparato tutto. Eri andato a parlare con Francisco Ventoso e glielo avevi detto. Gli avevi detto che quel finale ti piaceva, che avresti provato a sparigliare le carte. Chissà, magari, presagisci lo strappo, qualche volta. Forse ti senti solo più strano, più triste o più felice, eppure dovrebbe essere un giorno qualunque. Forse, quella voglia di fuggire è desiderio di restare. Di essere qualche metro più in là. Spasmo inquieto come è inquieto il giorno in cui ti portano via.
Adriano Malori era in testa al gruppo quel giorno, quell’ora, quel minuto, quel secondo. Lui che forse in qualche modo crede nel destino ma non lo sopporta: «Non ho mai accettato l’idea che sia il destino a sorprenderci e a decidere per noi. No, non è possibile». Era in testa al gruppo e tirava come sa tirare il gruppo uno specialista contro il tempo. Chiedetelo a uno scalatore che per tenergli la ruota deve masticare vento e acido lattico. Ve lo racconterà lui come ci si sente lì dietro. Cade, Malori. Cade e cade dalla testa del gruppo, quando la velocità è vettore innescato, moto di reazione che trascina tutto ciò che prima spingeva. Cade Malori e cade buona parte del gruppo. Le biciclette si agganciano e si abbattono come pedine del domino. Qualcuno scriveva che un ciclista sa bene che la morte può capitare ma non ci pensa. Corre come se quel rischio non ci fosse. Sono degli illusionisti i ciclisti, degli illusionisti che si illudono di credere alla loro illusione. Per questo si rialzano subito tutti e sembrano dare per scontato che così debba sempre accadere. Quel giorno no, quel giorno Malori non si rialza, è immobile, non reagisce agli stimoli. È il giorno in cui ti portano via.
L’afa di Buenos Aires è soffocante quanto la sensazione di non avere via d’uscita. Malori è in uno stato di coma indotto, per salvaguardarne le funzioni vitali, si sa poco delle sue condizioni di salute. Il danno neurologico sembra grave ma non c’è nulla di certo. Alla famiglia si parla di prognosi in queste situazioni: un modo come un altro per dire che tutto, persino la migliore scienza, è al servizio del tempo e non si ammettono deroghe. Poi c’è il risveglio, c’è il momento in cui sai di essere ancora tu, in cui capisci di esserci ancora. Adriano Malori fatica a trovare la coordinazione per parlare ma qualcosa riesce a dire. Per gli altri è un sospiro di sollievo, per gli altri è la consapevolezza che non sei andato via del tutto e il resto lo si può affrontare. Lo sconforto arriva dopo, quando il sollievo lascia spazio alle parole dei medici, alla realtà, ed essere qui non basta più. C’è il classico odore di disinfettanti degli ospedali, a Pamplona. C’è quando Malori si arrabbia con quel diavolo di destino e gli dice che non c’è, che non esiste, che lui tornerà in sella alla sua bici. Ci sono i camici bianchi dei medici, costretti a rimangiarsi tante parole. Se non vai troppo via, se non ti portano troppo lontano, puoi tornare. Puoi tornare a decidere tu dove andare.
Adriano Malori sorprende tutti per la velocità con cui torna in corsa. Non va piano, tutt’altro. Ma ognuno è abituato ad una propria velocità, ognuno ha inciso nelle proprie viscere il ricordo di ciò che gli è stato consegnato e di ciò che si è preso anche quando faceva talmente male che avrebbe voluto lasciare. Adriano Malori se ne accorge. Non è più lo stesso, non è più la stessa cosa. La sua rivincita è stata tornare, non accettare nulla di tutto ciò che gli veniva detto. Ora è diverso, ora deve dirsi la verità. I giorni in cui ci portano via ma restiamo qui, sono i giorni in cui cambia tutto. I giorni in cui non ti arrabbi più per un meccanico che ti ha messo la sella quei cinque millimetri troppo in alto.
Sono i giorni in cui immagini come avrebbe potuto essere non poter più cogliere una rosa e regalarla a qualcuno, salire in bicicletta e stupirti perché quella casa aveva un colore diverso una settimana prima. Malori lo annuncia in una conferenza stampa affollata il 10 luglio del 2017: non sarà più un ciclista, intraprenderà una nuova carriera come preparatore atletico e pedalerà per guardare quanto può essere bella la strada davanti agli occhi. Ha smascherato il destino, lo ha sorpreso, ha deciso che solo lui avrebbe potuto scegliere dove andare e come farlo. Perché poi non è importante nemmeno stabilire se il destino esista oppure no. Per essere uomini o donne non c’è altra possibilità che avere coraggio. Ed essere umani è, prima di tutto, una scelta di coraggio. Anche nel giorno in cui ti portano via.
Foto: KT/BettiniPhoto©2017
Tutto quello che dice la gente
Blanka Kata Vas è un gioco di contrasti. Probabilmente incontrandola in una qualunque città, anche nella sua, anche a Budapest, non immagineresti tante cose. Quella carnagione color pastello, quei tratti delicati e quelle gote che ad ogni sorriso si riscaldano, sono la sublimazione di ciò che Blanka è. C’è un qualcosa di leggiadro, qualcosa di armonioso in questa ragazza nata il 3 settembre del 2001. Come la sua stagione, quella che sfuma nei contorni dell’estate e pizzica l’aria del colore delle albicocche. Ciò che sembra è anche ciò che è, perché Blanka è così, non c’è inganno o maschera in lei. L’imbroglio può essere in chi la guarda o magari in chi sin da bambina l’ha vista, l’ha guardata. Perché come siamo, spesso, finisce per diventare un’imposizione. Se c’è una ragione per cui tante persone non si piacciono o non si piacciono più è per questo. Perché qualcuno vedendole ha iniziato a porre limiti, a porre confini, a cancellare le righe dell’immaginazione per stabilire quelle ferree di una rete. La rete che diventa ostacolo per l’osservato è in realtà la rete in cui è intrappolato l’osservatore. Un tranello difficile da spezzare perché per rompere quei fili e correre liberi dall’altra parte bisogna abituarsi alla bellezza dei contrasti, alla loro natura. E per abituarsi alla bellezza dei contrasti è necessario abbandonare il sonno della ragione che si adagia su ciò che ha sempre visto e diviene miope.
Parlare di Blanka Kata Vas, per noi, significa parlare di tutti quei ragazzi e di tutte quelle ragazze che in un qualche modo si sono sentiti dire: «Ma figurati se quel lavoro può fare per te. Cosa pensi di fare? Non illuderti. Non credere alle favole». E per chi dice così, chi ascolta è sempre “troppo” o “troppo poco”. Per carattere, per fisico, per capacità, anche per luogo di nascita. Il problema è che molti di fronte a queste obiezioni si tirano indietro, si fermano, credono di essere “troppo” o “troppo poco”. Vi ricordate la rete dell’osservatore? Ecco, ora è rete per l’osservato. Ed il peggio è che, se l’osservato non se ne libera, un domani, diventerà rete per i suoi figli, per i suoi nipoti, per qualunque bambino incontrerà e a cui dirà: «Vuoi fare questo? Ma non farmi ridere dai. Tu vai bene per fare quest’altro». Non c’è nulla da fare: se gli occhi non sono abituati a vedere oltre, ad ammirare il contrasto, non lo apprezzeranno mai. Il contrasto non è altro che possibilità, non è altro che una manciata di futuro. Contrasto può essere apparenza di constatai come tutto ciò che già è in noi e che noi non conosciamo. Forse perché non ci conosciamo. È scoprire che tutto ciò per cui ti dicevano che non ce l’avresti mai fatta, è ciò per cui ce la fai. Il contrasto è una rivendicazione, un rifiuto e un’accettazione: «Gli aspetti del mio carattere, del mio modo di fare e tutto il resto, non sono un limite a ciò che voglio fare, sino a che questo limite non lo pongo io. Perché non voglio farlo o perché non mi interessa».
Guardare Blanka Kata Vas in sella può essere un buon esercizio per abituarsi. Quella ragazza, quella stessa dalla pelle color tramonto e dai modi delicati, è nel suo luogo quando è su quella sella. C’è sintonia con quegli ingranaggi meccanici. Blanka è uguale e diversa quando sale su una bici da cross o da mountain bike, si modella sulle rughe del terreno che percorre. Lo guarda, lo scruta con un’attenzione che silenzia qualunque boato. Centimetro, dopo centimetro, dettaglio dopo dettaglio. Uno zoom impietoso sulle difficoltà per focalizzarle e costruire la soluzione. Che poi altro non è se non qualcosa che scioglie. Questa è la forza delle soluzioni: il cambiare stato a qualcosa che c’è e che persiste ma che in altra forma può essere affrontato. Chi scioglie, adatta. Chi adatta è pronto per ciò che voleva. Lo si fa con i problemi e anche con se stessi. Lo si fa per ciò che si vuole fare, lasciando Kiskunlachàza e trasferendosi in Belgio, dove di terra ne trovi quanta ne vuoi. Lo si fa dandosi nuova forma che è poliedricità, mutevolezza e per questo bellezza perché sei tu all’ennesima potenza, perché ti sei definito e non ti sei lasciato definire.
Così quando a Essen viene a farti i complimenti Marianne Vos magari non ci credi ma di certo sai che hanno visto, che tutti hanno visto. Ed abituarsi alle possibilità, anche a quelle che magari non penseremmo, è una lezione, è la brezza di inizio settembre, è novità e nuova soluzione. Per imparare a non sbarrare più la strada davanti alle impressioni o al sentire comune. Certo, perché probabilmente incontrando Kata Blanka Vas non la immagineresti mai ciclocrossista e biker. Ma il segreto è proprio quello: le persone sono molto più di ciò che possiamo immaginare ed ogni volta che lo riconosciamo, che non frapponiamo la nostra “piccola idea” alla loro visione, gli regaliamo un pezzo di domani. E se anche quel domani non si avverasse le lasciamo libere di provare quello che vorrebbero nel loro domani. E se questo non è futuro, poco ci manca.
Foto: Anton Vos/CV/BettiniPhoto©2020
Tutte le domande di Lucinda Brand
Lucinda Brand ha raccontato spesso un pensiero che ha puntellato la sua mente mentre era in ricognizione sulle pietre della Paris-Roubaix. Ina Teutenberg e Steve de Jongh avevano procurato giusto qualche giorno prima le biciclette da utilizzare per la classica del Nord e quello era il giorno della ricognizione. Lucinda Brand viene da una “Piccola Venezia”, Dordrecht, nei Paesi Bassi, è questo in fondo. Una cittadina antichissima, costruita sull’acqua, con vicoli strettissimi e negozi che si intravedono da barche elettriche che percorrono il corso d’acqua. Tra porti antichi, ponti bui e case costruite sul fiume, tutto sembra scorrere lì, a pochi chilometri da Rotterdam. Sarà per questo che Brand sente così forte quella realtà tagliente tra Parigi e Roubaix e la descrive così bene, facendo filtrare parole dove prima non erano mai arrivate: «Come fa una bicicletta a non rompersi su queste pietre?».
E forse non c’è domanda migliore di questa per raccontare l’inferno del Nord. Pensiamo spesso che il problema siano le domande e la soluzione le risposte. Pensiamo che si racconti con le risposte e che le domande siano, al massimo, una richiesta di racconto. In realtà non è così o, per quanto, non è sempre così. Certe domande raccontano più di qualsiasi risposta. Le persone, molte volte, si possono capire meglio ponendo attenzione a quello che chiedono piuttosto che a quello che dicono. Sì, perché chiedere o chiedersi qualcosa è sempre più difficile, se non altro per le risposte che potresti darti.
Per esempio, lì, in mezzo alle pietre potresti risponderti che «no, la bicicletta non si rompe, ma tu sei già a pezzi e manca ancora troppo. Come arrivi al traguardo?». E, quando inizi a risponderti così, sei tu ad essere rotto in mille pezzi. Perché non è la domanda a bloccarti, è la risposta. La domanda avrebbe potuto darti la spinta che serviva. Quella spinta è nascosta nel sebbene. «Sebbene io sia distrutta, sebbene non sia forte come questo cavallo di metallo, arriverò al traguardo». Sono i nostri sebbene a renderci forti. In quel momento la tua realtà torna a scorrere: quando non hai paura di farti domande, puoi tornare a Venezia, a Dordrecht o su qualunque barca in un vecchio porto. Quella paura ti passa con gli anni e con le domande che ti arrivano tra capo e collo quando non te le aspetti. Quella paura ti passa anche grazie a chi non si preoccupa delle domande che farai ma delle risposte che saprai dare alle domande che ti verranno fatte. Per esempio grazie a un fratello. Quel fratello, per Lucinda, è Giancarlo. Il papà di Lucinda e Giancarlo era un ciclista professionista e Giancarlo vuole correre sin da bambino. Giancarlo inforca la bicicletta e corre. Eccome se corre. Lucinda lo vede e vuole imitarlo. Possiamo immaginarcela mentre chiede di poterlo seguire, di poter imparare. Succede tra fratelli e sorelle, un istinto di emulazione che è la più feroce dichiarazione d’amore: «Voglio assomigliarti».
Giancarlo fa sul serio, Lucinda inizialmente è più impacciata e, nei primi tempi, Giancarlo deve tornare indietro, deve aspettarla. Così, però, non è possibile proseguire. Giancarlo non può aspettarla sempre e Lucinda non vuole neppure chiederglielo. Il problema sono gli angoli, come sempre nella vita, il problema sono le curve. Non c’è molta scelta: se non vuoi frenare gli altri devi imparare a guardarli e avere il coraggio di credere che puoi seguire la loro scia. Avere la fantasia per immaginare tuo fratello che si volta e, vedendoti, ti dice: «Ah sei qui». Che è come dire: «Adesso possiamo davvero andare via assieme».
Giancarlo non si è chiesto cosa avrebbe potuto pensare Lucinda vedendolo andare via da solo, non ha avuto paura di quella domanda . Sapeva cosa avrebbe risposto alla sua domanda, al suo perché, e sapeva che Lucinda avrebbe capito, prima o poi. Bastava lasciar passare qualche curva e qualche brivido a mezz’aria sull’equilibrio. Vedete? Sono le domande che raccontano: il coraggio, la paura, le rincorse e anche le scivolate. Come quando Lucinda andò da papà e gli chiese di iniziare a gareggiare. Una domanda, una delle poche, fatte a cuor leggero, forse. Sì, perché c’è papà e le risposte di un padre non possono far male, no? No, le risposte di un padre non devono far male ed è appunto per questo che possono far male.
Un padre non deve preoccuparsi del male temporaneo, per quanto lo faccia soffrire, un padre deve preoccuparsi del male non guaribile, quello delle decisioni prese quando è ancora notte, quando non si vede abbastanza bene la strada, quando non è ancora tempo di decidere. Quelle decisioni, mascherate da felicità, sono terremoti dell’esistenza, te la distruggono. Per questo, quel giorno, papà disse no. «Se non ti alleni molto, non ti farò gareggiare». Lo disse per lei. Perché alle domande può anche esserci una risposta dolorosa e non è un dramma. Dopo aver chiesto saprai cosa fare e da lì dipenderà solo da te. Che fa paura, ma fa anche felici.
Foto: Vincent Kalut/PN/BettiniPhoto©2020
Uscire allo scoperto
Justin Laevens non ha ancora vent’anni, li compirà il prossimo 9 marzo. Eppure questo ragazzo, pochi giorni fa, ai microfoni di SportNu, ha detto parole coraggiose, rare: «Sono omosessuale. Nel mondo dello sport è difficile uscire allo scoperto. Voglio essere un esempio per tutti coloro che sono rintanati nel proprio guscio. Ci pensavo da due anni, in realtà, ed è stato un grande passo. Avevo particolarmente paura delle reazioni degli altri corridori o dei team più grandi: temevo che mi avrebbero guardato con occhi diversi». Abbiamo parlato di coraggio, già. Perché anche la più vera normalità, in questi tempi, è ancora difficile da dire, da raccontare. Sembra assurdo, è assurdo. Ma purtroppo dirsi omosessuali resta difficile a tutt’oggi. Perché la società sa essere cattiva, magari in maniera subdola, attraverso l’esclusione o la percezione del “sentirsi diversi”. Non la diversità che è un valore, la diversità che è una colpa, che è un errore.
Una delle più complete ricerche sul tema dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere nello sport è stata commissionata dall’Unione Europea, che nell’ambito del programma Erasmus+ ha finanziato il progetto Outsport: un’iniziativa di contrasto alle discriminazioni, che ha portato alla realizzazione di una ricerca sulla situazione attuale a livello europeo; il quadro complessivo, che emerge da questo studio, evidenzia come:
– Il 90% delle persone LGBT intervistate percepisca l’omofobia nello sport come un problema;
– Il 33% non parli della propria sessualità in ambito sportivo;
– Il 20% abbia rinunciato a praticare una disciplina sportiva di proprio interesse a causa delle preoccupazioni sul proprio orientamento sessuale/identità di genere;
– Il 16% riporti almeno un’esperienza spiacevole legata allo sport (insulti, emarginazioni, provocazioni, violenza fisica), in un caso su due a opera dei compagni di squadra.
Dati che riguardano persone dichiaratamente LGBT, che hanno partecipato alla ricerca, mentre rimane una larga parte di sommerso.
Ed è proprio analizzando i dati di questa ricerca che ci rendiamo conto di quanto sia stato difficile uscire allo scoperto per Justin Laevens ed è a lui che vanno i nostri complimenti più sinceri. Perché ha fatto qualcosa di normalissimo ma difficile per la società in cui vive. Di più: vanno i complimenti perché lo ha fatto per se stesso e per gli altri. Perché vorrebbe essere un esempio. Perché forse in questi due anni, in cui ha riflettuto, è stato male a non dire la verità per paura del giudizio, per paura dell’esclusione e ora si è preso per mano e si è detto: «E se qualcun altro, magari più piccolo, ancora adolescente, stesse passando quello che ho passato io? Magari senza l’appoggio della famiglia o, peggio, col timore di dirlo in famiglia». Già, perché Laevens ha sempre avuto l’appoggio dei propri genitori, sono stati anche loro a convincerlo a parlare, a raccontare, perché poi sarebbe stato meglio. Casa, per Laevens, era davvero casa, il luogo della sincerità, il luogo in cui puoi essere tutto quello che sei. Per molti, per timore del giudizio, non è così ancora oggi. Non lo è a casa, figuriamoci fuori. Per questo quell’appello, quel “parlate, ditelo” è importantissimo. Senza fretta, con i propri tempi e la propria sensibilità, ma è giusto parlare, è giusto dirlo, è giusto raccontarlo come si racconterebbe qualunque altra cosa. Il resto è ignoranza e l’ignoranza si sconfigge solo non temendola, non lasciandole spazio per infiltrarsi e per decidere cosa sia giusto o sbagliato. Laevens ha capito il senso più vero dell’essere modelli. Qualcosa che ha a che fare col prendersi sulle spalle ciò che potrebbe non interessarti, farsi carico di qualcosa che ti tocca ma non è solo tuo, soffrire di più, soffrire prima. Essere modelli è questo, essere uomini e donne è questo. Solo questo. Ed è l’unica cosa che interessa in un uomo o in una donna.
Foto: Instagram/Proximus Alphamotors Doltcini
Il sapore dell'asfalto di Willunga Hill
Non si può parlare di Old Willunga Hill senza parlare di numeri. Nel ciclismo, si sa, i numeri contano fino a un certo punto. In realtà non solo nel ciclismo, anche nella vita. Perché poi certi spunti o certe spinte con i numeri hanno ben poco a che fare. E ogni giorno vive di spunti e spinte, a prescindere da ciò che raccontano i numeri. Gli spunti sono quelli della mente e di qualcosa che non sappiamo dove esattamente ma è da qualche parte in noi, come l’essenza, come il sapore del pane. Dov’è il sapore del pane? Anche le spinte, quando non sono puramente materiali, di mani che si allungano, e il ciclismo per fortuna conserva questa grazia, questa capacità di allungare la mano verso chi non va più avanti, sono frutto di quella stessa mente e di quella stessa essenza. Willunga Hill è così distante dai numeri che dovrebbero raccontarla. Sapete perché? Perché raccontare l’asfalto solo con i numeri è roba da topografi e l’uomo dell’asfalto sa ben altre cose, come del pane.
Willunga Hill è fatta, costruita, da 3500 metri di strada disciolta dal caldo torrido affacciata sui vitigni di McLaren Vale. Lì solo sterpaglie, più secche dell’aria che non si sente lassù, e vegetazione che per resistere si è addomesticata alle temperature e ai vizi del proprio cielo. Quanti sono 3500 metri in relazione a tappe di duecento chilometri? Pochi, ben pochi. Però c’è la pendenza e quella strada ha una pendenza notevole, del 7,5%. La pendenza è l’inclinazione. L’inclinazione è durezza ma anche predisposizione, tendenza, volontà. Non significa solo che per salire durerai fatica, significa anche che per salire dovrai essere predisposto. E qui c’è già tutto, perché fatica e predisposizione procedono appaiate, come i rapporti che innestano la pedalata. Senza predisposizione, senza volontà, la fatica non ti porterà in cima. Ma senza fatica, la volontà sarà sterile capriccio, vuota parola di cui riempirsi la bocca. Messa così, Willunga Hill è solo una salita, non molto lunga, anzi decisamente breve, ma ripida, molto ripida. Non diresti mai che a questa salita possa essere intrecciato il nome di un corridore come accade per Mortirolo, Stelvio, Alpe d’Huez o Mont Ventoux. Non lo diresti mai perché ti sei abituato, o ti hanno abituato, a contare la realtà piuttosto che a sentirla.
Sia chiaro: Willunga Hill dal punto di vista strettamente ciclistico non ha nulla a che vedere con le vette citate prima. Questo bisogna dirlo forte e chiaro ma questo dice tutto e niente. A Willunga Hill, ultima, e forse unica, ascesa del Tour Down Under ha vinto per sei anni consecutivi Richie Porte. Richie Porte, lui promessa delle promesse, lui martoriato dalla sfortuna, lui nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, a Willunga Hill è sempre stato impeccabile. A tal punto che Willunga sembrava una benedizione e una maledizione. Era sin troppo facile pronosticare Porte vincitore a Willunga Hill ed era diventato difficile, troppo difficile, credere a Porte sul suo podio, quello che non gli era mai appartenuto ma forse per questo era più suo di tante cose realmente sue, quello del Tour de France. Porte era il vincitore di Willunga e Willunga era la salita di Porte. E per quanto potesse fare Porte per impressionare i suoi rivali, Willunga ed il Tour restavano tali. Gli inizi spumeggianti sono belle storie le prime volte, poi diventano eterno ritorno dell’impossibile e alla fine, forse, stufano anche. Sicuramente Richie Porte non ha vinto a Willunga nel 2020 perché gli è mancato qualcosa o perché ha trovato qualcuno più forte di lui, Matthew Holmes nello specifico. Il punto non è questo. Il punto è che, forse proprio qui, c’è il sapore del pane, c’è la vera storia dell’asfalto. Quella di cui i numeri non dicono niente.
Qui Porte ha capito che l’ovvio è la storia di chi ha poca fantasia. E lo ha capito perdendo dove aveva sempre vinto. Sì, perché è facile dire: ”Puoi fare bene al Tour” ma stai parlando di una sensazione che ormai non ricordi nemmeno. Anche le cellule hanno una memoria: è quella che ci fa reagire in modo simile a situazioni simili, è quella attraverso cui impariamo come reagire. Quella memoria ogni tanto va risvegliata con le vibrazioni dell’inaspettato altrimenti si abitua al ricordo e non lo crea. Porte sapeva sin troppo bene come era vincere a Willunga Hill e forse quel giorno lo dava anche per scontato. Per questo ha perso. Quello che aveva dimenticato era come fosse perdere lì dove tutti sapevano che avrebbe vinto. Perdere lì dove sembrava impossibile.
Quel giorno Richie Porte ha letto una storia diversa. Da lì lo spunto e la spinta. Perché ora che l’ovvio era andato in frantumi, l’aria era tornata. Quando la strada sale troppo e anche la volontà sembra non bastare, devi rilanciare perché di ciò che ricordi, in quel momento, non interessa a nessuno. Oggi quella memoria è diversa ed ha come sfondo i Campi Elisi ed un terzo posto al Tour de France. Una gara di tre settimane con salite così diverse da Willunga, nei numeri ma non nella sostanza. Perché che ti è ancora possibile far bene al Tour, puoi impararlo anche un giorno di gennaio, dall’altra parte del mondo. Di tutto questo sa quel pane, di tutto questo sa quell’asfalto.
Foto: Dario Belingheri/BettiniPhoto©2020
Il cielo sopra Pauline Ferrand Prévot
«Credo che essere campionessa del mondo di tre discipline nello stesso anno sia la peggior cosa che mi sia mai accaduta. Anche ammalata ho continuato a lavorare sodo. Alla fine sono stata costretta a ritirarmi da una gara dopo l’altra. Ho concluso la mia stagione con un ritiro e non so quando tornerò in sella. La bicicletta è sempre stata il mio più grande amore, ora è diventata un terribile incubo». Quanto coraggio è servito a Pauline Ferrand Prévot per scrivere queste poche righe? Era passato solo qualche giorno da una delle mattinate più difficili della sua vita. Nell’agosto del 2016, a Rio, durante la prova olimpica di mountain bike, l’allora ventiquattrenne francese, era scesa di sella e, delusa in volto, si era ritirata. Invano i giornalisti presenti avevano cercato di dare una spiegazione a quella decisione: la stagione di Ferrand Prévot era stata costellata di problematiche fisiche ma, nonostante questo, i risultati non avevano tardato ad arrivare ed in quel momento la ragazza di Reims sembrava non aver proprio nulla da chiedere. La città delle cattedrali, non aveva più vetrate e nessun cielo dentro una stanza. Qualcosa dentro era andato in frantumi e dei vetri erano rimasti solo i tagli: Pauline era stanca. Non fisicamente, o per quanto non solo. Pauline era stanca mentalmente, psicologicamente. La tremenda verità è che Ferrand Prévot sul finire di quell’estate era stanca di essere se stessa. Avrebbe preferito essere una ragazza qualunque, sconosciuta ai più, magari studiosa di architettura o di lettere in qualche università locale. Pauline Ferrand Prevot avrebbe voluto essere una delle tante ragazze che ancora potevano permettersi di fallire, di sbagliare, di rinunciare, di ritirarsi, di cambiare vita, di andare al mare, magari.
Quel grido scritto era una protesta: «Non sono quella che credete. Non sono invincibile. Soffro, sto male, sono fragile anche io. Sono stanca. Guardatemi: sono stufa. Voglio essere una ragazza qualunque». Una richiesta di debolezza, se così possiamo chiamarla. I mesi trascorrono, viene autunno e poi inverno. Ferrand Prévot non riesce a riprendere in mano una bicicletta. Il team manager della Canyon SRAM, Ronny Lauke, la conosce in quel periodo ed è in quel periodo che avviene la firma con il nuovo team. Sì, perché puoi essere completamente distrutta ma il lavoro è lavoro ed in qualche modo devi proseguire. «In Pauline si è spento qualcosa. Noi l’abbiamo contattata- racconta Lauke- perché cercavamo un’atleta polivalente, forte come lei. Non immaginavamo quasi nulla di ciò che sarebbe accaduto poco dopo. Pauline era una ragazza, una ciclista, che non riusciva più a essere contenta di vedere una bicicletta». Pauline Ferrand Prevot deve ripartire. Il punto, in questi casi è: da dove si riparte? Da tre mesi in cui non ha mai toccato una bicicletta mentre le sue pause anteriori erano state al massimo di quindici giorni? Da quelle maglie, quelle coppe e quelle medaglie sul letto? Dal passato che nei ricordi della gente, ora, è stupendo a confronto di uno scialbo quotidiano? Dalla paura: e se riparto e scopro che, oltre a stare male, non so più vincere? Cosa faccio dopo? In realtà, se vuoi ripartire davvero devi guardarti allo specchio e sbatterti in faccia verità più crude di sberle.
«Quando vinci tutto- racconta Ferrand Prévot a Cyclingtips- quando hai vinto tutto, vivi nel terrore perché non sai più cosa fare per continuare a vincere. Quante cose si possono ancora vincere? Per quante cose puoi ancora lavorare? Quanti sogni e traguardi puoi ancora porti? E anche se trovassi nuovi obbiettivi non li fronteggeresti in maniera serena. Li affronteresti con la pressione di dover garantire un risultato, di non essere mai da meno». Ferrand Prévot non è più quella ragazza lì. Forse per questo guardando indietro sorride: «Non si può vincere tutto, non si può vincere sempre. Non è possibile essere sempre al massimo, fare sempre il meglio. Sembra quasi ovvio. Forse lo è. Adesso lo capisco anche io. All’epoca no, all’epoca non lo sapevo, non lo capivo. Ci ho messo tempo ed è stato quel tempo a ridarmi la piacevolezza del salire in bicicletta, del godermi la possibilità di pedalare e di farlo serenamente». E c’è ancora quel rumore di vetri rotti, come dopo ogni incidente, come dopo la recidiva della endofibrosi iliaca, frantumati a terra, ma torna anche il cielo. I vetri possono rompersi per diversi motivi, talvolta sono gli spettri della nostra mente a frantumarli, talvolta sono questi stessi spettri a cadere a terra. Un vetro a terra taglia sempre e qualunque finestra distrutta è un faccia a faccia con ciò c’è fuori e che ci spaventa. Passa l’aria, passa il freddo, talvolta il gelo. Ma senza questo, senza tutto questo, non può esistere cielo. Questo Pauline Ferrand Prévot lo ha capito, prima e molto meglio di altri.
Foto: Pauline Ferrand Prévot/Instagram
La strada in più di Daryl Impey
Daryl Impey è la persona giusta per spiegare un concetto molto complesso: l’unicità. Il termine va sviscerato per bene per arrivare a comprenderlo nel significato più profondo. Ancor di più, se il concetto di “unicità” o di “insostituibilità” si inserisce in una logica di squadra, logica che il ciclismo impone. Impey sa bene che “unicità” ha ben poco a che vedere con “totalità”, semmai a che vedere con “specializzazione”. Quando si lavora con altre persone, l’unica possibilità per essere insostituibili non è reclamare sempre maggiori competenze o possibilità, bensì è svolgere nel modo migliore possibile le mansioni che ti sono affidate.
Non sarai insostituibile nel momento in cui saprai fare tutto al meglio, possibilità riservata a pochi, pochissimi, sarai insostituibile nel momento in cui riuscirai a svolgere il tuo compito al meglio. Piccolo o grande che sia. Ed è di quel compito che devi andare fiero, senza mai sederti, senza mai abdicare ai varchi che ti si presentano per imparare, per crescere. Devi imparare, devi crescere ma devi farlo con lo spirito di chi, facendo ciò che fa, è in pace con se stesso e non ha nulla da rivendicare al mondo esterno. Quel continuo desiderio di rivendicazione rischia di essere il peggiore dei mali. Il sudafricano, nativo di Johannesburg, lo ha dichiarato qualche anno fa: «Mi sembra chiaro: per avere la possibilità di restare in una grande squadra devi comprendere come diventare insostituibile». Impey era insostituibile nel treno dei velocisti e questo lo rendeva già oggetto del desiderio di molte squadre ma sentiva che non era ancora tutto, che c’era altro. Il passo era iniziare a «fare qualche chilometro in più», che altro non vuol dire se non darsi qualche possibilità in più.
Impey riesce a darsi queste possibilità perché è sereno. Perché non le rincorre con la rabbia di chi vuole dimostrare di «non essere solo quello», dove “quello” sta per tutte le abilità già acquisite, ma con la tranquillità di chi può dire «sono anche questo». E c’è una differenza abissale. Da una parte cerchi una verità che gratifichi gli altri, dall’altra una verità che gratifichi te stesso. Impey, nei primi anni di carriera aveva lavorato con Chris Froome al team Barloworld, era la stagione 2008-2009, e avendolo osservato all’epoca, oggi dice: «Forse non avresti mai detto che Froome sarebbe diventato quello che è oggi. Una cosa, però, è certa: si allenava instancabilmente, non trascurava alcun dettaglio, e lo faceva con tanta voglia».
Impey si sarà ricordato di questo quando al Tour de France 2013, a Montpellier, vestì la maglia gialla. La dicitura “primo sudafricano in maglia gialla” avrebbe potuto montare la testa a molti. Non a lui. Lui capì che quello era solo un gradino in più, un altro gradino per imparare qualcosa, un altro balzo verso quell’idea di unicità a cui mirava. Se sei veramente “unico”, nel senso di cui vi abbiamo parlato, lo capisci quando puoi innalzarti sopra agli altri con vanto ma non lo fai. Quando resti quello che sei, con orgoglio, anche quando potresti fare altrimenti. Non è il momento per fare altrimenti, è il momento per riflettere su quello che puoi fare.
Daryl Impey resta quello che è sempre stato ma riprende a lavorare e lo fa con l’idea che c’è altro sulla sua strada. Gli indizi, per il vero, probabilmente non partono neppure da qui, bensì da dieci anni prima, quando Impey si rimise in sella dopo una spaventosa caduta al Tour of Turkey. Le prove, invece, arrivano negli anni quando l’atleta, oggi trentaseienne, riesce a mettere insieme un bottino piuttosto sostanzioso di successi, non facendo mai mancare, per un solo istante, la fedeltà ai propri capitani.
Il tutto grazie a un’indole che conosce perfettamente il meccanismo dei tentativi, che sa quanto, anche i tentativi con gli esiti peggiori, restituiscano qualcosa. Fosse anche solo la coscienza del fatto che era meglio non tentare. Quando vince a Brioude, la nona tappa del Tour de France 2019, Impey fatica a parlare ma qualcosa lo dice: «Si tratta di un sogno, del mio sogno, che si realizza». E d’altra parte come lo spieghi? Anche avessi “un materasso di parole” dovresti limitarti a rendere una vaga idea di quell’emozione. Meglio lasciare la pagina bianca perché lì la fantasia sguazza libera. I suoi compagni di squadra invece hanno tante parole, di quelle vere, di quelle che modificano il mondo attorno con il loro venire pronunciate, e sono tutte per lui. Perché poi, quando vince uno così, sono tutti contenti. Perché quando vince uno così, in fondo, vincono tutti quelli che potranno vincere raramente o forse mai. Quando vince Daryl Impey, vince un esempio.
Quel cerchio apertosi nel 2008 si richiuderà nel 2021 quando Impey tornerà a essere compagno di Chris Froome alla Israel Start Up Nation. «Chris mi ha telefonato e mi ha detto che crede in me, che ha fiducia in me e che vuole avermi nella sua squadra. Le nostre carriere hanno percorso diversi tratti assieme e conosco bene Froome. Sono certo che lui possa vincere un altro Tour de France. Quel giorno sarebbe bellissimo non limitarsi ad esserci, ma dare un contributo importante a quella vittoria». L’osservazione è profonda e pesca nella curiosità di tutti coloro che conoscono la storia di Impey. Chissà quale forma Daryl Impey inventerà per quel contributo, quanti chilometri in più percorrerà e quanto si reinventerà per aggiungere ancora un pizzico di unicità al suo essere ciclista.
Foto: ASO/Pauline Ballet