Orgoglio e uguaglianza: parola alle atlete
Nelle scorse settimane ha destato clamore la disparità di montepremi che Davide Ballerini e Anna van der Breggen si sono aggiudicati in Belgio per la vittoria della Omloop Het Nieuwsblad. L'italiano ha guadagnato 16.000 euro, mentre l'olandese solo 920 euro. Questo divario di montepremi, lo è anche di stipendi, non era certo una novità ma, si sa, la crudezza dei dati molte volte riesce a smuovere coscienze che i meri discorsi non arrivano a toccare.
A mettersi in moto è stato Cem Tenyeri, tifoso olandese, che, «disgustato dalla disparità di trattamento», lunedì primo marzo ha indetto una raccolta fondi attraverso la piattaforma GoFundMe per provare a eguagliare i montepremi in vista della Strade Bianche, proponendo poi la suddivisione del raccolto in percentuali prestabilite fra le prime cinque atlete giunte al traguardo. La risposta è stata impressionante ed in cinque giorni sono stati raccolti 25578 euro. Questo ha significato che il montepremi totale a disposizione delle prime cinque classificate è passato da 6.298 euro a 31.876 euro, andando a superare quello previsto per i colleghi uomini, fissato a 31.600 euro, e che, per citare un esempio, la vincitrice Chantal van den Broeck-Blaak, che avrebbe dovuto incassare 2.256 euro, in realtà ne incasserà 10.441, vedendo il proprio premio aumentato del 32%.
A caldo, Ashleigh Moolman Pasio, ciclista del team Sd Worx, ha subito commentato la vicenda, spiegando di essere commossa in quanto «è davvero toccante vedere che gli appassionati di ciclismo, in un periodo difficile come questo, siano disposti a rinunciare a denaro che servirebbe alla loro famiglia per metterlo a disposizione di una causa così nobile». L'entusiasmo, a dire il vero è stato generale, ed Elisa Longo Borghini ha fatto ben presto seguito a queste dichiarazioni introducendo un tema importante. L'atleta di Ornavasso, ringraziando i donatori, ha scelto insieme al suo team, Trek Segafredo, di destinare la propria quota a progetti che possano sostenere il ciclismo femminile sul lungo termine.
In Trek, non si è ancora deciso come e dove spendere questi guadagni, il passo è però importante per fare in modo che questa donazione possa cambiare qualcosa nella lunga strada verso la parificazione fra uomini e donne nel ciclismo. Già, perché la questione è ormai dibattuta da anni e la consapevolezza maggiore in gruppo è che non possa essere questa la via per migliorare la condizione del ciclismo femminile. Tra l'altro, proprio Trek Segafredo negli scorsi mesi aveva innalzato a 40.045 euro la paga minima prevista per le proprie atlete, andando così a eguagliare quella prevista per gli uomini secondo le tabelle UCI. Le stesse tabelle prevedono per le donne una paga minima di 20.000 euro e una legge, attesa da molto tempo, dovrebbe intervenire per ristabilire la parità.

Il gesto lodevole di Tenyeri e dei donatori, se da un lato suscita ammirazione, dall'altro continua a lasciare l'amaro in bocca. Marta Bastianelli ci spiega: «Ringrazio di vero cuore tutti coloro che hanno donato e credetemi sono gesti che nessuna di noi potrà mai dimenticare. Però non posso fermarmi qui. Sono convinta che non si sarebbe mai dovuti arrivare a questo punto e che sia grave esserci arrivati. Abbiamo fatto un passo importante verso il ciclismo professionistico anche per noi donne, non possiamo perderci in queste cose. Ha detto bene Anna van der Breggen: è una vita che lottiamo per la parità salariale e di montepremi e ancora non è cambiato nulla. Per me e per le veterane del gruppo ormai non c'è più speranza di vedere questi risultati raggiunti mentre siamo in attività, spero solo ci sia per le più giovani. Siamo ancora troppo distanti dagli uomini e fa tanta tristezza pensarci. Credo che dovremmo ringraziare le atlete della Trek Segafredo perché, con la loro mossa, hanno scelto di essere lungimiranti e di fare qualcosa per il futuro di questo movimento. Spero che tutte assieme si riesca a portare un cambiamento».
Sofia Bertizzolo, raggiunta telefonicamente nel pomeriggio di ieri, aggiunge altri tasselli. «La situazione che si è creata ha fatto molto discutere e reso evidente, a chi ancora non la conoscesse, la condizione del ciclismo femminile. La stampa ha il dovere di parlarne per tenere accesi i riflettori su questa tematica. La soluzione non può essere nelle donazioni, non è questo il sistema per andare a pareggiare i premi delle gare. I finanziamenti di cui ha bisogno il ciclismo femminile vanno usati in altro modo: in primis per aumentare la visibilità del nostro sport. Se le persone ci seguono, se la televisione e gli organi di informazione ci raccontano, si innesta un circolo virtuoso per cui i montepremi ed i salari aumentano di conseguenza. Se si tiene davvero al ciclismo femminile, chi di dovere deve dargli la possibilità di crescere, prima dei soldi». Le fa eco Soraya Paladin: «Sono onorata del gesto. Però sembra tanto di fare elemosina e credo che nessuna di noi lo voglia. Queste persone sono state davvero di cuore ma non è loro dovere intervenire per aiutarci, spetta ad altri. Così facendo il montepremi della Strade Bianche sarà eguagliato e tutti gli altri? Quello delle gare minori? Altra questione: alle squadre fuori dal circuito World Tour non pensa nessuno? Non si può pensare di proseguire e di crescere solo grazie alla benevolenza di poche persone, che normalmente nemmeno si occupano di ciclismo».
Katarzyna Niewiadoma si sofferma invece sul senso di cura e di attenzione che questo gesto mette in risalto. «È incredibile vedere quante persone hanno provato a prendersi cura di noi senza essere obbligate a farlo. Siamo rimaste tutte sorprese. Io, in particolare, sono rimasta meravigliata da quante persone siano interessate al movimento femminile. Sia chiaro: non dobbiamo aspettarci che il cambiamento, che tanto desideriamo, avvenga tramite donazioni, però siamo certe che quando avverrà, quando i media ci daranno più spazio e quando la nostra esposizione mediatica sarà maggiore, il pubblico sarà lì per noi. La gente è affezionata a noi, ce lo ha dimostrato. Solo a pensare a questo sto bene».
Alice Maria Arzuffi comprende benissimo questa sensazione di Niewiadoma, ma non riesce a nascondere una certa tristezza: «Il gesto è molto apprezzato e dimostra che i tifosi hanno capito bene la disparità che ci troviamo ad affrontare. Siamo nel 2021, negli ultimi anni siamo cresciute moltissimo, il nostro ciclismo non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello di sette, otto anni fa, ma ci vediamo ancora costrette a ricorrere alla solidarietà. Noi donne non chiediamo solidarietà. Noi vogliamo vengano riconosciuti i nostri meriti. Questo, per esempio, non avverrà mai fino a che le gare femminili verranno trasmesse in differita e solo per i chilometri finali. Ce ne rendiamo conto?».
Intanto uno studio di Damm Van Reeth, professore della Facoltà di Economia e Commercio di Leuven, ha sottolineato come in termini assoluti la gara femminile abbia raccolto più ascolti di quella maschile. In termini di cifre parliamo di uno share del 21,5% per le donne, contro il 18,6% per gli uomini. Ora bisogna passare ai fatti perché di parole se ne sono spese davvero troppe.
Foto in evidenza: Roberto Bettini/BettiniPhoto©2021
A testa alta nonostante tutto: intervista a Gianni Savio
Gianni Savio compirà settantatré anni fra poco più di un mese, il 16 aprile per l’esattezza. Quasi la metà di questo periodo, Savio lo ha trascorso nel ciclismo, da quel corso per team manager organizzato dalla Federazione Ciclistica Italiana a cui partecipò nel lontano 1985. Per questo le sue parole, mentre si siede al tavolo con noi, sono un pugno allo stomaco, in primis per i suoi collaboratori. «Non so se proseguirò, forse lascio il ciclismo».
La ferita che brucia è quella dell’esclusione della sua squadra, l’Androni Giocattoli-Sidermec, dal Giro d’Italia 2021 e a nulla sembrano servire le parole di chi, al suo fianco, gli riporta alla mente ciò che è riuscito a fare in questi anni nel ciclismo: scoprire nuovi talenti, ingaggiarli, regalargli una nuova vita qui, dopo averli scoperti in Sudamerica, certe volte ricostruirgli una carriera dopo periodi bui.
«Quello che dicono sarà anche vero, ma a cosa è servito? Se la squadra che ha fatto tutto questo non viene ritenuta degna di partecipare al Giro d’Italia, per chi abbiamo lavorato? Lo so, lo so, la gente se n’è accorta, la gente crede in noi ed io gliene sono grato, ma per mandare avanti una realtà di questo tipo servono sponsor importanti e gli sponsor guardano al calendario gare a cui si partecipa per finanziare un progetto. Fino a che si segue una logica meritocratica, ti rimetti in piedi e continui a tenere duro cercando di portare più risultati, se cade il merito, cade tutto. Diventa una lotta contro i mulini a vento e contro quelli si perde sempre».
Savio ce lo dice chiaramente: è il non essere in grado di trovare una motivazione logica a non farlo stare tranquillo. «Quando qualcuno mi spiegherà perché a noi è stata preferita la Vini Zabù, allora forse mi metterò il cuore in pace. Ma voglio una spiegazione oggettiva, perché io ragiono sui dati ed è dai dati che si valuta il merito. Il fatto che soggettivamente si sostenga di essere stata la migliore squadra in questa o quella circostanza è ininfluente. Anche io potrei dire così di Androni, e ne sono anche convinto, ma non lo faccio. Perché sarebbe una valutazione di parte. L’ho detto e lo ripeto: il problema non è tanto il mancato invito al Giro, il problema sono i criteri di scelta se portano a escludere una squadra che da quattro anni è la migliore italiana tanto della Ciclismo Cup, quanto del ranking Uci in favore di un team che in quella classifica è sempre arrivato dopo di noi».
Gianni Savio è un leone ferito, ma l’orgoglio non sente ragione. «Alla mia età non mi tiro più indietro di fronte a ciò che non è giusto. Credo la dignità sia un valore. Continuerò a difendere le mie ragioni anche se questo dovesse voler dire uscire dal ciclismo. A me piacciono le persone che possono camminare a testa alta e guardare tutti dritti negli occhi. Mi costa dolore immaginarmi lontano dal ciclismo, sia chiaro, ma non sono più disposto a tollerare l’ipocrisia di parte di questo mondo».
Accanto a Savio passa Simon Pellaud, gli mette una mano sulla spalla e lo saluta con un disarmante e disarmato: «Ciao Gianni». Savio lo ha soprannominato “Simonissimo” e ci racconta che con lui qualche battuta scappa sempre. Poi riprende: «Comunque non ho detto che smetto, ho detto che devo valutare». Il tono della voce cambia, come lo sguardo. «Se deciderò di non lasciare, sarà solo per questi ragazzi. Sono come figli per me e so quanto sarebbero dispiaciuti. Non devono essere loro a pagare questa situazione. Non ho nemmeno idea di cosa potrei fare se lasciassi il ciclismo. Io vivo pensando a loro. Quando qualcosa non va, mi sveglio la notte e rimugino, penso, programmo».
Stiamo per porre un’altra domanda, quando Savio estrae dalla tasca il telefono. «Guarda qui. L’altro giorno ho fatto gli auguri di compleanno a un mio atleta di qualche anno fa. Ecco la risposta: “Grazie Gianni. Sai che, se hai bisogno, puoi contare su di me”. Questo ti ripaga di tutti i sacrifici e ti convince a farne anche di più importanti, perché per questi ragazzi vale la pena».
Alla base del rapporto, ci spiega Savio, c’è l’onestà intellettuale. «Io metto sempre in guardia gli atleti dalle illusioni e dall’ossessione per la vittoria. Le illusioni ti intrappolano, non ti permettono di vedere la realtà: non c’è cosa peggiore per un uomo. L’ossessione per la vittoria è cosa diversa dal voler vincere, che è buona dote per uno sportivo. Quando si è ossessionati dalla vittoria si perde lucidità, qualche volta si è disposti a commettere errori intollerabili, pur di vincere. In certi casi si arriva a giocare sporco. Ho sempre detto chiaramente ai miei ragazzi sino a dove, secondo me, sarebbero potuti arrivare. Alcuni lo hanno accettato, altri hanno preferito correre da chi assecondava quelle illusioni. Credo poi i risultati parlino chiaro».
Intanto si continua per la propria strada e Gianni Savio ha già un pensiero fisso. «Ho scoperto un ragazzo che credo possa segnare il ciclismo dei prossimi anni: si chiama Santiago Umba e presto lo conosceranno tutti meglio. L’ho portato in Italia e sta iniziando a conoscere i meccanismi di questa squadra. In questi giorni sono molto arrabbiato, ma pensare alle possibilità di questo atleta mi rasserena. Sarebbe un peccato non poterlo seguire nella sua crescita. Vedremo».
Foto: Luigi Sestili
Quel sogno chiamato Olimpiade: intervista a Martina Alzini
Martina Alzini ha iniziato a vincere sin da quando era bambina. Aveva solo sette anni quando, nel 2004, al termine di una gara, un giornalista le chiese quale sarebbe stato il suo sogno. «Risposi di getto che da grande avrei voluto partecipare alle Olimpiadi. Mia madre non la prese molto bene. La sera, in disparte, mi disse: “Si tratta di umiltà, Martina. È come se, appena iniziato a lavorare, dicessi che sogni la pensione”. Insomma, da quel giorno non lo dissi più, ma se penso anche solo alla possibilità di essere a Tokyo, mi si rompe la voce e mi viene la pelle d’oca».
Con mamma, Martina non ha più parlato di quel giorno ed oggi, ridendo, ammette: «Sto aspettando il momento giusto per ricordarglielo. Se le cose vanno come spero, potrebbe non essere lontano». Parole da cui trapela felicità, perché, prima di tutto, Martina Alzini è una ragazza felice. Sarà perché, come dice lei, fa un lavoro che la fa sempre sentire a casa, in famiglia, perché la bicicletta è di famiglia. «A tre anni ho voluto che i miei nonni mi togliessero le rotelle dalla bicicletta e solo quel cortile sa quante ne ho combinate. Quando succede così, poi, ogni volta che riprendi in mano la bici, anche a centinaia di chilometri di distanza, la mente torna lì e tu ti senti ancora quella bambina».
La forza dei ricordi e le radici che hai piantato ti tengono stretta, anche se le cose, inevitabilmente, cambiano. «Si inizia per gioco ed è giusto così. Guai a togliere ai più piccoli le domeniche spensierate nei parchi o in gara. Se quando penseranno al ciclismo, penseranno a quei tempi, avranno sempre un bel ricordo e non lasceranno mai la bicicletta. A volte la detesteranno, come accade a me, ma torneranno sempre in sella. Quei giorni gli daranno la forza per andare oltre».
Ed è proprio negli istanti di odio verso il proprio sport che nasce la consapevolezza. «Non è facile arrivare nel gruppo delle élite. Devi confrontarti con delle campionesse, con ragazze molto più grandi di te, a volte con mamme. Devi riconoscere i tuoi limiti, altrimenti la vita te li sbatte in faccia. Certo non è semplice ammettere che non sei portata per una certa gara o che quello che hai sempre sognato in realtà non è realizzabile, tuttavia, se non hai il coraggio di dirti la verità, non cresci». Crescere, per Alzini, vuol anche dire essere coraggiosi, imparare ad accogliere le critiche ed i consigli in maniera costruttiva. «Ho avuto la fortuna di crescere “sportivamente” con Marta Bastianelli. Lei è madre, non so come fosse prima della nascita di Clarissa, so com’è oggi ed è per questo che la chiamo “mamma Marta”. Sa insegnare con una cura rara, se hai voglia di imparare, solo guardandola diventi grande».
Crescere è faticoso, ti impone arbitrarie verità ma anche nuove possibilità. «Da giovanissimi si desidera tutto ed i sogni sono una sorta di massa informe, da adulti, forse, se ne hanno meno e molte ambizioni si lasciano per strada, ma i sogni che restano hanno una forma ben chiara, diventano progetti ed inizi a lavorarci». Lo zio di Martina gestisce una squadra di paraciclisti in handbike e lei ha imparato a lavorare in un certo modo proprio osservando loro. «Ho iniziato a conoscerli quando avevo solo pochi anni e a forza di vederli ho fatto mio un poco del loro modo di essere. Io dico che hanno una voglia incredibile di raggiungere dei traguardi. Ecco, a noi ogni tanto questo manca. Così passiamo il tempo a lamentarci, senza averne alcun diritto, perché siamo fortunati, solo che non lo vediamo».
Il suo lavoro è iniziato dalla pista, da un velodromo di Busto Garolfo, per poi transitare da Montichiari. Forse sarà proprio la pista a portarla a Tokyo, ma non è questo il motivo per cui Alzini la consiglia a tutti i genitori. «Io ho iniziato a girare in pista perché potevo pedalare tranquillamente senza la presenza delle auto. L’insicurezza stradale porta molti ad allontanarsi dal ciclismo. Perché non torniamo nei velodromi o nei boschi in mountain bike? Quando si prende confidenza con il mezzo, si va anche in strada».
L’Olimpiade, in ogni caso, sarà un tassello importante ma non un punto di arrivo. Martina è chiara: «Sarà una base per continuare a costruire con più convinzione, non un motivo per sedersi sugli allori. Non fa parte del mio carattere». Qui l’affondo: “Io non sono solo la ragazza che vedete sui pedali. La mia realtà quotidiana è ricca di sfumature, come il mio carattere. In bici sembriamo tutte forti, grintose, senza paure. Non lo siamo ed è bene ricordarselo e ricordarlo».
Fin dai tempi delle superiori Martina Alzini amava lo studio delle lingue e si immaginava viaggiatrice, una volta adulta. Oggi, che grazie al ciclismo ha viaggiato e continua a viaggiare, sa qualcosa in più. «Quando sei abituata a viaggiare, perdi la brutta abitudine, che spesso si ha, di giudicare “normali” o “corretti” solo i comportamenti che sei abituata a conoscere. Ti rendi conto che molte volte noi stessi sembriamo strani agli altri e capisci quanto si possa soffrire a essere considerati diversi. Viaggiare è una delle più grandi possibilità di comprensione della realtà che l’uomo ha».
Foto: Paolo Penni Martelli
L'attesa della Strade Bianche
Se Elisa Longo Borghini fosse uno stato d’animo, sarebbe la leggerezza, quella di Italo Calvino, quella che consente di «planare sulle cose dall’alto, senza avere macigni sul cuore». Mancano poche ore alla partenza della “Strade Bianche” e lei è estremamente serena. «Voglio divertirmi come facevo da ragazzina, voglio godermela questa gara». Sarà per questa leggerezza, preservata nonostante i successi, le aspettative e anche gli anni che passano, che sentire Elisa raccontare gli sterrati senesi è un’esperienza da consigliare. «Ho anche vinto qui, ma il feeling che ho con queste strade non dipende da quello. Me la sono sempre immaginata come una classica del Nord staccata e accompagnata in Toscana. Quando sali sullo strappo di Santa Caterina, capisci cosa sia questa terra. Senti la storia, l’arte, la musica, è un’emozione rara».
Giorgia Bronzini, suo Direttore Sportivo, ci dice subito che deve ringraziare Elisa, poi continua: «Noi abbiamo anche corso assieme ed in queste situazioni è facile chiedere qualcosa in più e comportarsi in maniera diversa dalle altre atlete facendo leva sull’amicizia. Elisa chiede informazioni tramite mail come da protocollo di squadra, questo per dire della sua professionalità. Oggi lavoreremo per lei».
La variante principale considerata da Bronzini è quella legata al meteo. «Bastano poche gocce d’acqua e la situazione qui cambia repentinamente. Se pioverà la gara sarà più dura e molti disegni tattici potrebbero andare in fumo. Non so se per noi possa essere meglio o peggio, bisogna essere pronti ed elastici nel cambiare tattica. Sinceramente mi auguro solo che sia una gara aperta a più squadre. Una gara movimentata sin dall’inizio, per noi ed anche per il pubblico che ci guarderà da casa, non potendo stare in strada». Il punto cruciale? Elisa Longo Borghini non ha dubbi: Le Tolfe. «Probabilmente sembra assurdo detto da me, ma quel tratto di sterrato mi piace particolarmente. Lì me ne capita sempre qualcuna e spesso questo mi pregiudica la vittoria. Mi spiace, ma resta la bellezza. Sembra di essere in un’arena, la miccia si accende e la corsa esplode».
Intanto Giorgia Bronzini pensa alle possibili rivali e lo fa analizzando le prove viste sino ad ora. «Se parliamo per valori assoluti non si possono non citare van Vleuten e van der Breggen. In gara, poi, possono esserci circostanze sfavorevoli per cui non si ottengono risultati, ma restano le migliori. Non si possono sottovalutare. Se invece vogliamo vedere le ultime evidenze, credo siano da marcare strette le atlete della SD Worx. Hanno una cadenza e una continuità non scontata considerando che siamo solo a marzo».
In ogni caso la “Strade Bianche” sarà una briciola di quasi normalità in un periodo in cui la normalità manca a tutti. «Sai, è ancora tutto strano – spiega Longo Borghini – però si sente che è primavera, che le corse si disputano nel loro periodo e questo un poco rassicura, ci fa pensare che le cose possono sistemarsi». Giorgia Bronzini è stata campionessa del mondo, ma è la prima a confessare che una stagione come quella appena trascorsa l’avrebbe vista in seria difficoltà. «Credo che dobbiamo guardarci negli occhi ed essere grate per il fatto che fra poco partiamo e abbiamo la possibilità di fare il nostro lavoro. Ci sono tante persone, tanti amici, che non possono farlo e sono distrutti. E non è solo un discorso economico, c’è di più».
L’indole diversa di Bronzini e Longo Borghini emerge sul finire della chiacchierata quando si parla di sterrato e di modi per affrontarlo. L’istinto di Elisa e la tattica ragionata di Giorgia si incontrano a metà strada. Longo Borghini parla da atleta navigata: «Sono abbastanza brutale in questo: io sullo sterrato pedalo, ma non so spiegarti il modo in cui pedalare. Mi viene naturale, lo faccio senza pensare troppo e i risultati arrivano. Potrei dire che è qualcosa di faticoso ma spontaneo». Giorgia Bronzini, invece, ha la visuale di un’ex atleta e ti racconta lo sterrato come se dovessi affrontarlo in prima persona. «Devi scegliere chi comanda. Vuoi essere tu a decidere che traiettoria prendere o accetti che sia lo sterrato a farlo per te? Se vuoi decidere, devi aggredire quella terra. Sicuro, deciso, ma non rigido. Se l’aggressività si tramuta in rigidità, la bici non va più avanti. I muscoli devono essere sciolti. In fondo, lo sterrato è una questione di equilibrio». Ora, però, basta chiacchiere, le atlete stanno per essere chiamate sul palco. Si parte!
Foto: Valerio Pagni/BettiniPhoto©2020
In Egitto per conoscere mio padre
Dopo più di un anno, Omar Mohamed Ali e suo padre si sono incontrati oggi all'aeroporto del Cairo e per più di tre settimane viaggeranno assieme nelle loro terre originarie, quelle d'Egitto. Omar correrà e pedalerà, papà lo aspetterà insieme alla squadra di supporto e al pomeriggio chiacchiererà con lui e visiterà città. In fondo è stato proprio papà a volere questo viaggio assieme. «Quando gli ho telefonato e gli ho detto che avevo intenzione di partire alla volta dell'Egitto, mi ha subito detto che, se fossi partito, lui sarebbe stato al mio fianco». Fino a qui potrebbe essere una storia come tante altre, invece no, perché Omar e papà sono stati lontani per troppo tempo e ancora oggi non si conoscono pienamente.
«Oggi so che la storia di mio padre è la storia di un uomo a caccia dei propri sogni. Da bambino non potevo neppure immaginarlo e avrei voluto fosse come tutti i genitori dei miei compagni di classe: quelli che andavano in campeggio, in montagna e al mare con i figli. Lui no, lui non c'era mai. Sono stato arrabbiato molti anni con lui poi ho capito che non avrebbe mai potuto essere come loro. Papà veniva da un paese povero, aveva combattuto la guerra del Sinai, l'aveva persa, e prima di conoscere mamma viveva in Inghilterra. Lì dove sarebbe tornato dopo il divorzio. Era consulente finanziario e in quegli anni nessuno qui avrebbe affidato i propri risparmi a un uomo di colore». Omar racconta che papà è cambiato, dice che la vera avventura sarà la riscoperta di quest'uomo e pensa alle domande che vorrebbe fargli.
«Nonostante tutto, in quegli anni ha mantenuto cinque persone. Da bambino quando mamma e papà si lasciano tu stai istintivamente dalla parte della mamma perché cresci con lei, papà è colui che ti ha abbandonato. Non è così. Mio padre, diventando anziano, ha sentito sempre più la mancanza della propria famiglia, è diabetico e in Inghilterra ha tutto, ma noi gli manchiamo. Vorrei chiedergli tante cose ma ho anche paura perché con lui non ho la confidenza tipica dei figli con i padri. Magari, se troverò il momento, gli chiederò se abbia mai pensato di rifarsi una famiglia. Lo vorrei sapere da tanto».
Il viaggio partirà da El Alamein. «Sono stato militare, andrò al sacrario e lascerò il mio cappello da alpino. Lo sento come un dovere. In fondo, El Alamein è una parte di Italia, in terra egiziana, dove durante la guerra hanno perso la vita troppe persone». Poi ci si sposterà verso Alessandria d'Egitto, la città natale del padre di Omar. «L'ultima volta che sono stato ad Alessandria era il 1992, per le vacanze d'agosto, a casa della nonna. Quell'anno ci fu il terremoto, la piramide di Giza venne danneggiata, e noi tornammo a casa solo a ottobre inoltrato perché i voli erano sospesi. La casa di mia nonna subì dei danni e pendeva da un lato, così, per far stare dritto il letto e riuscire a dormire, gli mettevamo dei libri sotto». Da qui, Omar si muoverà verso il Cairo e poi verso l'Oasi desertica di Bahareya. «Sarà una strada desertica di 400 chilometri. Farò circa 50 chilometri al giorno e ne uscirò in otto giorni. A fianco a me scorreranno due deserti: quello bianco, calcareo, di pietre e il “grande mare di sabbia” del deserto occidentale». E via verso l'oasi di Dakhla, di Kargha e finalmente Luxor, la Valle dei Re. L'ultima tappa, ad oggi, sarà Aswan, ma Omar confessa che, in fondo, gli piacerebbe arrivare ad Abu Simbel e, se ne avrà modo, ci proverà.
La domanda viene naturale: qual è la cosa che più ti spaventa? «Perdermi in mezzo al deserto. In Oman, nel 2019, mi successe, ma non ero solo. Qui, nonostante la squadra di supporto, passerò ore e ore da solo e quindi la paura è maggiore ma, come dico sempre io, se hai un obiettivo, lui ha te. Difficilmente ti perderai, se credi a questo. Forse è così che ho scelto il minimalismo, nello sport come nella vita. Non serve molto per farcela». In realtà c'è un'altra cosa a cui Omar crede e che lo aiuta: il destino. Ci crede da quella volta in cui papà gli raccontò della sua guerra. «Me ne parlò solo una volta e si vedeva quanto soffriva. Una spia israeliana fece attaccare la postazione di mio padre: molti rimasero feriti, un suo compagno gli chiese dell'acqua e papà andò alla base a prendergliela. In quegli istanti la postazione venne rasa al suolo. Papà riuscì a tornare a casa a piedi con altri diciassette compagni. Si nascosero fra i corpi dei soldati uccisi e si sporcarono di sangue per non farsi riconoscere. Due israeliani si fermarono proprio sopra il suo corpo, uno gli tirò un calcio: “È morto anche questo”. E proseguirono. Papà mi dice sempre che bisogna credere nel destino, che quando ci succede qualcosa di brutto è solo perché ci aspetta qualcosa di meglio. Lui ha passato tre terremoti, un uragano, la guerra, il Covid ed ha ancora voglia di scoprire, di viaggiare, di conoscere. Noi diciamo che ha la pelle del coccodrillo del Nilo, tanto è forte. Forse è il caso di ascoltarlo. Forse è proprio perché ho lui davanti che riesco a credere nel destino».
La Colombia e la fuga: intervista a Simon Pellaud
Il 15 ottobre 2020, la dodicesima tappa del Giro d'Italia parte e arriva a Cesenatico. Il cielo è plumbeo, fa freddo, in alcuni tratti pioviggina, i primi rigori dell'autunno si fanno sentire. Simon Pellaud, Androni Giocattoli Sidermec, è in fuga dal primo mattino, ad un certo punto alla sua mente ritorna la Colombia e il sapore del boccadillo, un gel zuccherino alla frutta. Ne cerca una bustina nelle tasche posteriori della maglia ma non c'è. Alla sera, al ritorno in hotel, visibilmente provato dal freddo, chiederà al suo massaggiatore di mettergliene diverse bustine in tasca: il giorno dopo, verso Monselice, tornerà a scattare.
«In quella fuga c'era un ragazzo colombiano dell'Astana. In un tratto tranquillo mi sono avvicinato a lui e gli ho chiesto se gli mancasse la Colombia. Mi ha detto di sì, me lo ha detto in un modo particolare, mi ha chiamato “fratello”. Ho preso una di quelle bustine e gliel'ho passata: "Assaggia questa, ti sentirai a casa". Appena ha sentito quel sapore, ha fatto un sorriso a trentadue denti. La Colombia era tutta lì». Per Simon Pellaud l'avventura è la libertà di un viaggio ed il suo viaggio in libertà è il ciclismo. «Grazie al ciclismo ho imparato cinque lingue, sono stato in venti diverse nazioni, l'ultima è il Venezuela, ho conosciuto tante persone e ho imparato l'umiltà. Ho abitato in Svizzera, lì c'è tutto, di più, c'è il meglio di tutto: io sono andato via per andare a vivere in Colombia, in una casetta senza il gas, con una stufa e quel poco di acqua calda che serviva per lavarsi. In una casa con solo un tetto e poco altro». Eppure lì Pellaud è felice.
Ad essere felice, Simon aveva imparato qualche anno prima. «Correvo con la IAM Cycling ed avevo un futuro assicurato. Eppure terminavo le gare, arrivavo ventesimo, e sentivo che se quella mattina non avessi preso il via sarebbe stato lo stesso. Quando ho rescisso il contratto, sono stato diversi mesi senza lavoro, non dormivo la notte e mi era anche passata la fame». Simon Pellaud riparte con il Team illuminate, una squadra brasiliana che si sostiene grazie a una raccolta di fondi ed oggi racconta che da quel giorno per lui è iniziata un'altra vita. «In Colombia dicono che è merito “dell'aiuto de Dios”. Io questo non posso saperlo, io so che in quei mesi sono andato a vivere in montagna, lontano da tutto e da tutti, con accanto solo le persone che amavo. Stando da solo ho capito che potevo ripartire e diventare l'uomo che avrei voluto essere».
La parole chiave è una: fuga. «Ognuno di noi ha una chiave per diventare qualcuno. Io non sono un campione, difficilmente vincerò molte gare in vita mia, ma non è questo a spaventarmi. A me spaventa l'idea di essere anonimo, di restare fermo, di non fare nulla ed aspettare lo scorrere del tempo e con questo la fine della carriera. Per questo esco dal gruppo, mi faccio vedere, mi sento vivo. Magari vincerò una sola gara o forse neanche quella, ma esserci non sarà stato inutile».
Simon Pellaud sostiene che il bello della conoscenza sia il fatto che «puoi prendere qualunque cosa e farla tua, utilizzarla per la tua vita, per stare meglio, perché non c'è un diritto privato della conoscenza». Ma, per conoscere, è necessario uscire dalla propria galassia, anche temporaneamente, anche solo per un attimo. «Nessuno conoscerebbe bene il proprio pianeta se non lo vedesse dallo spazio, dall'esterno. Viaggiare è importante perché ti consente di vedere da fuori una realtà che altrimenti rischia di anestetizzarti». Pellaud se ne è accorto a Monselice, sì, proprio nel giorno in cui è sceso di sella mentre il gruppo lo riassorbiva e ha iniziato ad applaudire i suoi compagni.
«Il mio è stato istinto puro, non sapevo nemmeno che ci fosse una telecamera. Sono sceso di sella per permettere al gruppo di passare su una rampa molto ripida e ho applaudito perché mi è venuto spontaneo. Mi sono sentito come mi sentivo quindici anni fa quando i miei genitori mi portavano alle corse, con la stessa forma di entusiasmo. Quando sono tornato a pedalare ero staccato, sfinito e dovevo andare all'arrivo da solo. Non mi interessava, ero contento».
Foto: Luigi Sestili
Verso Tokyo e oltre: intervista a Dino Salvoldi
L’esplosione della pandemia da Sars-Cov2, la scorsa primavera, ha scombussolato anche i piani della nazionale italiana femminile su pista, il tutto alla vigilia delle Olimpiadi di Tokyo, poi slittate al 2021. Non appena è stato possibile tornare ad allenarsi a Montichiari, Dino Salvoldi, C.T. della nazionale, ed il suo staff, hanno avuto subito chiara la necessità di variare l’intensità degli allenamenti. Ed è proprio da qui che siamo partiti, quando, durante il raduno del 24 febbraio al velodromo di Montichiari, il C.T. ha approfondito con noi lo stato dell’arte della pista femminile, in questa stagione divenuta per cause di forza maggiore, anno olimpico. «In questo periodo tutto ciò che si programma deve tenere presente un calendario in continua modificazione. Se è vero che l’Olimpiade è il traguardo finale, è altrettanto vero che gli step per raggiungerla nella miglior condizione possibile passano tanto attraverso gli allenamenti quanto attraverso le competizioni ed entrambi sono essenziali per mantenere alto sia il livello tecnico-tattico che quello più prettamente prestazionale».
Per quanto concerne il primo punto, Salvoldi si ritiene soddisfatto degli accordi raggiunti con le squadre delle ragazze: durante la settimana i team danno piena disponibilità alla federazione per i raduni, di durata più breve, e durante il fine settimana la federazione si impegna a favorire lo svolgimento delle gare con i club di appartenenza.
«Si tratta di un fattore storico, nessuna invidia per l’erba del vicino ma le situazioni sono differenti. Nazioni come Stati Uniti, Canada e Australia, le potenze della pista, hanno una squadra che lavora tutto l’anno insieme e che dà priorità alla pista. Da noi questo non è possibile in quanto la prevalenza della strada si fa sentire. Bisogna accettare questa situazione e lavorare con più intensità dove necessario. Soprattutto, dopo che durante il primo lockdown, con l’uso e talvolta l’abuso di cicloergometri e rulli si sono verificati importanti squilibri fra chi si era allenato troppo e chi si era allenato troppo poco». Questa intensità Salvoldi la traduce tanto in un aumento del numero di raduni, quanto in una spiccata attenzione ai dettagli tecnici che possa, almeno momentaneamente, supplire al secondo punto, ovvero al calendario scarno. «Stiamo lavorando sul quartetto, con allenamenti di squadra che potenzino la resistenza. Nel mentre simuliamo anche frazioni di gara, per valutare la forma fisica, compatibilmente con il periodo dell’anno in cui ci troviamo. Dall’altra parte, invece, ci concentriamo sulle qualità aerobiche e sul gesto tattico. La nostra squadra ha un livello molto elevato e la simulazione di una gara internazionale in velodromo non si disgiunge molto dalla realtà». Il calendario ha già fatto segnare i primi rinvii: i campionati europei su pista previsti per febbraio saranno a giugno, mentre le prove di Nation Cup previste, una al mese, da aprile a giugno sono ancora incerte. In più mancano tutte le gare di Madison che si sarebbero dovute tenere in Europa e che subiscono cancellazioni quasi quotidianamente.

«Questo per noi è un grosso problema. Il talento qui abbonda ed i risultati parlano per noi, a scarseggiare è l’esperienza. Si tratta di un gruppo molto giovane ed in questi casi non c’è nulla come la specificità e la ripetitività di ogni singolo meccanismo per imparare. Più un’atleta è abituata ad un frangente di gara, più riesce a economizzare sul gesto tecnico, a risparmiare energie e nel contempo ad acquisire quell’occhio e quell’istinto che al cospetto delle eccellenze mondiali fanno la differenza. L’esperienza si acquisisce con lo scorrere del tempo e con gli errori, bisogna solo aspettare e non allentare l’attenzione». Nonostante questo, Dino Salvoldi lo dice in maniera chiara e schietta: non sono ammessi alibi ed è necessario farsi trovare pronti a qualunque situazione. «Non siamo gli unici ad essere in questa condizione, la pandemia ha colpito tutti. Per questo bisogna continuare a credere nel lavoro quotidiano insieme, dandosi dei traguardi a breve e a lungo termine. Il bicchiere lo vedo mezzo pieno e credo tutti abbiano questo dovere. Per assurdo questo rinvio delle Olimpiadi potrebbe non essere un male: in questo anno il gruppo si è ampliato, sono arrivate ragazze nuove che stanno crescendo con noi. Per fare dei nomi: atlete come Chiara Consonni e Silvia Zanardi, che un anno fa non avrebbero avuto alcuna possibilità di convocazione, oggi sono fra le papabili azzurre olimpiche».
Questo, però, continua Salvoldi non deve indurre in un errore comunque grave. «Quando mi chiedono cosa mi aspetto dalla Olimpiadi di Tokyo rispondo sempre che per noi devono essere un passaggio chiave in vista di Parigi. Non sappiamo neanche noi cosa possiamo fare esattamente. Nel quartetto credo che si sia indietro rispetto ad altre nazioni. Per quanto concerne invece Madison e Omnium il livello è già pienamente soddisfacente. Il punto cruciale sono le altre discipline veloci che al momento, stante il regolamento in vigore, non ci permettono di avere atlete al via. Questi allenamenti servono anche a potenziare quegli aspetti e a far vedere quanto possiamo dare. La giovane età si fa sentire anche in questo frangente». Il gruppo ha un’età media molto bassa, basti pensare che la ragazza con più esperienza è Maria Giulia Confalonieri che ha appena ventotto anni, ma si conosce e lavora assieme da molto tempo, per Salvoldi questo è un punto a favore delle azzurre.

«L’età similare consente a queste ragazze di attraversare fasi di vita quasi identiche, per questo si capiscono in pista ma, ancor prima, condividono aspetti di vita quotidiana. In ambito internazionale questa conoscenza agevola molto il lavoro». Non solo la conoscenza è affinata fra le ragazze stesse, ma anche con Salvoldi, ormai, si è stabilito un rapporto professionale consolidato. «Alcune di loro le conosco da quando avevano quindici anni. Le squadre cambiano, le compagne cambiano, la nazionale è sempre rimasta un punto fermo. Siamo cambiati assieme e forse per questo ci capiamo meglio. La chiave di tutto risiede nell’estrema franchezza nel dire le cose». Dino Salvoldi non si nasconde, il momento che ancora oggi lo spaventa maggiormente è quello delle convocazioni, le notti prima dell’ufficializzazione delle scelte il sonno fatica a venire. «Le decisioni le comunico singolarmente e cerco di apportare motivazioni che possano farle comprendere se non accettare. Certe volte ci si muove su un filo sottilissimo e la differenza è fatta da sensazioni e possibili svolgimenti di gara, per cui è anche più difficile spiegare. La consapevolezza è indispensabile: la ragazza che non viene scelta sa che la decisione è stata presa secondo criteri di correttezza ma sa anche che in qualsiasi altra nazionale non solo sarebbe stata scelta, ma probabilmente anche medagliata. L’esclusione non si accetta mai pienamente, ma così si rende sopportabile». Il C.T. spiega sempre alle atlete che l’esclusione non è personale o irrimediabile, riguarda solo l’appuntamento specifico. «Cerco di convincerle a focalizzarsi su altri traguardi e le sfido a farmi cambiare idea».
C’è un’altra parola chiave che Dino Salvoldi utilizza in vista delle Olimpiadi: rischio accettato. «Per i discorsi fatti sino ad ora, si potrebbe essere indotti a credere che, visto il livello alto, saranno sempre scelte le migliori in assoluto. Se fosse così, correrebbero sempre le stesse atlete. Ogni commissario tecnico sa che, se vuole far crescere la squadra, ha il dovere di correre alcuni rischi calcolati per permettere a tutte le atlete di gareggiare. Altrimenti si potenziano solo i risultati delle eccellenze e non si aiutano le altre a migliorare. Dobbiamo anche pensare che per queste ragazze la nazionale vuol dire visibilità ed i successi ottenuti con la nazionale sono quelli che consentono i maggiori salti di livello anche nelle squadre di club. Se avranno pazienza e continueranno a migliorare, tutte queste atlete sono destinate a grandi traguardi».
In questa comunicazione, l’esperienza è la base. «Io vengo dagli anni di Antonella Bellutti, un’atleta straordinaria, con numeri assurdi. Per questo, almeno all’inizio, ero portato a scegliere molto sulla base dei numeri. Negli anni ho capito che quei tempi non erano più replicabili e che le scelte avrebbero dovuto sempre prendere in considerazione il lato umano e motivazionale. Ci sono caratteristiche caratteriali personali simili in ragazze e ragazzi. Poi ci sono caratteristiche che pertengono specificamente alla sensibilità femminile: gli errori vanno comunicati con maggiore tatto, con vicinanza e soprattutto con un linguaggio diverso, altrimenti i danni sono irreparabili». Salvoldi dà un rapido sguardo alle ragazze che nel frattempo si sono preparate per continuare l’allenamento, ci saluta, si alza, va al tavolo predisposto al centro del velodromo ed inizia a spiegare la prossima fase della preparazione: venerdì 23 luglio 2021, il giorno di inizio dell’Olimpiade, si avvicina sempre più e non c’è tempo da perdere.
Foto: Paolo Penni Martelli
La nebbia si è dissolta: intervista a Marta Cavalli
Qualcosa attorno a Marta Cavalli è cambiato, ma prima di tutto è cambiata Marta Cavalli. «Non molto tempo fa, ho sentito papà e mamma dire: “Guarda Marta, come è cresciuta!”. Loro mi hanno sempre appoggiato in quello che volevo fare, ora però c’è qualcosa di diverso. Ora mi hanno lasciata libera, mi guardano da lontano e sono fieri del mio lavoro perché “Marta è grande e si gestisce da sola, sceglie da sola”. La chiave è stata il mio passaggio alla Fdj – Nouvelle Aquitaine – Futuroscope: è come se, dal mio arrivo qui, avessero capito che ce l’ho fatta».
Marta Cavalli è orgogliosa, perché, come ci racconta, questo è il momento in cui i figli sono più felici. E pensare che questo cambiamento di squadra è nato per caso, da una battuta, perché Cavalli non è mai stata una ragazza dai cambi repentini, dall’istinto feroce, quando Marta doveva scegliere c’era sempre la voce della coscienza che le diceva di aspettare, che ci sarebbe stato tempo, che negli undici anni in Valcar era cresciuta molto e non c’era motivo di rivoluzionare tutto. «Io vivo a Cremona e qui la nebbia è di casa. Mi piace dire che è come se ad un tratto fossi uscita da un banco di nebbia e mi fossi resa conto che era il momento di provare. Sai, io ero una di quelle ragazze che, per timidezza, non parlava nemmeno con le compagne, il ciclismo mi ha aiutato a sciogliere questa difficoltà perché mi ha scaraventato in alcune situazioni e lì devi cavartela da sola. Credo sia stata anche questa crescita a darmi il coraggio di lasciare la porta aperta ad altre strade. L’incredibile è che come ho accettato di mettermi in discussione, ho visto quante opportunità c’erano, quante squadre mi cercavano».
A fine estate Marta Cavalli parla con il Team manager della Fdj. «Fino a quel momento avevo trovato tante squadre che mi elencavano traguardi da raggiungere. In Fdj non mi hanno parlato solo di un obiettivo mi hanno indicato una strada da percorrere e da raggiungere, nel lungo termine, a fine 2022. La differenza è profonda: nelle squadre in cui si parla solo di gare da vincere o di piazzamenti da conseguire, tu sei trattata come una regina sino a che le cose vanno bene, come sbagli, come perdi qualche colpo, corrono a fartelo presente, a dirti che loro ti pagano per fare risultati e non c’è tempo, quei risultati devi farli subito. Tu sei già in crisi perché non stai bene, discorsi di questo tipo ti gettano nell’ansia e nello sconforto. Dove, invece, c’è un percorso, c’è serenità, perché non sei sottoposta a un continuo banco di prova: sai che devi lavorare duro, ma c’è tutto il tempo per farlo. Le persone intorno a te non cambiano atteggiamento nei tuoi confronti se sbagli, perché vogliono accompagnarti e l’errore è parte del processo di crescita».
Per crescere e sopportare gli errori bisogna affrontarli nel modo corretto, a questo servono le tante riunioni con i direttori sportivi del team: «Ci hanno subito detto che a loro non interessa di chi è l’errore. L’importante non è chi sbaglia, l’importante è l’atteggiamento da cambiare. Così, nelle riunioni, non si fa nemmeno un nome. Si parla di scelte, di strategie, anche di errori, ma non di persone da mettere alla berlina perché protagoniste di quegli errori».
Ogni tanto, durante queste riunioni, l’attenzione delle ragazze è disturbata da Cecilie Uttrup Ludwig. «Cecilie chiacchiera continuamente, è l’opposto della studentessa modello. La riprendono e lei scoppia a ridere, poi ridiamo tutte e la riunione si ferma. È esattamente come la vedete, con tutte le sue facce buffe. Ogni tanto sbaglio qualche verbo in inglese e mi guarda stranita, ma mi fa morire dal ridere. Può esserci vento forte, acqua, freddo, lei è felice e ci dice: “Pensate che goduria la doccia calda dopo”. Che maschera!». Marta Cavalli racconta che, forse, questo è l’atteggiamento tipico delle ragazze nordiche. «Hanno una particolare delicatezza nel vivere questo lavoro. Al termine di un allenamento, Emilia Fahlin ci ha prese da parte: “Ragazze, ora devo dirvi una cosa. Però dovete sapere che non c’è nulla di male, che non è un rimprovero, voglio parlarvi perché se parliamo va tutto meglio e siamo tutte più serene”. Capisci il tatto? Per un carattere come il mio è fondamentale».
Quando parla di queste attenzioni, Cavalli si illumina, come quando parla di sua sorella minore, Irene. «Lei è l’opposto di me e forse per questo andiamo così d’accordo. Solo fino a qualche anno fa, ero io che le riservavo le migliori attenzioni. Un mese fa, siamo state assieme a Sanremo, io uscivo al mattino per l’allenamento e lei stava in casa a sistemare tutto. Mi faceva trovare la pasta pronta, mi comprava ogni cosa di cui avessi bisogno, mi coccolava. Non è scontato. Può capitare di pensare che chi fa ciclismo pedali solo, di non rendersi conto dei sacrifici che impone questo lavoro. Se lo pensano gli estranei, te ne fai una ragione, ma se lo pensa qualcuno di casa ci stai davvero male. In quei giorni, ho visto che anche la mia “piccola sorellina” è diventata grande e ha capito tutto quello che le raccontavo quando mamma mi chiedeva di farle fare merenda e di proteggerla. Irene è il mio orgoglio».
Cavalli non ha dubbi sull’atleta che è e che vuole essere: «Sono una ciclista da classiche, da gare dure, con pavè e sterrato. Ora sono molto magra, molto esile, vorrei costruirmi una corporatura più possente, come Marianne Vos, Chantal Blaak e van der Breggen. Nel ciclismo di oggi è quello il fisico che ci vuole. Più in generale vorrei essere un modello per le ragazze più giovani. A me dicevano sempre: «Elisa Longo Borghini è nel posto giusto, Tu guardala e segui la sua ruota». Ecco, vorrei che, fra qualche anno, un direttore sportivo dicesse questo di me».
Foto: Thomas Maheux – per gentile concessione di Marta Cavalli
Un giorno sul lettino dei massaggi
Michele De Biasi, il massaggiatore della Bardiani Csf Faizanè, è sempre stato un attento osservatore. Ha capito così che tutto, ma proprio tutto, passa dai dettagli. Soprattutto ha capito che bisogna avere il coraggio di credere ai dettagli anche quando sembrano una parte trascurabile del tutto. «Quando arriva da te, sul tuo lettino, un ragazzo che ha fatto duecento chilometri in bicicletta c’è una cosa che devi fare prima di tutte le altre. Una domanda, l’unica che hai il dovere di porre: come stai? Chiedere come sta con la vera volontà di conoscere il suo stato fisico ed il suo stato d’animo, è importantissimo. Te lo dirà? Alcuni si aprono e ti raccontano, altri non hanno voglia. Si tratta del carattere e della giornata. Non conta, tu devi chiederlo. Poi capirai iniziando a massaggiare, se ti ha detto la verità oppure no. Quando li conosci, i muscoli ti dicono tutto. Quella domanda però è importante perché permette al ragazzo di aprire una porta e di raccontare. A lui la scelta». De Biasi spiega che dopo quella domanda lascia che siano i ragazzi a scegliere come gestire quei quarantacinque, cinquanta, minuti di massaggio, perché «è giusto così». Una frase breve, secca, che viene subito ripresa e specificata.
«Tecnicamente tutti ti diranno che il massaggio serve per disintossicare i muscoli, per togliere le tossine e favorire il recupero muscolare dell’atleta. Vero, un massaggio ben fatto si percepisce subito. Se parli con un corridore affaticato prima e dopo il massaggio, ti descriverà sensazioni diverse. Il punto è che ci sono tossine tipiche dei muscoli e tossine tipiche della mente. Per recuperare da quelle, solo tu sai ciò che ti fa bene. Per alcuni è necessario parlare, sfogarsi, per altri basta il silenzio. In generale io dico che aiuta molto la leggerezza. Spesso non si capisce a fondo quanto anche una battuta possa fare bene. Il segreto è staccare la spina per “disintossicare” anche la mente».
De Biasi è arrivato al ciclismo solo quattro anni fa, per un caso, come per un caso era arrivato alla massofisioterapia dopo aver fatto studi da elettricista. «Tutti ti dicono: guarda che è tutto diverso, guarda che farai fatica, pensaci bene. Tu li ascolti ma, se sei come me, una volta che hai deciso non cambi più idea. Questo non significa che non abbia mai pensato di aver sbagliato o di tornare indietro. Ci ho messo un anno e mezzo ad ambientarmi, a capire ciò che era accaduto». In Bardiani lo chiamano Hellas: «Perché sono tifoso del Verona ma soprattutto perché ho lavorato con la squadra. Io arrivo dal calcio e dalla pallavolo. Sì, si tratta sempre di sport ma cambia tutto». Da un punto di vista mentale ma anche da un punto di vista tecnico.
«Dipende sempre dall’ambiente ma nel calcio, generalmente, avvertono il tuo lavoro quasi esclusivamente come un lavoro. Questi ragazzi sono proprio bravi, ti danno spazio, riconoscono il tuo spazio e ti ringraziano sempre. Alcuni ti chiedono anche qualche foto perché vogliono raccontare chi sei. Ti sono riconoscenti. Quelle foto le tengo da parte e le faccio vedere con orgoglio ai miei amici. In pubblico non le mostro, no. Si tratta di una forma di pudore e di rispetto. Prima parlavo della conoscenza che ti permette di capire molto senza chiedere. Ecco, la conoscenza passa anche da queste piccole forme di rispetto e di attenzione».
Poi ci sono le differenze che riguardano i tre sport. «Nel calcio il massaggio è tendenzialmente meno importante, c’è anche il cambio ritmo ma è più che altro corsa in linea. Alcuni calciatori non si sottopongono nemmeno sempre ai massaggi, sentono la necessità di terapie fisiche strumentali per traumi e tendiniti: laser, tecar e ultrasuoni. Discorso simile vale nella pallavolo per i bendaggi: gli atleti sono esperti e spesso provvedono autonomamente almeno per quanto riguarda le mani. Noi li aiutiamo con le caviglie. Il resto è riservato a trattamenti di scarico, consideriamo che si allenano tutti i pomeriggi e per almeno due mattine fanno pesi in palestra. Capisci la differenza con una gara a tappe? Cambia tutto».
Parlando di corse a tappe, De Biasi ritorna sulla conoscenza. «Non è facile lavorare su un corridore che non hai mai massaggiato. Se ti capita, lo fai ma sarebbe meglio avere affinato una certa conoscenza. Il massaggio è fatto anche di piccoli dettagli e di minuscole cure che il singolo gradisce. Scoprirlo in una corsa a tappe, in un momento difficile, non è l’ideale». I pre-ritiri sono l’ambiente in cui affinare questi dettagli, ma sono anche il luogo della sincerità e dell’accettazione. «Può succedere che un corridore si trovi meglio con un mio collega. Non deve diventare un fatto personale. Credo che tutti siamo qui per aiutare questi ragazzi, noi siamo il dietro le quinte. Non deve esserci invidia. Al primo posto c’è la squadra e perché la squadra funzioni bene è indispensabile la serenità dei singoli. Non può esserci serenità se i rapporti sono forzati o se non si ascoltano i bisogni dei corridori. Massaggiare è ascoltare, quando si ascolta, si capisce. Poi serve l’umiltà di scegliere e lasciar scegliere».
Foto: Paolo Penni Martelli
Tutte le avventure che possiamo immaginare
C’è stato un giorno in cui Manuel Vecchiato ha cambiato il proprio modo di vedere e di vivere la bicicletta, dopo anni in cui era stato in gruppo con tutta l’intenzione di diventare professionista. «Ricordo che, alle feste di fine anno scolastico, mentre gli altri bambini giocavano a calcio, io osservavo le persone in bicicletta che passavano fuori dal cortile della scuola. Mi chiedevo dove stessero andando e immaginavo i loro viaggi. E poi? Poi ho smesso di chiedermelo».
Manuel in quel momento smette di fare il corridore, ma non smette di andare in bicicletta. «Spesso si pensa che per vivere un’avventura sia necessario prendere un aereo, affrontare voli di molte ore e arrivare chissà dove. In realtà, se sai dove guardare, c’è una parte di avventura anche dietro casa tua». È da questa considerazione che inizia un altro tratto di storia per tre ragazzi: Manuel, Mirko ed Enrico.
«Abbiamo viaggiato molto e spesso abbiamo ideato da noi i nostri itinerari, disegnandoli. Così abbiamo pensato: perché non condividere con altri appassionati il nostro viaggio, la nostra avventura? La passione per la bicicletta è un qualcosa che accomuna molti e sono certo che tantissime persone si sorprendono a pensare a quanto sarebbe bello scalare quella montagna o affrontare quel viaggio. Non lo fanno per un semplice motivo: credono di non esserne all’altezza, di non avere le qualità fisiche per farlo. Hanno paura».
Wamii, questo è il nome della piattaforma, è una sorta di antidoto a questo timore, a questi dubbi. «Se ci siamo riusciti noi, vuol dire che chiunque può riuscirci. Sapere che qualcuno prima di te ha passato ciò che tu stai passando ora è sempre una forma di sicurezza. Il nostro, in fondo, è un modo per raccontare i tragitti dei nostri viaggi». È fine giugno 2020 quando circa venti tracciati, interamente situati in Veneto, vengono messi a disposizione del pubblico di appassionati. «Le persone sono spaventate dall’imprevedibilità. Dall’idea di arrivare ad un sentiero e di trovarlo bloccato, di non sapere dove passare. Magari di non avere un luogo dove trascorrere la notte, se il viaggio è di più giorni. Se racconti tutto questo, se dai indicazioni precise, le persone si buttano e scoprono che è bello. Poi magari le incontri, ti scrivono, e ti dicono che si sono sorprese perché pedalando su quel tragitto hanno visto uno squarcio che c’era sempre stato, ma che con la velocità quotidiana non avevano mai ammirato».
Così ad ogni viaggio è abbinata una struttura dove sostare per riposarsi e ad ogni struttura è abbinato un viaggio. «Quante volte capita di essere in hotel e di sentire qualcuno che chiede informazioni su luoghi vicini da visitare? Quando siamo spensierati, magari in vacanza, è il momento in cui osiamo maggiormente, noleggiamo una bicicletta e via». Perché alla fine un’avventura può partire anche dal caso, da un giorno in cui eri annoiato e non sapevi cosa fare. Nell’avventura, spiega Vecchiato, ci sono i valori della solitudine e anche della noia, cose indispensabili che rifuggiamo. «Alcune volte non servono guide, ci si può accompagnare da soli dove si vuole andare. Arrivare lì e dire: “Ce l’ho fatta! E ho fatto tutto da me”.»
Fra qualche tempo si aggiungerà una nuova sezione di itinerari e tra i punti di appoggio si inseriranno anche le cantine enogastronomiche. Ma Manuel, Mirko ed Enrico hanno in mente un progetto ben più grande. «Andiamo a parlare con i comuni, raccontiamo ciò che stiamo facendo e facciamo proposte. Tutti ascoltano interessati ma poi, complice la burocrazia e tutta una serie di situazioni di cui è inutile parlare qui, si fa sempre più fatica ad essere appoggiati in queste iniziative che favoriscono la ciclabilità. Forse perché non se ne comprende in pieno il valore. Forse perché non si è abituati a questa lettura della realtà. Oppure più probabilmente è la stessa burocrazia a rallentare tutto. La bicicletta non è solo un mezzo per spostarsi, è anche uno straordinario punto di vista per guardare il mondo, per conoscerlo, per scoprire territori e luoghi in cui si sta bene. Perché non pensare di passare sempre più tempo in sella? Perché non gustarsi sempre di più quel tempo? Basta immaginare e poi avere il coraggio di allacciare i pedali e partire».
Foto: Wamii