Tutto quello che dice la gente

Blanka Kata Vas è un gioco di contrasti. Probabilmente incontrandola in una qualunque città, anche nella sua, anche a Budapest, non immagineresti tante cose. Quella carnagione color pastello, quei tratti delicati e quelle gote che ad ogni sorriso si riscaldano, sono la sublimazione di ciò che Blanka è. C’è un qualcosa di leggiadro, qualcosa di armonioso in questa ragazza nata il 3 settembre del 2001. Come la sua stagione, quella che sfuma nei contorni dell’estate e pizzica l’aria del colore delle albicocche. Ciò che sembra è anche ciò che è, perché Blanka è così, non c’è inganno o maschera in lei. L’imbroglio può essere in chi la guarda o magari in chi sin da bambina l’ha vista, l’ha guardata. Perché come siamo, spesso, finisce per diventare un’imposizione. Se c’è una ragione per cui tante persone non si piacciono o non si piacciono più è per questo. Perché qualcuno vedendole ha iniziato a porre limiti, a porre confini, a cancellare le righe dell’immaginazione per stabilire quelle ferree di una rete. La rete che diventa ostacolo per l’osservato è in realtà la rete in cui è intrappolato l’osservatore. Un tranello difficile da spezzare perché per rompere quei fili e correre liberi dall’altra parte bisogna abituarsi alla bellezza dei contrasti, alla loro natura. E per abituarsi alla bellezza dei contrasti è necessario abbandonare il sonno della ragione che si adagia su ciò che ha sempre visto e diviene miope.

Parlare di Blanka Kata Vas, per noi, significa parlare di tutti quei ragazzi e di tutte quelle ragazze che in un qualche modo si sono sentiti dire: «Ma figurati se quel lavoro può fare per te. Cosa pensi di fare? Non illuderti. Non credere alle favole». E per chi dice così, chi ascolta è sempre “troppo” o “troppo poco”. Per carattere, per fisico, per capacità, anche per luogo di nascita. Il problema è che molti di fronte a queste obiezioni si tirano indietro, si fermano, credono di essere “troppo” o “troppo poco”. Vi ricordate la rete dell’osservatore? Ecco, ora è rete per l’osservato. Ed il peggio è che, se l’osservato non se ne libera, un domani, diventerà rete per i suoi figli, per i suoi nipoti, per qualunque bambino incontrerà e a cui dirà: «Vuoi fare questo? Ma non farmi ridere dai. Tu vai bene per fare quest’altro». Non c’è nulla da fare: se gli occhi non sono abituati a vedere oltre, ad ammirare il contrasto, non lo apprezzeranno mai. Il contrasto non è altro che possibilità, non è altro che una manciata di futuro. Contrasto può essere apparenza di constatai come tutto ciò che già è in noi e che noi non conosciamo. Forse perché non ci conosciamo. È scoprire che tutto ciò per cui ti dicevano che non ce l’avresti mai fatta, è ciò per cui ce la fai. Il contrasto è una rivendicazione, un rifiuto e un’accettazione: «Gli aspetti del mio carattere, del mio modo di fare e tutto il resto, non sono un limite a ciò che voglio fare, sino a che questo limite non lo pongo io. Perché non voglio farlo o perché non mi interessa».

Guardare Blanka Kata Vas in sella può essere un buon esercizio per abituarsi. Quella ragazza, quella stessa dalla pelle color tramonto e dai modi delicati, è nel suo luogo quando è su quella sella. C’è sintonia con quegli ingranaggi meccanici. Blanka è uguale e diversa quando sale su una bici da cross o da mountain bike, si modella sulle rughe del terreno che percorre. Lo guarda, lo scruta con un’attenzione che silenzia qualunque boato. Centimetro, dopo centimetro, dettaglio dopo dettaglio. Uno zoom impietoso sulle difficoltà per focalizzarle e costruire la soluzione. Che poi altro non è se non qualcosa che scioglie. Questa è la forza delle soluzioni: il cambiare stato a qualcosa che c’è e che persiste ma che in altra forma può essere affrontato. Chi scioglie, adatta. Chi adatta è pronto per ciò che voleva. Lo si fa con i problemi e anche con se stessi. Lo si fa per ciò che si vuole fare, lasciando Kiskunlachàza e trasferendosi in Belgio, dove di terra ne trovi quanta ne vuoi. Lo si fa dandosi nuova forma che è poliedricità, mutevolezza e per questo bellezza perché sei tu all’ennesima potenza, perché ti sei definito e non ti sei lasciato definire.

Così quando a Essen viene a farti i complimenti Marianne Vos magari non ci credi ma di certo sai che hanno visto, che tutti hanno visto. Ed abituarsi alle possibilità, anche a quelle che magari non penseremmo, è una lezione, è la brezza di inizio settembre, è novità e nuova soluzione. Per imparare a non sbarrare più la strada davanti alle impressioni o al sentire comune. Certo, perché probabilmente incontrando Kata Blanka Vas non la immagineresti mai ciclocrossista e biker. Ma il segreto è proprio quello: le persone sono molto più di ciò che possiamo immaginare ed ogni volta che lo riconosciamo, che non frapponiamo la nostra “piccola idea” alla loro visione, gli regaliamo un pezzo di domani. E se anche quel domani non si avverasse le lasciamo libere di provare quello che vorrebbero nel loro domani. E se questo non è futuro, poco ci manca.

Foto: Anton Vos/CV/BettiniPhoto©2020


Tutte le domande di Lucinda Brand

Lucinda Brand ha raccontato spesso un pensiero che ha puntellato la sua mente mentre era in ricognizione sulle pietre della Paris-Roubaix. Ina Teutenberg e Steve de Jongh avevano procurato giusto qualche giorno prima le biciclette da utilizzare per la classica del Nord e quello era il giorno della ricognizione. Lucinda Brand viene da una “Piccola Venezia”, Dordrecht, nei Paesi Bassi, è questo in fondo. Una cittadina antichissima, costruita sull’acqua, con vicoli strettissimi e negozi che si intravedono da barche elettriche che percorrono il corso d’acqua. Tra porti antichi, ponti bui e case costruite sul fiume, tutto sembra scorrere lì, a pochi chilometri da Rotterdam. Sarà per questo che Brand sente così forte quella realtà tagliente tra Parigi e Roubaix e la descrive così bene, facendo filtrare parole dove prima non erano mai arrivate: «Come fa una bicicletta a non rompersi su queste pietre?».

E forse non c’è domanda migliore di questa per raccontare l’inferno del Nord. Pensiamo spesso che il problema siano le domande e la soluzione le risposte. Pensiamo che si racconti con le risposte e che le domande siano, al massimo, una richiesta di racconto. In realtà non è così o, per quanto, non è sempre così. Certe domande raccontano più di qualsiasi risposta. Le persone, molte volte, si possono capire meglio ponendo attenzione a quello che chiedono piuttosto che a quello che dicono. Sì, perché chiedere o chiedersi qualcosa è sempre più difficile, se non altro per le risposte che potresti darti.

Per esempio, lì, in mezzo alle pietre potresti risponderti che «no, la bicicletta non si rompe, ma tu sei già a pezzi e manca ancora troppo. Come arrivi al traguardo?». E, quando inizi a risponderti così, sei tu ad essere rotto in mille pezzi. Perché non è la domanda a bloccarti, è la risposta. La domanda avrebbe potuto darti la spinta che serviva. Quella spinta è nascosta nel sebbene. «Sebbene io sia distrutta, sebbene non sia forte come questo cavallo di metallo, arriverò al traguardo». Sono i nostri sebbene a renderci forti. In quel momento la tua realtà torna a scorrere: quando non hai paura di farti domande, puoi tornare a Venezia, a Dordrecht o su qualunque barca in un vecchio porto. Quella paura ti passa con gli anni e con le domande che ti arrivano tra capo e collo quando non te le aspetti. Quella paura ti passa anche grazie a chi non si preoccupa delle domande che farai ma delle risposte che saprai dare alle domande che ti verranno fatte. Per esempio grazie a un fratello. Quel fratello, per Lucinda, è Giancarlo. Il papà di Lucinda e Giancarlo era un ciclista professionista e Giancarlo vuole correre sin da bambino. Giancarlo inforca la bicicletta e corre. Eccome se corre. Lucinda lo vede e vuole imitarlo. Possiamo immaginarcela mentre chiede di poterlo seguire, di poter imparare. Succede tra fratelli e sorelle, un istinto di emulazione che è la più feroce dichiarazione d’amore: «Voglio assomigliarti».

Giancarlo fa sul serio, Lucinda inizialmente è più impacciata e, nei primi tempi, Giancarlo deve tornare indietro, deve aspettarla. Così, però, non è possibile proseguire. Giancarlo non può aspettarla sempre e Lucinda non vuole neppure chiederglielo. Il problema sono gli angoli, come sempre nella vita, il problema sono le curve. Non c’è molta scelta: se non vuoi frenare gli altri devi imparare a guardarli e avere il coraggio di credere che puoi seguire la loro scia. Avere la fantasia per immaginare tuo fratello che si volta e, vedendoti, ti dice: «Ah sei qui». Che è come dire: «Adesso possiamo davvero andare via assieme».

Giancarlo non si è chiesto cosa avrebbe potuto pensare Lucinda vedendolo andare via da solo, non ha avuto paura di quella domanda . Sapeva cosa avrebbe risposto alla sua domanda, al suo perché, e sapeva che Lucinda avrebbe capito, prima o poi. Bastava lasciar passare qualche curva e qualche brivido a mezz’aria sull’equilibrio. Vedete? Sono le domande che raccontano: il coraggio, la paura, le rincorse e anche le scivolate. Come quando Lucinda andò da papà e gli chiese di iniziare a gareggiare. Una domanda, una delle poche, fatte a cuor leggero, forse. Sì, perché c’è papà e le risposte di un padre non possono far male, no? No, le risposte di un padre non devono far male ed è appunto per questo che possono far male.

Un padre non deve preoccuparsi del male temporaneo, per quanto lo faccia soffrire, un padre deve preoccuparsi del male non guaribile, quello delle decisioni prese quando è ancora notte, quando non si vede abbastanza bene la strada, quando non è ancora tempo di decidere. Quelle decisioni, mascherate da felicità, sono terremoti dell’esistenza, te la distruggono. Per questo, quel giorno, papà disse no. «Se non ti alleni molto, non ti farò gareggiare». Lo disse per lei. Perché alle domande può anche esserci una risposta dolorosa e non è un dramma. Dopo aver chiesto saprai cosa fare e da lì dipenderà solo da te. Che fa paura, ma fa anche felici.

Foto: Vincent Kalut/PN/BettiniPhoto©2020


Uscire allo scoperto

Justin Laevens non ha ancora vent’anni, li compirà il prossimo 9 marzo. Eppure questo ragazzo, pochi giorni fa, ai microfoni di SportNu, ha detto parole coraggiose, rare: «Sono omosessuale. Nel mondo dello sport è difficile uscire allo scoperto. Voglio essere un esempio per tutti coloro che sono rintanati nel proprio guscio. Ci pensavo da due anni, in realtà, ed è stato un grande passo. Avevo particolarmente paura delle reazioni degli altri corridori o dei team più grandi: temevo che mi avrebbero guardato con occhi diversi». Abbiamo parlato di coraggio, già. Perché anche la più vera normalità, in questi tempi, è ancora difficile da dire, da raccontare. Sembra assurdo, è assurdo. Ma purtroppo dirsi omosessuali resta difficile a tutt’oggi. Perché la società sa essere cattiva, magari in maniera subdola, attraverso l’esclusione o la percezione del “sentirsi diversi”. Non la diversità che è un valore, la diversità che è una colpa, che è un errore.
Una delle più complete ricerche sul tema dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere nello sport è stata commissionata dall’Unione Europea, che nell’ambito del programma Erasmus+ ha finanziato il progetto Outsport: un’iniziativa di contrasto alle discriminazioni, che ha portato alla realizzazione di una ricerca sulla situazione attuale a livello europeo; il quadro complessivo, che emerge da questo studio, evidenzia come:

– Il 90% delle persone LGBT intervistate percepisca l’omofobia nello sport come un problema;
– Il 33% non parli della propria sessualità in ambito sportivo;
– Il 20% abbia rinunciato a praticare una disciplina sportiva di proprio interesse a causa delle preoccupazioni sul proprio orientamento sessuale/identità di genere;
– Il 16% riporti almeno un’esperienza spiacevole legata allo sport (insulti, emarginazioni, provocazioni, violenza fisica), in un caso su due a opera dei compagni di squadra.

Dati che riguardano persone dichiaratamente LGBT, che hanno partecipato alla ricerca, mentre rimane una larga parte di sommerso.
Ed è proprio analizzando i dati di questa ricerca che ci rendiamo conto di quanto sia stato difficile uscire allo scoperto per Justin Laevens ed è a lui che vanno i nostri complimenti più sinceri. Perché ha fatto qualcosa di normalissimo ma difficile per la società in cui vive. Di più: vanno i complimenti perché lo ha fatto per se stesso e per gli altri. Perché vorrebbe essere un esempio. Perché forse in questi due anni, in cui ha riflettuto, è stato male a non dire la verità per paura del giudizio, per paura dell’esclusione e ora si è preso per mano e si è detto: «E se qualcun altro, magari più piccolo, ancora adolescente, stesse passando quello che ho passato io? Magari senza l’appoggio della famiglia o, peggio, col timore di dirlo in famiglia». Già, perché Laevens ha sempre avuto l’appoggio dei propri genitori, sono stati anche loro a convincerlo a parlare, a raccontare, perché poi sarebbe stato meglio. Casa, per Laevens, era davvero casa, il luogo della sincerità, il luogo in cui puoi essere tutto quello che sei. Per molti, per timore del giudizio, non è così ancora oggi. Non lo è a casa, figuriamoci fuori. Per questo quell’appello, quel “parlate, ditelo” è importantissimo. Senza fretta, con i propri tempi e la propria sensibilità, ma è giusto parlare, è giusto dirlo, è giusto raccontarlo come si racconterebbe qualunque altra cosa. Il resto è ignoranza e l’ignoranza si sconfigge solo non temendola, non lasciandole spazio per infiltrarsi e per decidere cosa sia giusto o sbagliato. Laevens ha capito il senso più vero dell’essere modelli. Qualcosa che ha a che fare col prendersi sulle spalle ciò che potrebbe non interessarti, farsi carico di qualcosa che ti tocca ma non è solo tuo, soffrire di più, soffrire prima. Essere modelli è questo, essere uomini e donne è questo. Solo questo. Ed è l’unica cosa che interessa in un uomo o in una donna.

Foto: Instagram/Proximus Alphamotors Doltcini


Il sapore dell'asfalto di Willunga Hill

Non si può parlare di Old Willunga Hill senza parlare di numeri. Nel ciclismo, si sa, i numeri contano fino a un certo punto. In realtà non solo nel ciclismo, anche nella vita. Perché poi certi spunti o certe spinte con i numeri hanno ben poco a che fare. E ogni giorno vive di spunti e spinte, a prescindere da ciò che raccontano i numeri. Gli spunti sono quelli della mente e di qualcosa che non sappiamo dove esattamente ma è da qualche parte in noi, come l’essenza, come il sapore del pane. Dov’è il sapore del pane? Anche le spinte, quando non sono puramente materiali, di mani che si allungano, e il ciclismo per fortuna conserva questa grazia, questa capacità di allungare la mano verso chi non va più avanti, sono frutto di quella stessa mente e di quella stessa essenza. Willunga Hill è così distante dai numeri che dovrebbero raccontarla. Sapete perché? Perché raccontare l’asfalto solo con i numeri è roba da topografi e l’uomo dell’asfalto sa ben altre cose, come del pane.

Willunga Hill è fatta, costruita, da 3500 metri di strada disciolta dal caldo torrido affacciata sui vitigni di McLaren Vale. Lì solo sterpaglie, più secche dell’aria che non si sente lassù, e vegetazione che per resistere si è addomesticata alle temperature e ai vizi del proprio cielo. Quanti sono 3500 metri in relazione a tappe di duecento chilometri? Pochi, ben pochi. Però c’è la pendenza e quella strada ha una pendenza notevole, del 7,5%. La pendenza è l’inclinazione. L’inclinazione è durezza ma anche predisposizione, tendenza, volontà. Non significa solo che per salire durerai fatica, significa anche che per salire dovrai essere predisposto. E qui c’è già tutto, perché fatica e predisposizione procedono appaiate, come i rapporti che innestano la pedalata. Senza predisposizione, senza volontà, la fatica non ti porterà in cima. Ma senza fatica, la volontà sarà sterile capriccio, vuota parola di cui riempirsi la bocca. Messa così, Willunga Hill è solo una salita, non molto lunga, anzi decisamente breve, ma ripida, molto ripida. Non diresti mai che a questa salita possa essere intrecciato il nome di un corridore come accade per Mortirolo, Stelvio, Alpe d’Huez o Mont Ventoux. Non lo diresti mai perché ti sei abituato, o ti hanno abituato, a contare la realtà piuttosto che a sentirla.

Sia chiaro: Willunga Hill dal punto di vista strettamente ciclistico non ha nulla a che vedere con le vette citate prima. Questo bisogna dirlo forte e chiaro ma questo dice tutto e niente. A Willunga Hill, ultima, e forse unica, ascesa del Tour Down Under ha vinto per sei anni consecutivi Richie Porte. Richie Porte, lui promessa delle promesse, lui martoriato dalla sfortuna, lui nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, a Willunga Hill è sempre stato impeccabile. A tal punto che Willunga sembrava una benedizione e una maledizione. Era sin troppo facile pronosticare Porte vincitore a Willunga Hill ed era diventato difficile, troppo difficile, credere a Porte sul suo podio, quello che non gli era mai appartenuto ma forse per questo era più suo di tante cose realmente sue, quello del Tour de France. Porte era il vincitore di Willunga e Willunga era la salita di Porte. E per quanto potesse fare Porte per impressionare i suoi rivali, Willunga ed il Tour restavano tali. Gli inizi spumeggianti sono belle storie le prime volte, poi diventano eterno ritorno dell’impossibile e alla fine, forse, stufano anche. Sicuramente Richie Porte non ha vinto a Willunga nel 2020 perché gli è mancato qualcosa o perché ha trovato qualcuno più forte di lui, Matthew Holmes nello specifico. Il punto non è questo. Il punto è che, forse proprio qui, c’è il sapore del pane, c’è la vera storia dell’asfalto. Quella di cui i numeri non dicono niente.

Qui Porte ha capito che l’ovvio è la storia di chi ha poca fantasia. E lo ha capito perdendo dove aveva sempre vinto. Sì, perché è facile dire: ”Puoi fare bene al Tour” ma stai parlando di una sensazione che ormai non ricordi nemmeno. Anche le cellule hanno una memoria: è quella che ci fa reagire in modo simile a situazioni simili, è quella attraverso cui impariamo come reagire. Quella memoria ogni tanto va risvegliata con le vibrazioni dell’inaspettato altrimenti si abitua al ricordo e non lo crea. Porte sapeva sin troppo bene come era vincere a Willunga Hill e forse quel giorno lo dava anche per scontato. Per questo ha perso. Quello che aveva dimenticato era come fosse perdere lì dove tutti sapevano che avrebbe vinto. Perdere lì dove sembrava impossibile.

Quel giorno Richie Porte ha letto una storia diversa. Da lì lo spunto e la spinta. Perché ora che l’ovvio era andato in frantumi, l’aria era tornata. Quando la strada sale troppo e anche la volontà sembra non bastare, devi rilanciare perché di ciò che ricordi, in quel momento, non interessa a nessuno. Oggi quella memoria è diversa ed ha come sfondo i Campi Elisi ed un terzo posto al Tour de France. Una gara di tre settimane con salite così diverse da Willunga, nei numeri ma non nella sostanza. Perché che ti è ancora possibile far bene al Tour, puoi impararlo anche un giorno di gennaio, dall’altra parte del mondo. Di tutto questo sa quel pane, di tutto questo sa quell’asfalto.

Foto: Dario Belingheri/BettiniPhoto©2020


Il cielo sopra Pauline Ferrand Prévot

«Credo che essere campionessa del mondo di tre discipline nello stesso anno sia la peggior cosa che mi sia mai accaduta. Anche ammalata ho continuato a lavorare sodo. Alla fine sono stata costretta a ritirarmi da una gara dopo l’altra. Ho concluso la mia stagione con un ritiro e non so quando tornerò in sella. La bicicletta è sempre stata il mio più grande amore, ora è diventata un terribile incubo». Quanto coraggio è servito a Pauline Ferrand Prévot per scrivere queste poche righe? Era passato solo qualche giorno da una delle mattinate più difficili della sua vita. Nell’agosto del 2016, a Rio, durante la prova olimpica di mountain bike, l’allora ventiquattrenne francese, era scesa di sella e, delusa in volto, si era ritirata. Invano i giornalisti presenti avevano cercato di dare una spiegazione a quella decisione: la stagione di Ferrand Prévot era stata costellata di problematiche fisiche ma, nonostante questo, i risultati non avevano tardato ad arrivare ed in quel momento la ragazza di Reims sembrava non aver proprio nulla da chiedere. La città delle cattedrali, non aveva più vetrate e nessun cielo dentro una stanza. Qualcosa dentro era andato in frantumi e dei vetri erano rimasti solo i tagli: Pauline era stanca. Non fisicamente, o per quanto non solo. Pauline era stanca mentalmente, psicologicamente. La tremenda verità è che Ferrand Prévot sul finire di quell’estate era stanca di essere se stessa. Avrebbe preferito essere una ragazza qualunque, sconosciuta ai più, magari studiosa di architettura o di lettere in qualche università locale. Pauline Ferrand Prevot avrebbe voluto essere una delle tante ragazze che ancora potevano permettersi di fallire, di sbagliare, di rinunciare, di ritirarsi, di cambiare vita, di andare al mare, magari.

Quel grido scritto era una protesta: «Non sono quella che credete. Non sono invincibile. Soffro, sto male, sono fragile anche io. Sono stanca. Guardatemi: sono stufa. Voglio essere una ragazza qualunque». Una richiesta di debolezza, se così possiamo chiamarla. I mesi trascorrono, viene autunno e poi inverno. Ferrand Prévot non riesce a riprendere in mano una bicicletta. Il team manager della Canyon SRAM, Ronny Lauke, la conosce in quel periodo ed è in quel periodo che avviene la firma con il nuovo team. Sì, perché puoi essere completamente distrutta ma il lavoro è lavoro ed in qualche modo devi proseguire. «In Pauline si è spento qualcosa. Noi l’abbiamo contattata- racconta Lauke- perché cercavamo un’atleta polivalente, forte come lei. Non immaginavamo quasi nulla di ciò che sarebbe accaduto poco dopo. Pauline era una ragazza, una ciclista, che non riusciva più a essere contenta di vedere una bicicletta». Pauline Ferrand Prevot deve ripartire. Il punto, in questi casi è: da dove si riparte? Da tre mesi in cui non ha mai toccato una bicicletta mentre le sue pause anteriori erano state al massimo di quindici giorni? Da quelle maglie, quelle coppe e quelle medaglie sul letto? Dal passato che nei ricordi della gente, ora, è stupendo a confronto di uno scialbo quotidiano? Dalla paura: e se riparto e scopro che, oltre a stare male, non so più vincere? Cosa faccio dopo? In realtà, se vuoi ripartire davvero devi guardarti allo specchio e sbatterti in faccia verità più crude di sberle.

«Quando vinci tutto- racconta Ferrand Prévot a Cyclingtips- quando hai vinto tutto, vivi nel terrore perché non sai più cosa fare per continuare a vincere. Quante cose si possono ancora vincere? Per quante cose puoi ancora lavorare? Quanti sogni e traguardi puoi ancora porti? E anche se trovassi nuovi obbiettivi non li fronteggeresti in maniera serena. Li affronteresti con la pressione di dover garantire un risultato, di non essere mai da meno». Ferrand Prévot non è più quella ragazza lì. Forse per questo guardando indietro sorride: «Non si può vincere tutto, non si può vincere sempre. Non è possibile essere sempre al massimo, fare sempre il meglio. Sembra quasi ovvio. Forse lo è. Adesso lo capisco anche io. All’epoca no, all’epoca non lo sapevo, non lo capivo. Ci ho messo tempo ed è stato quel tempo a ridarmi la piacevolezza del salire in bicicletta, del godermi la possibilità di pedalare e di farlo serenamente». E c’è ancora quel rumore di vetri rotti, come dopo ogni incidente, come dopo la recidiva della endofibrosi iliaca, frantumati a terra, ma torna anche il cielo. I vetri possono rompersi per diversi motivi, talvolta sono gli spettri della nostra mente a frantumarli, talvolta sono questi stessi spettri a cadere a terra. Un vetro a terra taglia sempre e qualunque finestra distrutta è un faccia a faccia con ciò c’è fuori e che ci spaventa. Passa l’aria, passa il freddo, talvolta il gelo. Ma senza questo, senza tutto questo, non può esistere cielo. Questo Pauline Ferrand Prévot lo ha capito, prima e molto meglio di altri.

Foto: Pauline Ferrand Prévot/Instagram


La strada in più di Daryl Impey

Daryl Impey è la persona giusta per spiegare un concetto molto complesso: l’unicità. Il termine va sviscerato per bene per arrivare a comprenderlo nel significato più profondo. Ancor di più, se il concetto di “unicità” o di “insostituibilità” si inserisce in una logica di squadra, logica che il ciclismo impone. Impey sa bene che “unicità” ha ben poco a che vedere con “totalità”, semmai a che vedere con “specializzazione”. Quando si lavora con altre persone, l’unica possibilità per essere insostituibili non è reclamare sempre maggiori competenze o possibilità, bensì è svolgere nel modo migliore possibile le mansioni che ti sono affidate.

Non sarai insostituibile nel momento in cui saprai fare tutto al meglio, possibilità riservata a pochi, pochissimi, sarai insostituibile nel momento in cui riuscirai a svolgere il tuo compito al meglio. Piccolo o grande che sia. Ed è di quel compito che devi andare fiero, senza mai sederti, senza mai abdicare ai varchi che ti si presentano per imparare, per crescere. Devi imparare, devi crescere ma devi farlo con lo spirito di chi, facendo ciò che fa, è in pace con se stesso e non ha nulla da rivendicare al mondo esterno. Quel continuo desiderio di rivendicazione rischia di essere il peggiore dei mali. Il sudafricano, nativo di Johannesburg, lo ha dichiarato qualche anno fa: «Mi sembra chiaro: per avere la possibilità di restare in una grande squadra devi comprendere come diventare insostituibile». Impey era insostituibile nel treno dei velocisti e questo lo rendeva già oggetto del desiderio di molte squadre ma sentiva che non era ancora tutto, che c’era altro. Il passo era iniziare a «fare qualche chilometro in più», che altro non vuol dire se non darsi qualche possibilità in più.

Impey riesce a darsi queste possibilità perché è sereno. Perché non le rincorre con la rabbia di chi vuole dimostrare di «non essere solo quello», dove “quello” sta per tutte le abilità già acquisite, ma con la tranquillità di chi può dire «sono anche questo». E c’è una differenza abissale. Da una parte cerchi una verità che gratifichi gli altri, dall’altra una verità che gratifichi te stesso. Impey, nei primi anni di carriera aveva lavorato con Chris Froome al team Barloworld, era la stagione 2008-2009, e avendolo osservato all’epoca, oggi dice: «Forse non avresti mai detto che Froome sarebbe diventato quello che è oggi. Una cosa, però, è certa: si allenava instancabilmente, non trascurava alcun dettaglio, e lo faceva con tanta voglia».

Impey si sarà ricordato di questo quando al Tour de France 2013, a Montpellier, vestì la maglia gialla. La dicitura “primo sudafricano in maglia gialla” avrebbe potuto montare la testa a molti. Non a lui. Lui capì che quello era solo un gradino in più, un altro gradino per imparare qualcosa, un altro balzo verso quell’idea di unicità a cui mirava. Se sei veramente “unico”, nel senso di cui vi abbiamo parlato, lo capisci quando puoi innalzarti sopra agli altri con vanto ma non lo fai. Quando resti quello che sei, con orgoglio, anche quando potresti fare altrimenti. Non è il momento per fare altrimenti, è il momento per riflettere su quello che puoi fare.

Daryl Impey resta quello che è sempre stato ma riprende a lavorare e lo fa con l’idea che c’è altro sulla sua strada. Gli indizi, per il vero, probabilmente non partono neppure da qui, bensì da dieci anni prima, quando Impey si rimise in sella dopo una spaventosa caduta al Tour of Turkey. Le prove, invece, arrivano negli anni quando l’atleta, oggi trentaseienne, riesce a mettere insieme un bottino piuttosto sostanzioso di successi, non facendo mai mancare, per un solo istante, la fedeltà ai propri capitani.

Il tutto grazie a un’indole che conosce perfettamente il meccanismo dei tentativi, che sa quanto, anche i tentativi con gli esiti peggiori, restituiscano qualcosa. Fosse anche solo la coscienza del fatto che era meglio non tentare. Quando vince a Brioude, la nona tappa del Tour de France 2019, Impey fatica a parlare ma qualcosa lo dice: «Si tratta di un sogno, del mio sogno, che si realizza». E d’altra parte come lo spieghi? Anche avessi “un materasso di parole” dovresti limitarti a rendere una vaga idea di quell’emozione. Meglio lasciare la pagina bianca perché lì la fantasia sguazza libera. I suoi compagni di squadra invece hanno tante parole, di quelle vere, di quelle che modificano il mondo attorno con il loro venire pronunciate, e sono tutte per lui. Perché poi, quando vince uno così, sono tutti contenti. Perché quando vince uno così, in fondo, vincono tutti quelli che potranno vincere raramente o forse mai. Quando vince Daryl Impey, vince un esempio.

Quel cerchio apertosi nel 2008 si richiuderà nel 2021 quando Impey tornerà a essere compagno di Chris Froome alla Israel Start Up Nation. «Chris mi ha telefonato e mi ha detto che crede in me, che ha fiducia in me e che vuole avermi nella sua squadra. Le nostre carriere hanno percorso diversi tratti assieme e conosco bene Froome. Sono certo che lui possa vincere un altro Tour de France. Quel giorno sarebbe bellissimo non limitarsi ad esserci, ma dare un contributo importante a quella vittoria». L’osservazione è profonda e pesca nella curiosità di tutti coloro che conoscono la storia di Impey. Chissà quale forma Daryl Impey inventerà per quel contributo, quanti chilometri in più percorrerà e quanto si reinventerà per aggiungere ancora un pizzico di unicità al suo essere ciclista.

Foto: ASO/Pauline Ballet


Dov'è la casa di Ceylin

Ceylin del Carmen Alvarado ha imparato a sentirsi a casa. Rafael, suo padre, viaggiò ben presto dalla Repubblica Dominicana verso l’Olanda ed il resto della sua famiglia lo raggiunse quando Ceylin aveva appena cinque anni. A quell’età, i ricordi sono ancora nebulose, semmai restano i colori e i profumi, e puoi “fare casa” qualunque luogo ti cresca. Però, se è vero che buona parte della personalità si forma nei primi anni di vita, le esperienze di quel tempo ti consegnano qualcosa che resta inciso in quello che sei. Papà è un ciclista e vuole che la ragazza impari a pedalare seriamente sin da giovanissima. «Lo sport che pratico non sarebbe stata la scelta più logica per il luogo in cui sono cresciuta. Io vengo da Rotterdam» – racconta a CyclingTips – «quante atlete professioniste provengono da lì? Credo solo io e Lucinda Brand». Cabrera è così distante, di lei nella fredda Olanda resta quasi solo la lingua; Alvarado parla ancora spagnolo fra le mura di casa. Ma a Ceylin non manca nulla o almeno così sembra. Fra le vie di Rotterdam come nella terra fangosa in qualche città al centro dell’inverno.

«Sono cresciuta in fretta. Quando sono arrivata io, atlete come Helen Wyman, Nikki Harris e Marianne Vos, avevano lasciato e questo mi ha aiutato, senza dubbio. Soprattutto, però, mi ha guidato la capacità innata che ho in me. Riesco a far mio qualunque tipo di percorso e quando questo accade mi viene naturale fare la mia gara. C’è una natura estremamente fisica in questo sport. Mi spiego?». Circostanze e possibilità, come terra e bicicletta. Perché per saper pedalare nel fango devi saperlo accarezzare, certo, devi saper scegliere la traiettoria migliore, caricarti la bicicletta in spalla e coprirti gli occhi dagli schizzi: in breve devi saperne accettare il potere e la forza. Altrimenti rischi di essere un Don Chisciotte alle prese con i mulini a vento. Ma devi anche essere capace di imporre la tua legge, di spingere quelle ruote più forte che puoi, di strapparle delle scie sbagliate come salveresti qualcuno dalle sabbie mobili. Se non ci riesci, torni a essere Don Chisciotte. Circostanze e possibilità come vita e tempo. «Ho le mie giornate nere e a volte sto male. Dall’esterno sembra mi riesca tutto facile, lo so. Lo faccio sembrare facile, ma non è facile. Da junior ho avuto molti problemi al ginocchio, febbri ghiandolari e polmonite». Quel sorriso, bellissimo, nascosto sotto quei ricci neri che la fanno tutta capelli non è circostanza, è volontà e resta anche quando la luce si spegne.

Alvarado, “facendosi casa ovunque”, ha imparato il valore della sincerità. La vita dei ciclisti è vita del mondo e al mondo che ti accoglie devi la verità di ciò che pensi. Diversamente non sono il mondo, la città, la terra o il fango, a non accoglierti, sei tu a non accogliere te stessa e non potrai sentirti a casa nemmeno per un attimo: «Mathieu van der Poel è pagato per correre o per dare spettacolo? Io sono pagata per correre o per far divertire? Io credo di essere pagata per fare la mia corsa ma so che, se faccio la mia corsa, il pubblico si diverte». Dritta al punto tanto da non sembrare una ragazza di ventidue anni: «Certo che il tema dell’uguaglianza e della non discriminazione sono questioni importanti. Come potrei dire di no? Personalmente, però, non ho avuto alcuna esperienza negativa, forse per questo non sento la necessità di parlarne ogni volta. Solo quello. Oggi il tema si sente in maniera particolare perché il ciclismo sta crescendo sempre più». Alvarado ricorda la sua prima bicicletta: «Non provengo da una famiglia benestante. La mia prima squadra noleggiava le nostre biciclette, così ho potuto iniziare a gareggiare. Ma, prima o poi, i genitori devono comprare una bicicletta per i loro figli e non tutti possono permetterselo: comprare una bicicletta costa molto di più rispetto a comprare un paio di scarpe da calcio. Il ciclismo è uno sport costoso e diventerà sempre più costoso. Le federazioni devono iniziare un lavoro dalla base».

Nel 2020 Ceylin del Carmen Alvarado ha vinto sia il Campionato Mondiale a Dubendorf che il Campionato Europeo a ‘s-Hertogenbosch e di questo bisognerebbe parlarne, questo rende bene l’idea di chi sia. Oppure no? Forse l’idea di chi è davvero Ceylin è racchiusa altrove e lì andiamo a prenderla. «Probabilmente chi fa ciclocross ha un alone meno professionistico rispetto a chi fa strada. Però io qui ho mio padre, meccanico, mia madre, soigneur, e mio fratello, al primo anno da under23. Loro sono i miei appoggi». Già, perché chi viaggia, alla fine, lo capisce. Casa può essere il luogo da cui parti ma più spesso casa è il luogo in cui vuoi tornare. Un luogo da lasciare lì, con ancora qualcosa da sistemare, per avere una buona scusa per farci ritorno. E, se non possiamo sempre scegliere da dove partire, abbiamo il dovere di scegliere dove tornare.

Foto: Twitter/Trofeo Sven Nys


Il vento di Taylor Phinney

Parola di Haruki Murakami: «Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato». Per Taylor Phinney quel vento è dietro una curva della discesa di Lookout Mountain, all’altezza del chilometro quarantacinque di corsa dei campionati nazionali statunitensi in linea. Dietro una curva qualunque, di un qualunque giorno di maggio, di un qualunque lunedì, in una discesa come tante altre, a Chattanooga, in Tennessee. Forse Phinney, quel 26 maggio 2014, aveva sentito dire da Murakami che, in fondo, scendere è sempre più difficile che salire. E probabilmente ci aveva anche creduto, astrattamente, non in quel momento. Perché la discesa ti inganna con la velocità, col respiro che è quieto, con le ruote che scorrono veloci e i copertoni che inghiottono la strada. La discesa ti inganna raccontandoti che manca sempre meno e con la sua follia mancherà sempre meno. La discesa ti fa sentire più vicino all’arrivo. A ciò che vuoi.

Basta un attimo, un secondo nato storto e, disteso a terra come sacco abbandonato, là, accanto a un guard rail, non riesci a immaginarti più nemmeno l’idea del movimento. La gamba è distrutta, la tua gamba sinistra è in frantumi. Più giù non puoi andare, non riusciresti nemmeno a rotolarti a valle con la forza della disperazione, più su non riesci nemmeno a guardare. Senti solo la scia delle altre biciclette che passano e ti sfiorano mentre i soccorsi provano a metterti in sicurezza prima di portarti via. Chiudi gli occhi perché quando hai dolore, hai la sensazione di sentire con ogni parte del corpo e tenerli chiusi ti illude di stordire il male. Per lo stesso motivo stringi i denti, serri le mani, magari le batti sull’asfalto. Sembra non passare più. Vorresti solo ti levassero quel male e potresti sopportare tutto. Forse lo chiedi anche: «Toglietemi il male, non mi interessa più di niente».

Il male, poi, si attenua. Perone e tibia sono polvere di ossa, il tendine della rotula è reciso: la chirurgia mette una pezza. Te lo ricorderai sempre quel taglio. Lo sentirai passandoci le dita, lo vedrai perché sarà sempre più chiaro della pelle circostante, la stanchezza si infiltrerà in quel pugno di muscoli e ti ricorderà che è tutta apparenza, una parte di te l’hai già buttata via.

I medici lo dicono chiaro e tondo a Phinney: «Riprenderai in mano la tua vita e sarà una vita normale. Dovrai cercare un altro lavoro, però: non potrai più fare il ciclista». È la seconda botta, inflitta mentre la prima fa ancora male. TI dicono che devi lottare per la normalità ma la tua normalità non c’è più. Te l’hanno tolta senza chiederti il permesso, senza una prova o una sentenza. Te l’hanno tolta dicendoti che “non è più possibile”.

La mamma di Taylor Phinney, Connie Carpenter, dice ancora oggi a Kasia Niewiadoma, fidanzata di Taylor, che quando si va in fuga bisogna guardare solo davanti, che del gruppo che insegue non deve importare nulla. Papà Davis ha lottato contro il Parkinson e ha capito una cosa: la ricerca è importante, fondamentale, ma il passo decisivo può venire dalle parole. Da ciò che si dice e si trasmette. Per esempio dal sapere, perché te lo hanno detto o perché lo hai letto, che vivere bene col Parkinson è comunque possibile. Phinney riparte prima di ripartire. Forse è l’unica possibilità per non impazzire: inizia a leggere, a studiare, conosce l’arte, sperimenta la pittura. Si rialza in quel momento Taylor e quando tutti lo vedono in piedi lui è già oltre, è già diversi passi avanti.

Da atleta era abituato a governare il suo corpo, a forzarlo, a fargli fare ciò che voleva, quando voleva. Ora deve scendere a patti con la propria carne. Non può fare nulla senza che il corpo non sia pronto, non può imporre tempi e ritmi. Deve ascoltare un tempo che non è più suo pur essendo fin troppo dentro di lui, nelle sue cellule. Quando riprende a pedalare lo fa assieme a Lachlan Morton e Cameron Wurf, lo fa per dirsi che è ancora capace, che ci riesce ancora. Non pensa a nulla di quello che di lì a breve accadrà. Taylor Phinney tornerà a correre fra i professionisti e sarà nuovamente quello di prima. Quello che una discesa aveva ribaltato ma non fermato. Quello che mamma e papà avrebbero sempre voluto.

Così simile a loro, così capace di declinare la vita a proprio modo, portandosi appresso il peso dei ricordi che diventa bagaglio per stare sempre meglio o per saper vivere anche stando male. C’è l’eco di Murakami qui. Sceglierà Education Drapac perché nell’educazione, nello studio, nella cultura, c’è il suo impegno e la sua promessa: quella di tornare sui banchi, questa volta per davvero, dismessa l’attività professionistica. Perché una parte della sua salvezza è lì ed è giusto tornare a trovarla. In fondo, il legame con ciò che ti salva è come il legame con chi ti tira una volata, ti accompagna in una fuga senza senso, o trasporta la tua barella in qualche corsia di ospedale. E Phinney, che oggi è un altro uomo, lo sa bene: «Può darsi che non sarai mai felice. Perciò non ti resta che danzare così bene da lasciare tutti a bocca aperta». Parola di Murakami, parola di Taylor Phinney.

Foto: Pentaphoto


Luca Scinto e il prezzo dell'essere veri

«Ho provato a mentire alle mie figlie per lavoro. Magari, il sabato, mi chiedevano di accompagnarle da qualche parte dopo la scuola e io rispondevo che non potevo in quanto dovevo andare in ufficio a lavorare. Non era vero, andavo ad allenare qualche ragazzo in vespa. Mi è accaduto con Visconti, con Tortomasi e con tanti altri: ero disponibile con chiunque me lo chiedesse. Non sarebbe stato mio dovere ma per come vivo il ciclismo non avrei mai potuto dire no. A me piace allenare i ragazzi».

Luca Scinto vive il ciclismo in maniera totale e come lo vive lo racconta. Non ci sono parole trattenute o nascoste, Scinto deve dire ciò che pensa e non importa il pensiero comune, lui, da buon toscano verace, dice la sua. «A volte i ragazzi non ringraziano nemmeno, come fosse scontato. Sto ore sullo scooter e non sono pagato per farlo. Lo faccio volentieri e non saprei fare altrimenti, mi chiedo solo se questo spirito venga capito. Al Giro d’Italia, arrivo a fine giornata sfinito. Perché? Perché vivo la corsa, soffro in corsa, partecipo ad ogni circostanza. Potrei fare come alcuni colleghi che arrivano in hotel e sono tranquilli perché hanno fatto il loro lavoro e poi “vada come vada”. Invece no».

Questo è un pregio ma, come dice Luca Scinto, potrebbe anche essere visto come un difetto. «Non ho mai trascurato la mia famiglia, sia chiaro. Grazie al lavoro, anzi, sono riuscito ad affrontare meglio difficoltà extra-lavoro. Sono riuscito a isolarle. Credo sia per il mio darmi completamente a quello che faccio. Ho tanti difetti e pochi pregi. Questo modo di operare spesso non viene compreso fino in fondo». Qui Scinto pensa alle delusioni avute in questi anni. «Cinque anni fa ho scelto di prendermi un periodo di pausa e dedicarmi ai più giovani. Angelo Citracca non avrebbe voluto, mi chiedeva di aspettare. Non potevo aspettare, si era rotto qualcosa con i ragazzi e non riuscivo più a continuare facendo finta di niente. Non mi fidavo più, ero stato deluso, ero stato tradito. Quando un corridore fa uso di doping, ti mente, finge di sentirti ma prende altre strade. Chi fa uso di doping imbroglia, ruba agli altri. Non è mai stato accettabile, oggi ancora meno. Sono tornato perché sapevo di avere la coscienza pulita, perché ero certo di non avere alcuna responsabilità ma è servito tempo. Ho sempre messo la faccia per i miei ragazzi. Citracca continuava a dirmelo: “Luca, guarda che non sei lo stesso. Sei cambiato, Luca. Torna come prima”. Ci ho messo tre anni per tornare come prima. Alla fine ti lecchi le ferite e vai avanti ma resta l’amaro in bocca. Capisci che, nella vita, ci sono degli irresponsabili e accetti questa verità».

Luca Scinto durante il Giro d’Italia 2020. Foto: Vini Zabù-Brado-KTM/Facebook

In quell’anno Luca Scinto ha riflettuto. «Mi sono guardato intorno e ho capito chi erano i veri amici. Citracca era un amico, uno di quelli veri. Con lui condivido un’amicizia di quasi trentacinque anni, un’amicizia in cui si condivide tutto, anche fuori dal ciclismo. Tanti altri no. Ma le delusioni non sono solo queste. Sono delusioni anche tutti quei rapporti che cerchi di costruire con i ragazzi e che si disfano sotto il peso di questioni meramente economiche. Succede così. Certi rapporti puoi costruirli fino a quando gli atleti sono giovani poi diventa impossibile. Si tratta di un dato di fatto».

La gratitudine ha un peso notevole nella coscienza del direttore sportivo della Vini Zabù Ktm. «Sai, è importante dire i tuoi grazie, ogni tanto. Penso a mia mamma che non c’è più. Lei e i miei nonni mi hanno da subito supportato in questa scelta e posso assicurarti che per loro, per quei tempi, si trattava di un sacrificio notevole. Tutto quello che ho fatto, lo devo a loro. Penso a Maximilian Sciandri che mi ha voluto con lui al passaggio al professionismo. A tutti gli insegnamenti di Giancarlo Ferretti e agli anni condivisi con Michele Bartoli. Soprattutto penso ad Angelo Citracca».

Citracca e Scinto hanno corso assieme, sia da compagni di squadra che da avversari. Quando Luca Scinto stava per smettere, Angelo Citracca gli ha telefonato: «Mi chiese di andare con lui, c’era l’idea di costruire una squadra di dilettanti. Quando smisi, gli proposi di trovarci al bar per parlarne: ci fu una stretta di mano da amici quali eravamo e iniziammo tutto. Angelo è come un fratello per me, sono diciotto anni che lavoriamo assieme e, lo dico sinceramente, fino a quando Citracca resterà nel ciclismo io sarò con lui. Diversamente ci penserò, magari cambierò lavoro. Si discute, certo. Chi ti dice sempre sì, chi non dialoga ed accetta ogni cosa, non è un amico. Bisogna ricordarselo. Sembra strano da dire ma Angelo caratterialmente è più forte di me». Scinto sorride e ammette: «Sono salito in auto e ho provato a fare il direttore sportivo».

Giovanni Visconto al Giro 2020 in maglia azzurra. Foto: Vini Zabù-Brado-KTM/Facebook

Nel tempo tante soddisfazioni: la più grande, a giudizio di Scinto, è la vittoria di Oscar Gatto a Tropea al Giro, davanti a Contador. Come non ricordare il secondo posto di Pozzato al Fiandre, «una scommessa di una piccola squadra che sarebbe potuta valere una grande classica», e i titoli italiani conquistati da Giovanni Visconti. «Sembrerà esagerato ma non lo è. In fondo, un direttore sportivo deve fare con i propri atleti quello che un genitore fa con i propri figli. Deve rassicurarli, tranquillizzarli, metterli a proprio agio. Bandire il panico. Questo comporta un forte rapporto con i corridori, bisogna sentirsi spesso, bisogna parlarsi molto».

Sull’abbrivio di queste considerazioni, Luca Scinto continua: «Non può esistere campione che non si conosca, che non conosca il proprio fisico. Ho avuto un grande preparatore come Luigi Cecchini ed il Centro Mapei mi ha aiutato molto ma certe cose devi capirle da solo. Un corridore deve sapere quando è il suo picco di forma stagionale. Deve sapere se va meglio con il caldo o con il freddo. Puoi avere tutti i migliori preparatori dell’ambiente ma se non ti conosci non vai lontano. Si sono fatti tanti passi avanti ed oggi anche i materiali sono parte integrante delle prestazioni, questo, però, viene a monte. A me non piace la programmazione esasperata. Sono atleti, non robot. Alcuni ragazzi hanno paura a restare un giorno senza bicicletta, sono terrorizzati. Il riposo è importante quanto l’allenamento, se lavori bene puoi restare anche due, tre giorni senza bicicletta. Ci sono tanti altri esercizi da fare. Molto sta all’intelligenza tecnico-tattica dell’atleta. Un discorso simile lo ho fatto ai ragazzi questa primavera rispetto all’uso dei rulli: va bene usarli ma non bisogna abusarne, non bisogna fare fuori giri. Quei momenti sono, invece, i migliori per lavorare su tutti quei dettagli su cui di solito non si lavora. Dettagli che fanno la differenza».

Luca Scinto qualche stagione fa. Foto: Claudio Bergamaschi

Scinto non ha dubbi. «Se un figlio mi chiedesse di correre in bicicletta, acconsentirei immediatamente. Il problema del ciclismo di oggi non è il doping, è la sicurezza stradale. Su quella bisogna lavorare». Del ciclismo, quest’anno, a Scinto è mancato il pubblico. «Dobbiamo ringraziare il fatto che ci è stata data la possibilità di correre, di lavorare. Il ciclismo ha superato un esame davvero difficile e questo deve darci fiducia. Ma andare alle partenze e vedere quei piazzali deserti è davvero triste. Mi sono mancate le persone, la loro richiesta di foto, di autografi, le loro grida ed i loro applausi quando attraversi un passo alpino, i giornalisti con le loro domande e le loro interviste. Il ciclismo è anche tutto questo. Io, lontano dal pubblico, sto male».

Quest’anno Luca Scinto ha detto addio a Giovanni Visconti, passato alla Bardiani. «Non rinnego nulla. A Giovanni voglio bene, per me è una persona importante. Mi ha regalato moltissime emozioni e quelle restano e resteranno sempre. Lui lo sa, abbiamo idee diverse. Io al suo posto avrei agito diversamente ma ognuno fa le proprie scelte e se ne assume le responsabilità. Mi sarebbe piaciuto vederlo concludere la carriera con noi e magari, chissà, con un ruolo in squadra anche successivo. Le cifre che ci chiedeva questa estate, per noi, erano importanti, è andata così. Forse è anche un bene. Ultimamente Giovanni non era più contento qui. Come dice quel detto? Le minestre riscaldate non vanno mai bene e probabilmente sarebbe stato meglio se non fosse tornato dopo la prima esperienza con noi. Gli auguro tutto il bene. Sono certo che vincerà ancora diverse gare».

Riunione prima del Trofeo Matteotti 2020 con Angelo Citracca, Maurizio Formichetti, Luca Scinto e Valentino Sciotti. Foto: Vini Zabù-Brado-KTM/Facebook

Se Scinto dovesse parlare di un proprio difetto, parlerebbe del suo essere permaloso. «Questo non vuol dire che non mi piaccia scherzare. Anzi. Amo scherzare: bisogna essere capaci di sdrammatizzare e di alleggerire l’atmosfera alla vigilia di appuntamenti importanti. Però quando si scherza, si scherza. Quando c’è da lavorare seriamente, sono molto esigente. A me manca l’istruzione, non ho studiato e non so le lingue. Ma credo di fare molto bene il mio lavoro: date ad altri direttori sportivi il budget ed i corridori che ho io e date a me il loro, poi vediamo. Non tollero chi non è sincero. Si può dire tutto ma lo si dice in faccia. Sono un istintivo. Sono focoso, ora già meno dei primi tempi. Se parli male di me, se mi parli alle spalle, non venire a stringermi la mano perché non so far finta di nulla. Non sono capace di sorridere come se nulla fosse».

Il pensiero torna ad un amico e ad un maestro. «Franco Ballerini mi diceva di continuare a mostrarmi cortese anche con chi non mi stimava. Diceva che la cortesia non va mai negata a nessuno, nemmeno alle persone che non ci piacciono o a cui non piacciamo. Lui aveva sempre una parola buona per tutti. Mi insegnava bene, sono io che non ho imparato». Parlare di Franco Ballerini significa parlare di tante cose: del rapporto rimasto con la moglie, di tanti momenti vissuti assieme, delle gare e di pomeriggi indimenticabili. «Mi chiamava al cellulare e mi diceva: “Vengo a prenderti e si va da Alfredone”. Alfredone era Alfredo Martini. Si parlava di vita e di ciclismo. Con Franco si era amici prima che colleghi. Ci volevamo bene ma non mi ha mai regalato nulla. Pensa che quando eravamo in nazionale e per rispetto della professionalità ero più freddo, Ballerini lo diceva a sua moglie: “Scinto non mi ha neppure salutato, oggi. Eppure l’altra sera ridevamo e scherzavamo come niente”. Per me era una questione di serietà sul lavoro. Una volta me lo disse: “Luca, mi serve un uomo per il mondiale. Vorrei portarti perché so che su Scinto posso sempre contare, so quello che può darmi Scinto. Ma te lo devi guadagnare”. Lavorai duro e mi convocò. Questo era Franco. Certe volte penso che, fosse stato ancora qui, molte cose sarebbero state diverse. Penso che avremmo costruito una grande squadra. Assieme».

Foto: Vini Zabù-Brado-KTM


Daniel Martin ha scelto la leggerezza

Daniel Martin lo dice chiaro e tondo: «In fondo, è solo una corsa di biciclette». Che non vuol dire sminuire un lavoro, che è poi il suo lavoro, ma significa semplicemente portarlo alla dimensione che realmente occupa nella sua vita, per scelta consapevole e, grazie a questo ridimensionamento, forse, dargli ancora di più. Non tanto a livello quantitativo, quanto a livello qualitativo perché ciò che si mette in quel lavoro, a quel punto e solo a quel punto, è sgombro da inutili timori e da futili pretese, è più leggero e più leggeri si pedala meglio. «In certe occasioni resto davvero senza parole: per esempio, quando c’è una fuga in corso e tutti in gruppo si muovono. Per riprendere la fuga? No, neanche per sogno. Per difendere un piazzamento. Stiamo correndo in bicicletta, cosa abbiamo da perdere? Proviamo a vincerle queste gare invece di accontentarci di non perderle troppo vistosamente».

In fondo, Daniel Martin è ”umano, troppo umano”, come avrebbe detto Friedrich Nietzsche, e già questo potrebbe non essere scontato tra le varie circostanze di vita che, piano piano, risucchiano quell’umanità. Ancor meno scontata è la forza che Daniel Martin profonde per difendere quel suo istinto di umanità, per aggrapparvisi come ad un ramo affacciato su un precipizio. Tante piccole scelte, tutte importanti in questo senso. Scelte che hanno a che fare, in primis, con le distanze, impossibili da misurare o da contare per un ciclista. Ma, se è vero, che alcune distanze sono imposte dal lavoro, è altrettanto vero che, per altre, si può scegliere. Un esempio calzante sono i ritiri: se può restare a casa ad allenarsi Daniel Martin è più sereno, il tempo con la compagna e le due figlie, gemelle, lo fa stare bene. Allora si chiede: perché rinunciarci?

Martin non trova un perché che abbia davvero un senso e a quel tempo non intende rinunciare. Come non ha voluto rinunciare a vedere nascere le due gemelline, nonostante fosse in corsa, alla Vuelta. Avrà pensato: «Ma scherziamo? Quante volte potrà mai ripetersi questo momento nella vita di un uomo? Al diavolo la corsa. Torno a casa». Un aereo e via. Non c’è niente da fare, Daniel Martin è così. Si potrebbe ricercare il seme di questa essenza nei primi anni di vita, in quella bicicletta regalata a Natale e rinchiusa in uno sgabuzzino solo qualche giorno dopo, nonostante in famiglia il ciclismo fosse cosa importante: Neil Martin, suo papà, è un ex professionista ma c’è di più. E non poco di più, perché lo zio di Daniel Martin è Stephen Roche vincitore del Giro d’Italia, del Tour de France e del Campionato Mondiale su strada nel 1987. Può voler dire tanto ma può anche non significare nulla: molte volte è proprio quello che respiri in famiglia che vuoi fuggire. Non la sostanza, magari, ma il modo di approcciarsi a quella scelta di vita. Forse Daniel, vedendo gli allenamenti dello zio, dapprima ha pensato che quella scelta non faceva per lui, poi si è ricreduto e ha capito che non era la scelta il problema ma il modo di affrontarla. Forse a lui di essere un altro Stephen Roche non interessava neppure. O magari, più semplicemente e senza troppi ragionamenti, Daniel Martin è sempre stato così e nel ciclismo non ha portato altro se non il suo modo di vedere il mondo. Lo dicevamo prima, la leggerezza salva. Da cosa? Ad esempio dal doping.

Già, perché poi, si dica quel che si vuole, molte volte l’atleta che fa uso di doping, pratica scorretta e da condannare senza se e senza ma, ci mancherebbe, non è il mostro ritratto dai giornali e sbattuto in prima pagina, giusto per qualche copia venduta in più, soprattutto se il nome è importante e fa più gola ai lettori. Certe volte chi casca nel gorgo del doping è qualcuno di troppo fragile per resistere alle pressioni o alla paura del fallimento. Qualcuno troppo fragile per «stare bene lo stesso». Daniel Martin ha le idee chiare: «Non ho problemi a parlare di certe sostanze e ho ancora meno problemi a dire con chiarezza che non le assumerò mai. Per un motivo molto semplice: non ho bisogno di vincere per stare bene, io sto comunque bene». Parla di se stesso e dei colleghi e sgombra il campo da dubbi e polemiche: «Se pensi che il tuo avversario non sia onesto, è inutile che corri. Non è un ragionamento da fare».

Martin, nato a Birmingham il 20 agosto del 1986, corre a trentaquattro anni come correva per gioco da ragazzino. Se il ciclismo diventasse qualcosa di diverso da quello che per lui è, non gli piacerebbe più e lo manderebbe a quel paese senza troppi scrupoli, come quella volta in Spagna. Questo lo rende più vero, come tutto quello che piace a lui e come tutte le sue scelte che possono chiamarsi così proprio perché prese a briglie sciolte, ascoltando una coscienza ancestrale. Questo significa trovare molto e perdere altrettanto. Significa vincere un Giro di Lombardia, una Liegi Bastogne Liegi, due tappe alla Vuelta a Espana e due tappe al Tour de France. Ma vuol dire anche franare a terra e vedersi sfuggire ciò che con la pura razionalità, forse, avresti da tempo nel tuo palmares. Sarebbe bastato fare diversamente. Fare diversamente, però, avrebbe anche voluto dire avere qualche fardello in più da portare sulle spalle e qualche sacrificio a cui rispondere sì meno volentieri. Perché solo ciò che afferri con leggerezza può essere pesante e non pesare. Spesso non è il peso dell’oggetto ma il tuo mentre lo sollevi, a essere un problema. Per questo la leggerezza, al modo di chi «plana sulle cose e non ha macigni sul cuore», di Daniel Martin è la sua più grande bellezza.

Foto: Claudio Bergamaschi