Asja Paladin: «Hakuna Matata»

«Se ripenso a quei giorni in Kenya, non molti anni fa, penso a quanto sia facile essere felici. A quanto poco basti per essere felici. Forse il fatto è proprio questo: la felicità è un concetto molto semplice, ma noi tendiamo a complicarlo. Di fatto si complicano le cose quando non si capiscono. Quando qualcosa ci è chiaro riusciamo a semplificarlo. Ad arrivarne all'osso. La felicità noi non l’abbiamo capita. L'hanno capita quei bambini lì, che sono felici con in mano un tocco di cibo o una manciata d'acqua. Loro, non noi». Asja Paladin sta parlando di noi, di tutti noi, ma anche di sé stessa: «Vale anche per me. Non a caso mi sono tatuata quella frase sulla pelle. Ho una mente abbastanza iperattiva, continuo a riflettere, a ragionare, magari a preoccuparmi. Allora me lo dico: “Asja, hakuna matata!”. Che è come dire: non ci sono problemi, non complichiamo le cose, vediamole e viviamole per quello che sono. Lo so, dirlo è facile, farlo è molto più difficile. Però si può fare, si deve fare. Ci sono cose prioritarie, cose importanti e cose che, in fondo, non sono per nulla importanti. Riusciamo a distinguerle? Riusciamo a capire per cosa vale la pena di non essere felici e per cosa no? Forse è questo il problema. Forse per questo non riusciamo ad avere lo stesso sorriso di quei bambini. Forse per questo non capiamo molto la felicità».

Quella di quei giorni è una scoperta e Asja con le scoperte ha un rapporto particolare. Asja se ne intende di scoperte. Sa, per esempio, che se una parte delle scoperte è nell'inesplorato, nell'epico, nell'estremo, l'altra parte è nella normalità. Di quella parte, delle scoperte che risiedono nella normalità, si parla meno, quasi per nulla per lo stesso motivo per cui si fatica a parlare in maniera semplice di felicità. Perché? Perché non le abbiamo capite. «Ho ventisei anni. Ho corso per vent'anni in bicicletta. Quanti posti avrò incrociato? Quasi tutti i giorni mi sposto in macchina: dai finestrini quanti luoghi vedrò? Abito a Cimadolmo. A Verona sono stata diverse volte, conosco la città. I centosessanta chilometri da Cimadolmo a Verona li avrò percorsi decine di volte. Posso dirti la verità? Quei centosessanta chilometri io non li conoscevo per nulla». Poi c'è un'idea, quasi improvvisata, e la voglia di rispondere e di rispondersi sì: «Sai che quella notte non ho dormito? Mi giravo e mi rigiravo nel letto e mi rimproveravo da sola: “Ma insomma, Asja. Sembra che devi andare a gareggiare. In realtà si tratta di un giro con amici. Perché devi fare così?”. Il motivo preciso non te lo so dire ancora, sarà il mio carattere. Però so che è stato un misto di entusiasmo, di voglia di partire, di soddisfazione ma anche di paura. In allenamento non sono mai partita con quei chilometraggi, si cresce gradualmente, e all'inizio l'idea di tutti quei chilometri, seppur inconsciamente, ti spaventa. Tutto torna la sera, come arrivi a casa e sei stanca morta ma soddisfatta. Guardi una cartina e ti dici: “Vedi tutti quei chilometri? Li ho percorsi io, con le mie gambe e la mia bicicletta”».

Ma la sorpresa più grande non è nemmeno questa. La sorpresa più grande Asja l'ha avuta quando si è fermata a bordo strada a guardare. «Sembra impossibile ma mi sembrava di essere in posti nuovi, in posti che non conoscevo per nulla. Solo il fatto di esserci arrivata in bicicletta, di averlo fatto con amici, di essermi presa il mio tempo, ha fatto tutto questo. Ho visto cose che non avevo mai visto e le ho viste in modi che non avrei mai immaginato. Alla fine bastava una bicicletta, poco equipaggio e voglia di far fatica. Non è poi molto, ma bastava». Quella sera, guardando la cartina, Asja ha ripensato a tante cose: «Sono orgogliosa della mia carriera in bicicletta. Mi spiace non correre più, ti direi una bugia non ammettendolo. Ma non c'è rimpianto: ho imparato tanto e nulla sarà sprecato. Mi sento più forte, so che posso fare ciò che voglio nella vita. So di esserne capace. Mi hanno sempre insegnato che nella vita è essenziale dare tutto, anche più di quello che hai se tieni veramente a qualcosa. Molte cose, poi, non dipendono da noi e non possiamo farci nulla. Sono giovane e ho molta voglia di progettare e organizzare. In un certo senso, progettare e organizzare mi tranquillizza. Il bikepacking è questo. Il momento dell'organizzazione è uno dei più belli: pensi a cosa portare con te, alleggerisci o appesantisci i bagagli, chiedi consigli, nel mio caso a mia sorella Soraya, e ascolti proiettandoti in avanti con l'immaginazione. A proposito di progetti, ho già guardato le cartine: da qui alla casa di una mia amica in Germania ci sono 800 chilometri. Quando farà meno freddo, ci penserò. Poi vorrei andare a Napoli, una città che amo».

Sulla sua schiena, nella tasca posteriore della divisa, Asja tiene un piccolo panda di peluche: «Si chiama Yugen ed ho deciso che lo porterò con me ad ogni avventura. Yugen è una parola giapponese, intraducibile letteralmente. Per me è una sorta di consapevolezza della bellezza nascosta nell'universo: qualcosa che non si può descrivere a parole ma che fa emozionare. Un fascino profondo insito nelle cose che non riusciamo a capire fino in fondo ma che ci sono, che sentiamo».

Guardando la bicicletta, l'ha vista diversa e non ha avuto dubbi: «La bicicletta non è cambiata. Sono io che ho depurato la bicicletta da molte cose che erano essenziali per la mia carriera e che oggi posso permettermi di non considerare. Ho visto quanto è bello vivere il ciclismo così, senza ansie, senza preoccupazioni. Senza fretta. Solo per il gusto di stare su quel sellino e pedalare su una strada».

Foto: Asja Paladin


Enrico Gasparotto: «A trentotto anni smetto»

La fine di questa storia è, in realtà, l'inizio. E l'inizio di questa storia racconta di un ragazzo che a ventitré anni, nel 2005, uscendo di casa dice a papà: «Papà, corro in bici. Dovrò stare lontano da casa per molto tempo ma ti prometto una cosa: a trentotto anni, qualunque cosa accada, smetto e mi riprendo il mio tempo con voi». Quel ragazzo è Enrico Gasparotto e quel tempo è arrivato. Così, il 24 novembre, Enrico ha parlato con papà e gli ha detto che era arrivato il momento di scendere dalla bicicletta: «Mio padre c'è sempre stato. Ha corso parecchi in bici. Anche lui avrebbe voluto essere un professionista e, in fondo, la mia vita è stata anche un poco la sua. Era affezionato all'idea di avere un figlio ciclista. L'ho ringraziato. Sì, perché è stato capace di esserci ma in disparte, condividendo in silenzio ogni scelta senza volerne mai essere protagonista. Papà Toni è molto emotivo e a sentire queste parole gli sono scesi due lacrimoni sulle guance. Avrei voluto abbracciarlo». Quel giorno, Enrico ha capito anche un'altra cosa, una cosa che ha commosso anche lui: «Sai, spesso quando si smette di correre, la vita cambia completamente e anche i rapporti familiari ne risentono. Io in questi giorni sto capendo quanto mia moglie sia davvero mia moglie. Intendo dire, quanto quella parola le calzi a pennello. C'è, è qui ed è più tranquilla di me. Mi infonde tranquillità. Ora che non ci sono corse è anche più semplice non pensare a cosa non sarò più, ma sono certo che alla ripresa della stagione quello che ero mi mancherà. Sapere che ci sarà lei, qui con me, mi tranquillizza».

Il tempo che si ferma è anche il tempo dei ricordi che fluiscono liberi: «Quando ho vinto il campionato italiano nel 2005, è cambiato tutto. Sai di essere attenzionato e, se ad un lato, ti fa piacere, dall'altro le pressioni si fanno sentire». Qui Gasparotto si permette un inciso: «Dei miei sedici anni di professionismo ho un ricordo bellissimo. Ho vissuto quattro diverse ''ere'' del ciclismo. Le cose sono cambiate: fra i miei ricordi ci sono uscite serali che ora non sarebbero più replicabili. I ragazzi devono prestare molta più attenzione ad ogni aspetto e questo, se da un lato, li rende estremamente più professionali, anche più forti, dall'altro rischia di accorciare la loro vita da atleti. A questi livelli credo non saranno più immaginabili carriere di sedici anni. Parleremo di carriere di otto, dieci anni. A trent'anni probabilmente smetteranno e anche questo sarà un bene e un male: troveranno lavoro più facilmente ma staranno per meno tempo nel loro mondo». Un mondo che lascia qualcosa che va oltre ciò che tutti vedono: «Penso alla prima volta dello Zoncolan al Giro d'Italia: non ho dovuto pedalare in pratica, non so quante mani mi hanno spinto. Non si potevano contare, erano troppe. Penso alla visita a parenti a Casarsa della Delizia e ai primi giorni in maglia rosa: a tutto ciò che provavo».

In questi momenti, Enrico Gasparotto pensa a Antoine Demoitiè, suo compagno di squadra, scomparso in un incidente il 27 marzo 2016, e a quella vittoria all’Amstel Gold Race. Una vittoria per tornare ad alti livelli dopo un periodo difficile, una vittoria per sua moglie e per la sua famiglia, per il suo gruppo di lavoro e per i suoi amici, una vittoria piena di caparbietà dedicata anche ad Antoine: «Ero da solo in ritiro e pensavo a lui. Tutto quello che ho fatto, l'ho fatto anche per lui. Quella vittoria all'Amstel è anche per lui, per Antoine. Quando sono tornato al bus, i miei compagni piangevano tutti. Io non ci riuscivo. Piangeva anche il mio direttore sportivo, un uomo di settantacinque anni che non avrei mai immaginato di vedere così». Enrico Gasparotto racconta che su quelle strade, sulle strade dell'Amstel, della Freccia, della Liegi, avrebbe voluto tornarci con calma nel 2021, prima di chiudere la carriera: «Sarebbe stato un lungo saluto. Lo avrei assaporato diversamente. Come quando torni in un luogo significativo e riempi ogni angolo di ricordi. Ma quest'anno è stato un anno particolare e questa possibilità non c'è stata. Così ho scelto di fermarmi e ho fatto bene: bisogna essere capaci di dire basta, è indispensabile».

Sì, indispensabile. Perché Gasparotto crede al valore di ciò che è stato e raramente lo senti felice come quando immagina quanto il suo passato possa essere d'aiuto a qualcuno. Una sorta di gratitudine resa viva e tangibile: «Parto da Mario Cipollini perché l'ultima sua vittoria, il Giro della Provincia di Lucca, è stata una delle mie prime gare. Trovo poco generose alcune parole che gli sono state rivolte. Può sembrare un guascone ma in realtà ho conosciuto pochi atleti così perfezionisti sul lavoro. Gente da cui c'è solo da imparare. Stessa cosa vale per Alexandre Vinokurov. Vino non si fermava mai. Cadeva, si faceva male, lo vedevi sanguinante ma ritornava in sella. Se sono stato professionista sedici anni, parte del merito è anche loro. Da loro ho visto cosa significava fare questo lavoro». E quando ti senti fortunato, spesso senti anche la voglia di restituire quella fortuna. Di portarla ad altri, di farli felici. Qualcosa Enrico Gasparotto ha già restituito: «Il mio arrivo in Wanty-Goubert è coinciso con il passaggio dal World-Tour ad un team professional. Ho provato a prendermi sulle spalle i ragazzi più giovani. Sono stato contento di farlo, di condividere piccoli e grandi insegnamenti e di vederli crescere. Lo vorrei fare ancora. Credo la mia strada adesso sia quella. Questa primavera ho preparato un progetto di talent scout da sottoporre a diverse squadre: ricercare i migliori giovani nel mondo e affiancarli. Non solo a livello sportivo ma anche a livello psicologico. Ogni ambiente è diverso e ognuno di noi ha bisogno di un ambiente differente per stare bene e fare bene il proprio lavoro. Lo ho vissuto sulla mia pelle. Io sostengo da tempo la necessità di figure quali il mental coach o lo psicologo sportivo. Gli atleti di alto livello hanno bisogno di questo supporto, i giovani più che mai. Altrimenti di fronte alle difficoltà non riescono ad andare avanti. Non riescono a resistere. A me è capitato spesso ma, avendo già qualche anno di esperienza, mi richiamavo ai momenti difficili precedenti e mi dicevo: ''Dai, Enrico. Se ce l'hai fatta quella volta, ce la farai anche qui. Forza!''. Un ragazzo di diciotto anni non ha queste esperienze a cui aggrapparsi, ha bisogno di qualcuno che lo aiuti».

Enrico Gasparotto riflette qualche istante, noi riprendiamo a parlare e lui ci ferma: «No, scusami ma devo dirlo. Le persone hanno paura a parlare delle loro fragilità. Hanno paura perché vengono etichettate come deboli. In Italia, in particolare. Altrove non è così. Questa cosa non ha senso. Io ne parlo. Sono una persona che vive nel presente, convinta delle proprie scelte. Se oggi siamo quello che siamo è anche per il nostro passato, nel bene o nel male. Dobbiamo esserne consapevoli. Nel 2015, il mio passaggio in Wanty è coinciso con un periodo molto complesso per me. Avevo perso la bussola. Non mi ritrovavo più. Ho avuto bisogno di supporto psicologico. Anche mia moglie in quel periodo ha intrapreso un importante percorso di studi in questo settore. Vuoi la verità? Senza quel percorso di analisi, non ce l'avrei fatta. Non avrei mai retto i lutti di Antoine e di Michele (Scarponi). Mi è servito tempo, tanto tempo. Ho dovuto capire perché facevo ciò che facevo. Ne avevo bisogno: lo facevo per i soldi? Per la fama? Per la fatica? Per prendere freddo e rompersi le ossa ad ogni caduta? No, assolutamente no. C'è qualcosa in più. C'è sempre qualcosa in più dietro ciò che vogliamo fare. Le motivazioni profonde sono altre. Dovremmo tutti trovare il tempo di chiederci il perché. Perché facciamo ciò che facciamo? Non è facile. Anzi, è molto difficile. Ma è importantissimo».

Foto: Claudio Bergamaschi


Umberto Inselvini: «Per farli stare meglio...»

«Magari sei lì, seduto su queste sedie di plastica, in un paese sperduto e passi agli atleti il loro sacchetto del rifornimento. Ci hai messo qualcosa che non si aspettavano e loro ti guardano stupiti e ti ringraziano. Anni fa, all'inizio della stagione, gli hotel aprivano apposta per le gare, talvolta erano freddi e allora noi compravano delle coperte elettriche per riscaldare il lettino dei massaggi. Vuoi mettere quando senti un ragazzo che ti dice: “Che caldo, dopo il freddo di oggi, era quello che ci voleva”. Ora puoi trovare di tutto in ogni angolo del mondo, una volta non era così. Allora, prima di partire per la Colombia o per l'Australia, pensavamo a comprare tutte quelle piccole cose che potevano servire per fare stare meglio i ragazzi. Per farli contenti. Per noi non chiediamo tanto. Ci basta uno sguardo soddisfatto o un pollice alzato. Un pizzico di gratitudine ci rende più felici di molto altro. Tanti ci dicono che siamo fortunati a fare questo lavoro: forse è vero, ma è un lavoro difficile, con tante varianti. Spesso si è stanchi e dopo una giornata in auto, lontano dalle famiglie, devi saltare giù dalla macchina e metterti a smontare e rimontare biciclette. Forse bisognerebbe viverlo dall'interno per capirlo meglio». Umberto Inselvini è massaggiatore dal 1984, fra i professionisti dal 1985, ne ha viste davvero di tutti colori ma, per i suoi ragazzi, ha sempre voluto solo una cosa: «Parlo della tappa del Gavia del 1988: i corridori arrivavano al traguardo congelati. Noi avevamo l'hotel lì vicino: dovevamo portarli a braccetto per le scale, farli distendere sul letto, avvolgerli in delle coperte e strofinarli forte, per riscaldarli prima della doccia. Certe volte li accompagnavamo noi in doccia, ancora vestiti, e li aiutavamo a spogliarsi. In quei momenti senti che loro hanno bisogno di te, ti senti utile, sai che li hai aiutati, li hai fatti stare meglio e così stai meglio anche tu».

Far stare bene gli altri o, per quanto, farli stare meglio: Inselvini spiega che l'essenza del massaggio è questa. «Dal punto di vista fisico il massaggio ti permette di smaltire in anticipo le tossine che il corpo accumula. In un certo senso velocizza un processo del tutto naturale. Qual è il punto? L'aspetto psicologico è importante. Se tu stai bene su quel lettino, se tu ti senti a tuo agio, se ti senti libero, il corpo reagisce meglio. Il mio compito non è solo massaggiare, il mio compito è mettere a proprio agio la persona, fare in modo che in quel momento stia bene, che possa riposarsi facendo ciò che preferisce. C'è chi vuole parlare della gara, chi di informatica, di calcio, o di casa. C'è chi vuole stare in silenzio e chi vuole leggere e rispondere ai messaggi. Io devo lasciare questa libertà, devo modellarmi sulle loro esigenze: sono lì per loro». Questo significa che da quel momento, dal momento in cui il ragazzo entra in camera, devi mettere da parte la tua vita: «Ci sono giorni in cui anche io sono nervoso, preoccupato, giorni in cui non sto bene. Sono cose di cui devi scordarti. Devi metterti al lavoro e pensare solo ai ragazzi. Non puoi permetterti di sfogare le tue ansie o preoccupazioni. Il ragazzo deve alzarsi alleggerito da quel lettino, non puoi appesantirlo con i tuoi problemi. Questo bisogna impararlo, soprattutto quando si lavora a contatto con gli altri: non dobbiamo mai scaricare sugli altri ciò che ci opprime o ci infastidisce. Allo stesso tempo è necessario restare ciò che si è, tenere viva la voglia di ascoltare e di capire. Solo così potrai fare un buon lavoro». Un lavoro che negli anni è cambiato molto pur mantenendo ferme alcune caratteristiche: «Sai, una volta al Tour de France, a fine cena, non avevi neanche voglia di andare in camera. Alcune camere erano anche senza aria condizionata e rischiavi di soffrire il caldo. Così uscivi in giardino e ti mettevi seduto sull'erba, tiravi tardi e ridevi e scherzavi con gli atleti. Adesso è cambiato molto: si va in camera, si guardano i social o si chiamano i parenti, anche dall'altra parte del mondo. Questo è importante: sentire la tua famiglia, poterci parlare, ti aiuta ed è un motivo in più per lavorare serenamente. Però toglie qualcosa al rapporto fra colleghi e al rapporto con i ragazzi. Ci si parla meno, ci si conosce meno nei momenti di spensieratezza. Ci si vede anche meno: le gare sono aumentate e si disputano in sempre più paesi. Con alcuni colleghi ti vedi a dicembre e dopo la conclusione del Tour de France. Non dico sia peggio, è diverso. Prima c'erano anche più squadre che investivano, oggi ci sono squadre con molto budget che possono permettersi stipendi molto alti. La carriera del corridore finisce presto e i ragazzi scelgono anche in base a questo aspetto. Non perché non si trovino bene in squadra, ma perché la paura dei mancati rinnovi li induce ad assicurarsi un contratto fino a che possono. A novembre alcuni corridori non sanno ancora cosa ne sarà del loro futuro. Qualche anno fa a maggio, giugno, si sapeva. Non è facile. Anche loro hanno una famiglia».

Nello stesso modo sono cambiate le persone e anche lo stesso Inselvini: «Quando ho iniziato a massaggiare non ero ancora sposato, non avevo figli, avevo ventisette anni. Certe volte mi ritrovavo a massaggiare atleti con più anni di me. Ora ho due figli e massaggio ragazzi che hanno l'età dei miei figli. Certe volte massaggio anche i figli di atleti che ho avuto a inizio carriera. Le esperienze di vita ti aiutano sempre a capire e magari a cambiare. Ho sessantadue anni e alcuni mi dicono: “Ma vai ancora in giro con i corridori?”. Sì, perché il ciclismo è una passione e sul ciclismo ho basato gran parte della mia vita. Mi sono sposato al giovedì e non al sabato per avere quindici giorni per il viaggio di nozze. Ho vissuto con il mio primo figlio i primi quindici giorni dopo il parto in quanto la stagione non era ancora partita e sono tornato in aereo dalla Polonia per il parto cesareo di mia moglie quando è nato il secondo. Ricordo tutte le vacanze invernali con i compiti dei bambini per fare in modo che, pur perdendo qualche giorno di scuola, non rimanessero indietro con il programma». Questo lavoro nato per caso e proseguito per scelta: «Quando ho smesso di correre, a ventitrè anni, mi sono trovato a fare la considerazione che fanno tutti i ragazzi: “Adesso cosa faccio? Devo trovarmi un lavoro”. Ho fatto per un paio di anni l'assicuratore poi, da una telefonata con il mio ex direttore sportivo, alla vigilia della Settimana Bergamasca, è nato tutto questo. Non avrei mai pensato di fare questo lavoro per così tanti anni e invece sono ancora qui. Il mio è un lavoro che fa scorrere il tempo molto velocemente: viaggi, ti sposti, hai stimoli continui, quando torni a casa ti godi la famiglia, ti organizzi quei mesi prima di ripartire e poi riprendi la corsa».

Umberto Inselvini ha una parola chiave per svolgere il proprio lavoro: «Dico sempre che è fondamentale il rispetto dei ruoli. Io devo attenermi alle mie competenze e rispettare quelle altrui. Rispetto a qualche anno ci sono molte più figure che hanno competenze specifiche all'interno delle squadre. Se ognuno fa ciò per cui ha competenze si lavora meglio, le cose vanno meglio e si è anche più sereni». Certo, perché poi c'è il momento del giudizio. Momento inevitabile: «Tutti veniamo giudicati per il nostro operato. È giusto: percepiamo uno stipendio e dobbiamo portare a casa dei risultati. Qui c'è anche un altro aspetto: quello della comprensione. Quando vinci, il giudizio è facile. Quando non vinci ma aiuti gli altri è più difficile. I capitani non sarebbero lì senza chi li aiuta. Personalmente non amo nemmeno chiamarli gregari: sono ragazzi che aiutano altri ragazzi. Questi ragazzi sono importantissimi per la squadra. Fondamentali. Questa utilità, però, non è lampante come quella delle vittorie. Deve essere compresa. L'opinione pubblica, certe volte, la trascura e fornisce giudizi che sono massi. La realtà di un ciclista è fatta di molti aspetti e molte sfaccettature, non basta guardare l'ordine d'arrivo per capire cosa hanno dato i ragazzi quel giorno. Quello che conta è quello che hanno dato. Bisognerebbe pensarci due volte prima di esprimere giudizi senza sapere».

Foto di Ilario Biondi per gentile concessione di Umberto Inselvini


Andrea Vendrame: «La mia rivoluzione»

Andrea Vendrame è un’opera puntinista. Le opere puntiniste hanno questa caratteristica: ogni dettaglio, ogni puntinismo, sembra quello che è e tanto altro se proiettato al di fuori della cornice in cui è inserito. Un dettaglio che si scompone e si ricompone tramite le pupille che lo fissano. Lo stesso dettaglio, però, è imprescindibile per l’opera che lo comprende. Ogni singolo punto è essenziale, come una finissima tessitura. Vendrame è così. Ti si presenta con quell’aria ironica e scanzonata che è il non plus ultra dell’intelligenza. Sa tenere attento l’ascoltatore e lo fa con gli aneddoti di cui infarcisce il racconto: «A maggio avevo detto al mio procuratore, Carera, che avrei voluto correre in Francia, in una squadra francese ed essere l’unico italiano. Abbiamo analizzato le diverse proposte e scelto per l’Ag2r La Mondiale. Arriva il giorno di partire per il ritiro. Il primo giorno ci aspetta una passeggiata nei boschi, tutti assieme. Devo dire che mi ero accorto che fra loro i ragazzi parlavano solo francese e scrivevano solo in francese ma ero fiducioso. Mi dicevo: “Ma sì, dai. Adesso ti chiederanno se parli francese, ti parleranno in inglese o faranno qualcosa”. Il francese non lo conoscevo molto bene, non mi restava che aspettare. Tu pensi che qualcuno sia venuto da me? Ma figurati! Non mi filavano proprio. Ho preso il telefono e, appena sono rimasto solo, ho chiamato il mio procuratore: “Puoi parlare? No, volevo chiederti: ma che scelta sbagliata abbiamo fatto?”». Ad ogni aneddoto una sensazione diversa. Ci sono casi, come quest’ultimo, in cui si ride assieme e altri in cui emerge un profondo senso di fierezza.

«Sono molto legato al mio successo alla Tro Bro León. In parte perché non me lo aspettavo assolutamente e, come tutte le cose inaspettate, è più bello. In parte per come è maturato. Ad un certo punto ho chiesto all’ammiraglia se qualcuno potesse portarmi una borraccia d’acqua. Prima non risponde nessuno, poi sento la voce di Cheula: “Vieni a prenderla tu, sei rimasto da solo”. Sono riuscito a vincere una corsa da solo. La sera sono tornato in albergo con la consapevolezza di chi sa che sta facendo il mestiere che fa per lui. L’anno scorso, al Giro, sono arrivato secondo nella diciannovesima tappa, dopo due salti di catena. Mi è spiaciuto per il secondo posto ma ho fatto un’ulteriore scoperta: quanto la gente riesca a ricordarsi di te e ad immedesimarsi nelle tue sfortune. Ho sentito tanta vicinanza, tanta immedesimazione». Questa ironia di Vendrame, questo piacere nel raccontare, viene da lontano. Da un passato che ne è l’esatto contrario. Già, perché Andrea Vendrame ha dovuto meritarselo questo sguardo sulle cose e lo ha fatto nell’unico modo possibile: «I miei genitori sono separati. Mio papà non ha mai digerito molto questa mia scelta. Mi diceva che non sarei mai riuscito a sfondare, a diventare un campione. Mi consigliava di lasciar perdere, mi spiegava che avrei dovuto mettere la testa a posto e cercarmi un lavoro. Discutevamo molto quando ero ragazzo. Io volevo fare il ciclista, avevo mia mamma e mio zio che mi appoggiavano e proseguivo per la mia strada. Papà si è ricreduto dopo, quando sono passato professionista e sono arrivati i risultati. Forse anche troppo facile così, ma è quanto è successo. I nostri rapporti sono migliorati in quegli anni».

Non è mai stato facile. In parte perché facile non è mai e in parte perché le vicende della vita ci mettono sempre del loro. Il sette aprile del 2016, mentre è in allenamento, Andrea Vendrame viene investito da un’auto proveniente dal senso di marcia opposto: «Se non avessi avuto il carattere che ho, non credo che mi sarei mai rialzato da quel giorno. Ero distrutto. Lo ammetto: nei giorni dopo l’incidente ho davvero avuto paura che fosse tutto finito. Per qualche tempo mi sono anche convinto a cercarmi un lavoro come diceva papà, sfruttando il mio diploma. Poi, per fortuna, le cose sono ripartite». Sul tema della sicurezza stradale l’affondo più severo: «Perché non proviamo a guardare quello che accade negli altri stati? Da noi continuiamo a parlare del metro e mezzo di distanza e di piste ciclabili. Secondo me bisognerebbe ampliare la visuale. Ci rendiamo conto che abbiamo piste ciclabili che escono accanto ad abitazioni familiari? Noi magari andiamo a quaranta all’ora: come facciamo ad usufruire di quelle piste? Esce una macchina dall’abitazione e ti carica sul cofano. Se va bene sei tutto rotto, se va male non ci sei più. Questa estate mi sono allenato più volte nel Principato di Andorra. Dietro di me c’era una fila incredibile di auto. Stavano lì, tranquille. Senza insultare o suonare il clacson. Non passavano nemmeno quando facevo cenno di sorpassarmi. Mi hanno detto: “Noi abbiamo rispetto dei ciclisti e li superiamo solo negli appositi spazi”. Da noi cosa succede? Da noi sembra una gara a chi ti passa più vicino o a chi fa la manovra più sconsiderata. Perché? Per risparmiare qualche minuto. Ma ci rendiamo conto che siamo tutti uomini? Si tratta di vite. Bisognerebbe partire dalla scuola guida e avere tutti un poco più di buon senso».

Se Andrea Vendrame dovesse scegliere un aggettivo per descriversi, sceglierebbe “rivoluzionario”: «Altrimenti perché sarei venuto a correre in Francia? Vedi che tutto torna? A parte gli scherzi: nel ciclismo sono così, rischio e improvviso molto. Sempre con l’adeguata preparazione, ci mancherebbe. Nella vita no, nella vita sono diverso. Ho imparato a scindere: ho figure di riferimento per la vita e figure di riferimento per il ciclismo. Sono molto riservato e i piani devono restare separati». Del suo lavoro apprezza molto l’aspetto del “gruppo”: «Penso una cosa: se al ciclismo togli il lavoro di squadra e la sensazione di famiglia che si crea, gli togli tanto tantissimo. Ma non vale solo per il ciclismo, vale per ogni lavoro. Se non resta quella, cosa resta? In Ag2r ho trovato questo. Dico sempre che Androni era una piccola famiglia, Ag2r una grande famiglia. Sono importanti entrambe. Ognuno fa quello che può con quello che ha e, se lo fa bene, merita riconoscenza».

Ogni tanto, qualche giovane avvicina Vendrame e gli chiede consigli: «Alla base di tutto c’è il fatto che devono divertirsi. Questo sempre. Ovvio che quando inizia a diventare qualcosa di simile a un lavoro, anche prima del professionismo vero e proprio, le cose cambiano. Ma io lo dico sempre: non devono fermarsi. Anche se non vincono, non devono fermarsi o buttare tutto all’aria. Dopo ogni caduta, si torna in sella: è un dovere. Si riflette, si capisce dove si è sbagliato ma non si molla. Il passaggio al professionismo è un passo davvero difficile, oggi in particolare. Se ci credono, però, hanno il dovere di tentarci». Già, perché Andrea Vendrame sa bene cosa significa crederci. Lo sa per come ama il suo lavoro, per l’impegno e la coerenza che ci mette: «Non mi ha mai deluso il mio mondo. Certo, ci sono stati tanti cambiamenti e tanti step da compiere. Gradualmente sono cambiato anche io, certo. Ma non sono stato deluso. Fossi stato deluso, non sarei qui. Fossi stato deluso, avrei cambiato strada. Non sarei rimasto in un mondo che non mi piaceva».

Foto: per gentile concessione di Andrea Vendrame, Getty Images


Martina Fidanza: «Così come sono»

Lo si capisce subito. Bastano pochi minuti di chiacchierata per averne la certezza: Martina Fidanza è una ragazza coraggiosa. Molto coraggiosa. Ed è coraggiosa perché non ha paura di raccontarsi, nemmeno in quelle sfumature caratteriali che i più omettono di dire. Sì, le omettono perché poi la società ti convince che certe cose non vanno dette, altrimenti vieni considerato debole o magari non vieni proprio considerato. Lei questa cosa l’ha capita bene, lei sa quanto quelle piccole fragilità siano preziose, siano il bello di ciascuno di noi, per quanto male possano fare e le racconta: «Sono una ragazza estremamente emotiva, da sempre. L’emotività è una sorta di cassa di risonanza che amplifica le sensazioni e, certe volte, le rende difficilmente sopportabili. L’emotività ti fa sentire di più. Io sono così, nella vita e nel ciclismo. Per questo patisco un poco, in particolare prima delle gare. Mi prende l’ansia e la paura di sbagliare, di fallire. In tanti mi hanno detto: “Ma perché fai così? In fondo, cosa succede di grave, se sbagli. Non succede nulla, proprio nulla”. Hanno ragione. L’errore forse andrebbe vissuto diversamente ma dentro di me ho questa spinta. Non so da dove mi arrivi, da cosa derivi. Non me lo so spiegare. Ci combatto e cerco di razionalizzare le situazioni ma poi quello che senti dentro vince quasi sempre».

Martina spiega che ha un rapporto complesso con gli errori, con i propri errori: «Sono molto severa con me stessa e mi giudico molto. Tra l’altro in maniera ferrea. Quando va male una gara fatico a vedere gli errori lucidamente. Mi colpevolizzo, mi dico che non ho fatto abbastanza, che avrei dovuto fare di più. Capisci che, a lungo andare, questo approccio è distruttivo. Mi salva papà». Papà che non è un papà qualunque. Non esistono papà qualunque, tutti i padri sono un poco speciali, ma il papà di Martina Fidanza, parlando di ciclismo, è un maestro. Si tratta di Giovanni Fidanza: «Non è scontato che il rapporto tra genitori e figli che fanno lo stesso lavoro fili liscio. Certe volte si può avvertire la pressione o il giudizio. Papà è esattamente l’opposto. Lui mi calma, lui mi mostra il lato buono delle situazioni, lui mi salva del pessimismo di fronte agli errori. Se c’è un momento della mia infanzia che ho sempre amato sono state le pedalate con lui. Lì ho imparato ad avere pazienza, a lasciare che il tempo passi. Giovanni riesce a spiegarmi dove sbaglio, chiaramente ma con una delicatezza tale che oltre l’errore si vede sempre la possibilità di fare meglio».

Martina è nata nel 1999 ed ha ventun anni ma il carattere che ha la rende molto più consapevole di alcune realtà: «C’è stato un periodo in cui mi raccontavo molto sui social network. Raccontavo proprio me stessa oltre l’aspetto puramente ciclistico o lavorativo. Mi sembrava giusto farlo e mi piaceva. Poi ho capito. Proprio l’emotività fa si che ciò che mi viene detto mi resti attaccato addosso. Di più: l’emotività mi fa ascoltare molto ed anche assorbire molto di ciò che ascolto. Ho iniziato a sentire cose che non mi piacevano, giudizi gratuiti. Ci sono stata male e da allora ho cambiato modo di usare i social: le persone non ti conoscono e non sai mai come possono interpretare ciò che scrivi, tanto più che giudicare è molto facile. Così penso sempre tanto prima di pubblicare una foto o un post. Penso a quello che vorrei dire io e a quello che potrebbero capire gli altri. Ci sono tante cose che avrei voluto postare e non l’ho fatto. Credo sia giusto così». Quando parla di ciclismo parla di pista, di velocità, di adrenalina, di emozioni ma anche di sensibilità: «Nei momenti più belli ci sono indubbiamente le vittorie: lì coroni ciò per cui hai lavorato. Lì dai un significato a molte cose che qualche volta rischiano di perderlo. Quando sono caduta al mondiale, per esempio: un momento davvero difficile. Ma ci sono altri momenti per cui vale la pena di fare questo lavoro e sono tanti. Personalmente ricordo che, da piccola, sognavo di entrare nelle Fiamme Oro. Sai quei significati che quando sei bambino attribuisci alle cose? Per me entrare nelle Fiamme Oro voleva dire essere fra le più forti, voleva dire essermi realizzata. Ho pensato tante volte a come avrebbe potuto essere quel giorno. Oggi lo so, quel giorno è il mio orgoglio».

Dicevamo della sensibilità: «Credo che questo periodo, quello legato alla pandemia, debba insegnare a tutti a comprendere il lato sensibile degli atleti. La loro umanità. A fare qualcosa per quella sensibilità e quell’umanità. Perché i risultati arrivano da lì prima che dalla prestazione atletica. Se non stai bene mentalmente, se non sei sereno, diventa tutto difficile. Questo periodo è stato difficile perché non sapevamo nulla, non sapevamo cosa ne sarebbe stato del nostro lavoro durante l’inverno». Quella stessa sensibilità che le fa dire quella frase, davvero intensa, parlando di ciclismo femminile: «Noi cosa possiamo fare in più? Noi ci alleniamo, facciamo fatica e facciamo gli stessi identici sacrifici dei nostri colleghi uomini. Ci si può chiedere altro? Purtroppo il problema è economico, dovuto agli sponsor. La scelta di affiancare il calendario femminile a quello maschile ha portato dei risultati, come il WorldTour. Speriamo che si prosegua in questa direzione. speriamo che le cose cambino perché ce lo meriteremmo anche».

Martina Fidanza ci confida che, da bambina, il suo modello non era molto lontano. Era la sorella Arianna: «Immaginati di crescere vivendo i successi di una sorella come la mia. Ti senti felice per lei e diventa il tuo modello, la tua ispirazione. Essendo una sorella maggiore questo vale ancora di più. Lei va davvero fortissimo. Molti mi chiedono perché non ci alleniamo molto assieme. Perché mi stacca, io non vado forte come lei. Non so come faccia. Ci completiamo perché ci vogliamo molto bene ma siamo molto diverse. Lei è un poco più lucida nelle situazioni e questo mi aiuta molto». La grande passione di Martina Fidanza è il disegno, per questo ha scelto il liceo artistico: «Sono sempre stata molto testarda. Volevo fare il liceo artistico e l’ho fatto. Volevo uscirne con buoni voti e ci sono riuscita. Io mi sono trovata molto bene ma non è per tutti così. Credo sia un problema di società: la scuola tende a capire poco i ragazzi che fanno uno sport ad alto livello. Io ho fatto davvero tanti sacrifici e sono contenta di averli fatti. Studiavo ad orari improponibili. Ma non si può chiedere questo a tutti. Servirebbe maggiore comprensione». Se le chiediamo di rappresentarci il ciclismo su un foglio, lo immagina come un disegno astratto con tanti colori e tante sfumature: «Le parole, ogni tanto, non riescono a comunicare. Succede a tutti, no? Ci sono alcune cose che non riusciamo a dire a parole. Invece, con un foglio bianco davanti, tutti riusciamo ad esprimere ciò che proviamo. Basta una macchia di colore. Non serve essere artisti ed è un bene che l’arte sia accessibile a sempre più persone. Perché è un modo per comunicare, per trasmettere qualcosa agli altri, per fargli sentire qualcosa. Ne abbiamo bisogno. Tutti».

Foto: per gentile concessione di Martina Fidanza


Marco Frapporti: «Non mi mordo la lingua»

La fuga, per Marco Frapporti, non è solo la fuga, non è solo l'andare in avanscoperta per chilometri e chilometri, spesso da soli e con la consapevolezza che si tratta di un gioco impari, perché il gruppo ti inghiotte. La fuga è un modo di essere: «Io sono così, vivo così. Molto all'estremo, in prima persona senza troppe paure di assumermi le mie responsabilità. Ero così anche da ragazzino: se dovevo dire una cosa la dicevo, anche se poteva farmi danno. Non so controllarmi ed è un bene ma anche un male: a molte persone non piace la schiettezza, molte persone preferiscono le vie di mezzo o le mezze verità. Se vedo un torto o un qualcosa che percepisco come ingiusto, devo intervenire. Devo dire la mia e difendere la persona che si sente accusata. Sarebbe meglio stare zitti? Può essere ma non mi interessa».

Marco e Simona, sua sorella, correvano sin da ragazzini. I genitori gestiscono un'azienda e di ciclismo non conoscono quasi nulla ma vedendoli così appassionati decidono di buttarsi in una nuova avventura: raccolgono qualche sponsor, investono loro risparmi e danno vita a una squadra di ciclismo che cresce una sessantina di ragazzi, da giovanissimi a juniores: «Mi mettevo in testa al gruppo e scattavo. Per me correre significava stare lì davanti. Ritorna quel concetto del metterci la faccia: non è detto che si debba vincere ma se non ci si prova non ha senso. Ho fatto così per tante gare e alla fine mi sono reso conto che quel modo di interpretare le corse mi riusciva bene. Potrei dire che mi apparteneva. Sai, nell'andare in fuga, c'è qualcosa che si impara e qualcosa che appartiene al tuo dna». Il discorso si infittisce e Frapporti snocciola ogni meccanismo delle fughe: «Non è che in fuga ci si trovi. Quelli che aspettano di trovarsi in fuga, sono quelli che poi, in fuga, non vedi mai. Devi correre davanti e volere fortemente la fuga. Non a caso si dice "portare via la fuga". Vuol dire farsene carico. Puoi imparare, certo, ma una parte è istintuale. A tanti corridori si chiede di andare in fuga ogni mattina, per magari cinque o sei tappe. Non ci riescono, ci provano ma non entrano nelle fughe. Questa è una componente che o ti appartiene o non ti appartiene. C'è poco da fare. Poi subentrano altri meccanismi, quelli che in televisione non si vedono e si raccontano poco. Per esempio il barrage. Cos'è? Beh, quando parte la fuga puoi scegliere cosa fare e lo scegli in base a diversi fattori. Il primo è se nella fuga hai un uomo della tua squadra. Se non lo hai devi andare in testa al gruppo e tirare a tutta per riprenderla e, magari, provare a ripartire. Se lo hai devi "coprirgli le spalle". Noi lo chiamiamo "barrage". In sostanza ci sono tratti di strada più complessi, con strettoie, curve, dossi. Ecco, se hai un compagno in fuga, devi metterti in testa al gruppo e rallentarne l'andatura così da favorire il tuo compagno. Io lo ho fatto diverse volte per Giovanni Visconti, quest'anno».

Marco Frapporti racconta che il ciclismo per lui, Simona e Mattia, il fratello minore, è un forte collante: «Non esiste giorno in cui, sentendoci, non ci si dica qualcosa del nostro lavoro. Ci consigliamo o ci rimproveriamo, prendiamo spunto gli uni dagli altri e, magari, ci chiediamo, cosa avremmo fatto noi in quella situazione. Io e Simona ci somigliamo molto per indole caratteriale, Mattia no. Mattia è proprio tranquillo, uno dei classici ragazzi del tipo "se cade il mondo, mi sposto un poco più in là". Devo dirti che lo invidio, perché è fortunato, vive molto meglio rispetto a me». Di sicuro, quello che non manca a Marco è l'intensità che si riverbera sia sul fare che sul raccontare: «Provo sempre a vincere, purtroppo sono anche abbastanza sfortunato. Però mi emoziona vivere la corsa in un certo modo. Ricordo un paio di anni fa, in Israele, venni ripreso a due chilometri dal traguardo. Sì, ti spiace aver perso, ti rode, però per come sono fatto io ero comunque contento. Anche solo per tutta quella gente che ti applaude e per quei luoghi nuovi che hai visto. Di sfuggita ma li hai visti e tante persone non hanno questa fortuna».

Per parlare in maniera approfondita di Bruno Reverberi, di Gianni Savio e di Luca Scinto, tre figure che hanno segnato e segnano la sua vita da atleta, servirebbe un libro ma Frapporti ne tratteggia bene qualche caratteristica: «Reverberi ha sempre creduto che la differenza la fanno i corridori e, forse per questo, dei materiali o di altre finezze, si è interessato poco. In parte ha ragione perché se non vai, la bicicletta non può farci nulla. I materiali ed il contorno, però, sono importanti e credo sia sbagliato non considerarli. Savio è un "uomo passione". Ed è questa sua passione a fargli fare tutto ciò che fa, condivisibile o meno. Lui si butta molto nelle cose, magari anche senza conoscerle. Io, per esempio, non ho mai condiviso i suoi continui paragoni fra calcio e ciclismo: sono sport diversi, è inutile raffrontarli. In ogni caso, è un grande scopritore di talenti e allestisce squadre di ottimo valore. Scinto, fra i tre, è quello che sa meglio motivare. Ti tira fuori una grinta che nemmeno tu pensi di avere. Credo si noti anche dalla televisione». E Frapporti ha mai pensato a un futuro in ammiraglia? «Tanti mi dicono che mi vedrebbero direttore. Non lo so. I miei hanno un'azienda e, se dovessero aver bisogno, io non esiterò un attimo ad andare a lavorare da loro. Se mi arrivasse una proposta all'interno dell'ambiente del ciclismo la valuterei seriamente: questo è il mio mondo».

Lo sguardo su una realtà è tanto più interessante quanto più viene da chi quella realtà la vive. Ancor di più se chi fornisce questo sguardo non bada a ipocrisie e convenienze d'occasione: «Il ciclismo è un mondo solare, senza dubbio. Ma, con altrettanta franchezza, devo dirti che non è un mondo meritocratico. Non c'è meritocrazia. Molti interessi sono prettamente di natura economica e vengono gestiti da procuratori che hanno voce in capitolo e forza contrattuale. Questo va anche a discapito di corridori forti, che hanno competenze e professionalità. Non voglio peccare di presunzione ma credo che mi sarei meritato di più nella mia carriera. Questo detto con il massimo rispetto delle realtà per cui lavoro ed ho lavorato. Realtà a cui sono riconoscente».

Marco Frapporti non è solo questo. C'è tanto altro e prima o poi ve lo racconteremo ma, in primis, una novità: «Questi giorni a casa li sto vivendo molto bene. Mi sto dedicando alla mia compagna: è incinta, a maggio diventerò papà. I medici ci hanno detto che il termine è fissato per il 24 maggio. Speriamo tardi un poco e mi dia tempo di tornare dal Giro d'Italia».

Foto: Marco Frapporti, Instagram

Jacopo Guarnieri: «Alla mia ruota Démare»

«Eravamo in riunione sul bus, Arnaud ha guardato tutti negli occhi e poi ha guardato me: ''La strategia per la volata la decidi tu, Jacopo''. L'idea era questa: se la tattica è decisa dal direttore sportivo, c'è sempre la possibilità di ritrattare le proprie responsabilità di fronte agli errori, Démare, quest'anno, ha voluto cambiare per evitare questo meccanismo. Devo ammettere che non è stato facile: la prima volta, ad Abu Dhabi non ho preso la parola durante la riunione, non ho organizzato come avrei dovuto e la volata è andata male. Quella sera lo ho detto a tutti: ''Da domani si fa come dico io''. Bene, la tappa successiva non era una tappa per velocisti ma abbiamo provato tutti i meccanismi; ad ogni accenno di vento provavamo i ventagli, per dirti. Alla fine è un approccio mentale: se si vuole vincere, si va davanti e ci si assume le proprie responsabilità». Jacopo Guarnieri racconta così quei giorni d'inverno in cui ha preso forma un nuovo modo di correre per la Groupama-FDJ: «In televisione sembra che il mio lavoro inizi ai meno tre chilometri dal traguardo. In realtà inizia molto prima, magari a quaranta o cinquanta chilometri dall'arrivo. Arnaud si mette alla mia ruota e sa che può fidarsi, mi segue e riesce a trascorrere in tranquillità quel tratto di strada. La volata è un esercizio molto stressante, evitare un rilancio o una curva pericolosa, sapendo che chi ti guida ci penserà per te, è fondamentale. Lui in quei momenti può non pensare o pensare il meno possibile».

La costruzione del rapporto col suo capitano, per Guarnieri, è partita dalla naturalezza per poi approfondirsi: «All'inizio non c'è stato bisogno di capire molto. Sai, nel tempo, lavorando, si sviluppano meccanismi istantanei di comprensione. La conoscenza va oltre: ora sappiamo di cosa ha bisogno l'altro, quando le cose vanno bene ma soprattutto quando non vanno. Sappiamo come motivarci perché ci conosciamo». Qui Jacopo Guarnieri scava a fondo, una sorta di introspezione psicologica del suo capitano: «Arnaud è come lo vedete: calmo, pacato, estremamente educato. Una persona composta e non eccessivamente appariscente. Ma non è impalpabile, la sua presenza, magari silenziosa, si sente forte. Questo mi piace molto. Credo che la bicicletta, ma in realtà potrei dire lo stesso di qualunque altro sport, sia per Démare il modo per tirare fuori una grinta che altrimenti rimarrebbe nascosta. C'è una profonda differenza tra Arnaud pedalatore e Arnaud nella vita di tutti i giorni. Li accomuna la chiarezza: non sentirai mai Démare gridare ma stai certo che ti dirà tutto quello che pensa. E sarà chiaro, molto chiaro. Stimo questo lato del suo carattere».

Guarnieri spiega che, alla fine, per fare bene il suo lavoro, la stima per il capitano è imprescindibile, essere d'accordo su alcuni punti fermi è essenziale, come assomigliarsi, almeno in parte. La sua franchezza nel racconto, in questo senso, lo avvicina al suo capitano: «Non mi sono quasi mai trovato nella situazione di dover considerare piani b, durante la mia vita da ciclista. Da un lato ho sempre ottenuto buoni riscontri, dall'altro non ho mai dovuto rincorrere contratti all'ultimo istante. Sì, mi sono iscritto a Giurisprudenza e qualche idea l'ho sempre avuta ma restavano sullo sfondo. Ora, se ci rifletto, credo sia il caso di iniziare a considerare un piano b. Non per altro: non sono più di primo pelo in questo mestiere, ho certamente ancora qualche anno buono davanti a me, ma bisogna anche sapersi fermare. Ho qualche progetto ma, per scaramanzia, non lo dico. Il mio amore per questo lavoro è aumentato con gli anni. Il ciclismo è cambiato? Ma certo, come tutte le cose. Di fronte ai cambiamenti, però, hai due strade: lamentarti e rendere tutto molto più pesante oppure provare a capirli e farne parte. Se fai così vivi meglio e lavori anche meglio».
Ci racconta che in questi giorni sta vivendo ''l'apatia'': «Il Giro d'Italia è finito da un mese: da un lato sembra ieri, dall'altro il tempo sembra non passare più, sembra un'eternità. Non ho grandi mancanze ma mi mancano tutte le cose più normali: stare a tavola fino a tardi con gli amici, fare una passeggiata, andare ad un concerto degli Eels o di qualche gruppo rock. Forse mi mancano anche i traguardi che il correre in bicicletta pone. Quando si riprenderà, questa apatia si smorzerà». Nel suo lavoro porta una caratteristica caratteriale che definisce ''croce e delizia'' della sua persona: «Non è che sia conservativo ma per indole riesco meglio nelle corse a tappe. Forse è anche un bene per gli uomini con cui lavoro. Anche nella vita sono così: magari mi godo meno il momento ma penso al domani, progetto continuamente. I più giovani del gruppo lo sanno. Stefano Oldani, al suo primo Giro d'Italia quest'anno, era sempre alla mia ruota. Un giorno mi ha detto: ''Ti sto vicino perché mi fido, anche nelle tappe di montagna chiami il ''gruppetto'' al momento giusto. Mi sento sicuro''. Fa piacere. C'è da dire che questi giovani vanno alla grande».

Guarnieri vive in campagna e un'altra mancanza è data dalle persone. L'ultimo uomo di Dèmare sa bene cosa sia la fiducia e quanto faccia stare bene: «Ho lavorato in diverse squadre e mi sono sempre trovato bene. Sono anche stato fortunato a trovare questi ambienti, ci mancherebbe altro. In Groupama-FDJ c'è qualcosa in più, qualcosa che non ho mai trovato altrove. Si tratta di una considerazione profondissima per il ruolo del corridore. Una considerazione che va oltre le tattiche di gara, che, come ti ho detto, sono decise da noi, in molti casi. Qui sto proprio parlando di ascolto su ogni dinamica che possa riguardarci: la nostra opinione è sempre presa in considerazione. Che si tratti di materiali o altro, non conta. A fine stagione ci chiedono cosa è andato bene e cosa crediamo sia da migliorare e vogliono che la nostra risposta sia il più sincero possibile. Ascoltano attentamente quello che ci diciamo e ci lavorano. All'interno di Groupama-Fdj c'è una grande voglia di mettersi in gioco, di cambiare. Io lo dico sempre quando si parla del team Sky: loro hanno innovato ma sono partiti dal nulla. Cambiare abitudini consolidate è un'altra cosa, anche più difficile, se vuoi, visto l'animo umano. Credo sia uno degli elementi più importanti per fare gruppo. Non hai idea di quanto in più si sia disposti a dare, quando ci si sente considerati».

Foto: Jacopo Guarnieri/Instagram


Davide Formolo: «Avrai, avrai, avrai»

Il cellulare di Davide Formolo squilla alle diciannove: «Ti stavo aspettando». Non abbiamo tempo di dire granché, perché Davide riprende subito a parlare, una sorta di confidenza a cui tiene tanto: «Ma sai che sono proprio felice? Tutti mi dicevano: ''Così diventi papà'' e io rispondevo che sì, sarei davvero diventato papà. In realtà non puoi capirlo fino a quando non accade e ti vedi lì quell'esserino che piange appena nato. Un'emozione fortissima. Sono contento di essere qui, a casa, con Mirna, mia moglie, e Chloe, la nostra piccola. L'abbiamo chiamata così. In questo momento non potrei immaginarmi da nessun'altra parte. Non riuscirei mai a pensare di partire per qualche gara. Per fortuna adesso non ce ne sono, per fortuna adesso posso stare qui con loro». Davide Formolo era alla Vuelta a Espana fino alla penultima tappa, se è tornato un giorno prima è stato perché voleva vederla nascere la sua bambina: «Tre giorni prima di partire per la Vuelta, il ginecologo ci aveva detto che la bimba era ''bassa'' e sarebbe nata entro dieci giorni. Mi aspettavano tre settimane di Vuelta; il mio lavoro è importante ma come puoi perderti la nascita di un figlio? Non c'è nulla che valga tanto. Sono stato abbastanza agitato in questa Vuelta: appena finiva la corsa correvo ad accendere il cellulare, controllavo se c'era qualche messaggio di mia moglie. Lo stesso facevo nel pieno della notte o al mattino. Pensavo di trovare una foto sua con la bimba, pensavo che non sarei mai riuscito a tornare in tempo. Poi c'è questa situazione, quella legata alla pandemia, e i voli sono bloccati: per tornare a casa da Madrid ho dovuto fare scalo ad Amsterdam e poi a Nizza. Non ce l'avrei mai fatta ad essere a casa in tempo, ma volevo perdermi meno tempo possibile di mia figlia. Invece lei mi ha aspettato. C'ero anche io quando è nata».

Davide Formolo è un mulino di parole, a volte squillanti, a volte increspate dall'emozione: «In questi giorni ci stiamo scoprendo a vicenda. Per noi è la prima volta e non sappiamo tante cose. Ma anche per Chloe sono i primi giorni. Ha un pianeta da scoprire, per lei è tutto nuovo. È bello stare ad osservarla». Davide che è cresciuto in Valpolicella: «Fossi rimasto nelle mie terre, forse avrei fatto il contadino. Sono cresciuto lavorando la terra, con mio nonno e mio zio. Dopo la scuola, al pomeriggio andavo nei campi. Però, appena avevo un momento libero prendevo la bici e via, pedalare». Il legame con papà Livio è un legame fatto di tutte quelle cose che hanno condiviso. «Mi accompagnava a nuoto, andavamo assieme in bicicletta o a camminare nei boschi. Ha sempre tenuto al fatto che facessi sport perché gli piaceva vedermi mentre mi divertivo. Il Giro d'Italia? Ma io fino a diciassette, diciotto anni nemmeno sapevo cosa fosse il Giro d'Italia. Ho iniziato a correre, sono arrivati i risultati e va bene così ma io non mi sono avvicinato alla bicicletta per quello. Adesso che abito al mare, per esempio, non vedo l'ora venga il momento di immergermi con la tuta da sub. Lo devo a papà, a tutto quello che mi ha fatto scoprire». Racconta di essere testardo, nella vita come nel lavoro: «Può essere un bene o un male. A scuola ricordo che dividevo le materie fra quelle che mi interessavano e quelle che non mi interessavano. Delle prime sapevo tutto, delle seconde nulla. E potevano così dirmi che non era giusto, io andavo avanti per la mia strada. Sai quante volte, magari in prossimità di una gara, non guardavo più i libri e pensavo solo a correre?».

Correre, già. «Questa situazione non mi spaventa per il ciclismo. Il fatto di aver portato a termine questa stagione deve rassicurare; se ce l'abbiamo fatta quest'anno, possiamo farcela sempre. Le bolle hanno resistito, siamo stati messi nelle condizioni di lavorare al meglio. Questa situazione mi spaventa per gli sponsor che saltano, per le squadre che chiudono, e per tutte le persone che rischiano il lavoro. Ma il ciclismo è forte, il ciclismo resiste. Dobbiamo crederci di più. Questo sì''. Il ciclismo è forte ma non solo: ''Penso a Tadej Pogačar: lui vive tutto con la spontaneità di un ragazzo di vent'anni. Il ciclismo è cosa semplice, alla fine. Dobbiamo solo spingere due pedali. L'importante è fare il massimo e spingere al meglio su quei pedali. Cerchiamo di non appesantire le realtà che viviamo: lavoriamo bene e, quando possibile proviamo a dare spettacolo. Le persone lo meritano ed è giusto farlo. Però anche loro devono capire una cosa. Quando sono in gara mi concentro sulla corsa e non mi accorgo molto di quello che accade intorno. Tuttavia ci sono tanti tifosi che vengono a sbraitarti nell'orecchio mentre sei a tutta e questo non fa molto piacere. Anche adesso: rispettiamo le distanze di sicurezza, è importante per tutti. Si tornerà alla normalità ma sforziamoci di fare ciò che è necessario, per ora».

Il giorno più bello per Davide Formolo, da quando è atleta, è uno di quei giorni di cui si non si parla neanche tanto rispetto ad altre sue vittorie: «L'anno scorso ho vinto al Catalunya. Eravamo in ritiro da tanto e saremmo tornati in altura dopo quei giorni. Per me non era un momento facile, così ho chiesto alla squadra se mia moglie fosse potuta venire con noi. Bene, quel giorno io vinsi proprio nei momenti in cui Mirna arrivava in aeroporto a Barcellona per ripartire con la nostra squadra. Sono quelle coincidenze strane, tanto belle quanto rare. Riprovassimo, qualcosa del genere, non accadrebbe più». E al giorno in cui si ripartirà per le gare, Davide Formolo pensa mai? «Nella mia vita ho imparato a ragionare per priorità e necessità. Quando parto mia moglie mi manca, la bambina mi mancherà tantissimo, ma la vita da atleta dura poco e bisogna dare tutto affinché sia la migliore possibile. Ho scelto io questa vita, devo onorarla. Poi si torna a casa e la famiglia è qualcosa di unico ma bisogna ripartire. Anzi, bisogna sgommare, come dico io. C'è ancora tempo e questi attimi mi piacciono troppo per pensare ad altro».

Foto: Claudio Bergamaschi


Gianluca Brambilla: «Se il Monte Grappa el ga el capeo»

«Tornassi indietro, tornassi a quel 2010, e avessi la possibilità di parlare con il Gianluca Brambilla di allora, non gli direi molte cose. Gli raccomanderei di continuare a darci dentro, a spingere sui pedali, a far fatica e di avere cura dell'animo con cui si fa quella fatica. Lo dico perché l'entusiasmo è rimasto lo stesso ma tante cose sono cambiate. All'epoca non conoscevo quasi nulla di alimentazione e, forse, ero carente anche sulla conoscenza degli aspetti specifici dell'allenamento. Eppure andavo, eccome se andavo. Tutte queste nozioni mi hanno migliorato, ne sono certo, ma mi hanno reso anche meno ''leggero''. Ed essere ''leggeri'' in ciò che si fa, di quella leggerezza che non toglie ma aggiunge, è importante». Gianluca Brambilla racconta così i suoi inizi e parla del suo carattere: «Qualcuno mi dice che, alle gare, sembro abbastanza chiuso, antipatico. A dire la verità non sono neanche timido, sono un estroverso però serve tempo e conoscenza per aprirsi, per raccontarsi, per svelarsi completamente per come si è. Te lo insegnano le circostanze della vita che non ci si può fidare di tutti, che la confidenza è cosa rara. Non credo sia un difetto questo. Il mio più grosso difetto è non saper aspettare: sono la classica persona che vuole tutto e subito. La mia compagna mi dice spesso che Asia, mia figlia, deve aver preso da me».

In fondo stimiamo sempre le qualità che non abbiamo e sarà per questo che Gianluca Brambilla, quando parla di Vincenzo Nibali, si sofferma proprio sulla calma del siciliano quale aspetto saliente: «Sembra assurdo ma è lui a tranquillizzare noi. Vincenzo è calmo in ogni situazione, lucido razionale. Quando so che mi attende una gara, io vorrei partire subito. Vorrei allenarmi oggi e correre domenica. Devo entrare subito nell'ingranaggio della gara, altrimenti non sono tranquillo. Non va bene. Quest'anno, a malincuore, ho dovuto abbandonare il Giro d'Italia prima della terza settimana, ho provato a stringere i denti ma non ci sono riuscito, così l'ho seguito da casa. L'ho stimato tanto e sono più che mai dalla sua parte. Voglio dirlo ancora una volta. Le critiche che ha subito sono ingiuste, profondamente ingiuste. Lui sa reagire bene. Sono sincero, io non credo di saperlo fare. Non ci sono storie, qui si vedono i campioni». C'è di più, c'è il piacere di essere dove si è e di fare ciò che si fa: «Credo che il ritiro al Teide quest'anno sia stato uno dei più bei ritiri della mia vita. Ero con Giulio Ciccone, Antonio e Vincenzo Nibali. Non ti so spiegare molto, ti so dire che sono stato bene e questo spiega già tutto. Ogni squadra, ogni realtà, gestisce i ritiri in maniera diversa. Sai, in primavera, quando è stato chiuso tutto, sapevo che a fine anno mi sarebbe scaduto il contratto. Volevo dimostrare il mio valore ma non potevo farlo. Eravamo chiusi in casa, con i rulli, senza un traguardo da immaginare, una corsa da inventare. Guarda che è difficile. Non sai più da che parte girarti. Ora le cose sono diverse ma quel periodo me lo ricordo bene e non me lo scorderò facilmente».

Non serve un'ulteriore domanda perché Gianluca riprende a parlare dopo un attimo di riflessione: «Sono felice. Ho rinnovato con la Trek Segafredo per altri due anni. E sai il bello? Forse, in questa stagione, non ho reso come avrei voluto ma la squadra ha capito, la squadra mi ha dato fiducia sapendo quanto valgo. Ricordandoselo. Questo non è un caso, questo viene da un metodo di lavoro: siamo sempre tutti in contatto, anche se non corriamo. Ci conosciamo. Questo ti invoglia ancora di più a dare tutto. Così quando non stai bene, quando non riesci a fare la gara che vorresti, ti affianchi ai più giovani, li consigli e speri che ti ascoltino». Gianluca Brambilla, da ragazzino, giocava a calcio e studiava alla ragioneria: «Se ci ripenso oggi credo non sarei mai riuscito a fare il ragioniere. No, decisamente no. Credo la mia sia stata la scelta giusta. Ricordi quando nel 2016 ho vestito la maglia rosa al Giro d'Italia? Ecco, quando sali sul podio, lungo quegli scalini, ti passa davanti tutto ciò che hai fatto per essere lì. Ripensi a quando vedevi il Giro in televisione e ti dici: ''Vai Gianluca, vai che fra tanti quella maglia la indosserai tu. L'avresti mai detto?''. Pensi a chi ti vuole bene e ti commuovi perché vedi che li hai resi orgogliosi ed è una sensazione che non si può spiegare ma tutti la proviamo in qualche circostanza della vita. Soprattutto pensi a tutti i sacrifici che hai fatto, a tutto ciò a cui hai rinunciato. Se hai la mia fortuna, non rimpiangi nulla. Proprio nulla».

Ogni mattina, ma anche mentre parla con noi, anche se è quasi il tramonto, Gianluca Brambilla si affaccia alla finestra di casa e guarda verso il Monte Grappa. Un'abitudine o forse qualcosa in più: «Al Monte Grappa vado spesso in bicicletta, per allenarmi. Potrei dire che è la mia salita. A parte questo, però, è una veduta che mi appaga. Sarà anche per quel vecchio detto: ''Se il Monte Grappa el ga el capeo o che fa bruto o che fa beo''. Si tratta di un modo di dire anche abbastanza sciocco ma quella nuvola sulla cima del Grappa la controllano tutti, qui a Marostica».

Foto: Claudio Bergamaschi


Fausto Masnada: «Quel giorno allo Stelvio...»

Se chiedete a Fausto Masnada di parlarvi del suo carattere, vi parlerà del suo nervosismo: «La prima parola che mi viene in mente è proprio "nervoso", una sorta di caratteristica primordiale. Sono così dalla nascita, per qualunque situazione che non riesco a controllare come vorrei. A questo bisogna aggiungere il fatto che ho una spiccata competitività: se giochiamo a carte e perdo, mi arrabbio, se faccio un allungo su una salita e non riesco a passare per primo mi vengono i nervi. C'è un lato del mio orgoglio che trabocca». Un nervosismo da tenere a freno come un ronzino imbizzarrito da domare: «Devo fare i conti col fatto che il mio è un lavoro e questo aspetto deve essere tenuto a bada, frenato. Lo sfogo alla sera, quando torno in camera. Quando sono da solo. Non devono essere gli altri a farne le spese. Sto lavorando molto su me stesso per trovare quella tranquillità interiore che mi permetterebbe di gestire questi scatti di nervosismo. Ci vorrà tempo ma è un lavoro da fare giorno per giorno, soprattutto nelle situazioni che li suscitano».

Il 22 ottobre, al Giro d'Italia, si scalava lo Stelvio: Fausto Masnada, come tutta la Deceuninck-Quick Step, era accanto alla maglia rosa, il portoghese João Almeida: «Dall'ammiraglia è arrivata la comunicazione: "State accanto ad Almeida, sta pagando". Quando lo abbiamo affiancato, João era preoccupato e molto nervoso. È normale, perfettamente normale. Il problema è che queste situazioni vanno gestite e serve lucidità. Come ho iniziato a fare il ritmo mi ha detto di accelerare, poi di rallentare, poi nuovamente di rallentare ed ancora di accelerare. A quel punto ho avuto uno scatto di nervoso anche io: "Basta. Ora non si parla più. Si tira dritto e si arriva assieme al traguardo, i Laghi di Cancano sono ancora lontani e questo tira e molla peggiora solo la situazione". Da quel momento non ha più parlato nessuno sino a dopo il traguardo. João è un ragazzo molto intelligente, ha capito che se ho reagito così è stato per il bene di tutti ed alla sera è venuto a ringraziarmi. Perché dico questo? Perché mantenere la lucidità è fondamentale per noi stessi e per i nostri compagni. Quel giorno sono stato io a supportare Almeida ma nei giorni prima Ballerini e Keisse avevano fatto lo stesso. Quando si indossa la maglia rosa si è sempre più stanchi, João ha gestito la situazione in maniera invidiabile dimostrando una forte maturità». Un approccio collettivo ai problemi che risente dell'impronta data dalla dirigenza della squadra: «In Androni ho imparato cosa volesse dire correre fra i professionisti, seguendo una tattica di squadra e non andando allo sbaraglio, ognuno per proprio conto. Alla CCC devo il passaggio nel WorldTour: ho preso una strada diversa ma la loro fiducia è rimasta immutata ed è difficile trovare chi crede in te anche quando prendi altre vie. Loro lo hanno fatto e gli sono riconoscente. Il WorldTour mi ha permesso di lavorare con professionalità sempre più raffinate e di vivere gare sempre più prestigiose. La Deceuninck-Quick Step ha aggiunto ancora qualcosa: la comprensione dell'importanza del gruppo e della serenità nel lavoro». Ovvero? «La prima cosa in Deceuninck è l'affiatamento dei compagni, controllano che si vada tutti d'accordo e se qualcosa non va intervengono in prima persona per parlare e risolvere. Parlare è importantissimo. Poi c'è la serenità dell'ambiente: le pressioni si avvertono solo in gara, prima e dopo si lavora seriamente ma nel contempo si ride e si fanno battute. Lavori meglio, ottieni risultati e in più ti diverti».

All'inizio di questa stagione, proprio questo aspetto è stato messo a repentaglio dalla pandemia: «Tutto è più difficile quando si lavora in bolle, si dorme in camere singole ed anche i contatti esterni sono limitati. Io ho sofferto molto questa situazione. Sai, ero arrivato a sviluppare una vera e propria fobia da contatto. Un'ansia abbastanza invadente per ogni risultato dei tamponi, l'incubo di non poter gareggiare. Ero teso per quello, non per i risultati delle gare. Vivo a Montecarlo e qui le restrizioni sono state inferiori, così in questi giorni sono riuscito a rivedere qualche amico e anche Giulio Ciccone. Del resto, io al ciclismo sono arrivato proprio grazie ad un amico che mi convinse a gareggiare con lui. Lui ha smesso ed io corro ancora. Pensa te com'è la vita! L'aspetto di condivisione mi interessa molto. Credo anche molto al fatto che quest'anno abbia reso il ciclismo più forte. Capisci cosa intendo? Un poco come quando si passa un momento brutto e se esce. Poi credi più in te, sai che se hai passato quel periodo puoi farcela altrettante volte. Il ciclismo deve ricordare questo». A Masnada piace raccontarsi, lo fa volentieri: «Non avessi fatto questo lavoro probabilmente mi sarei inventato qualcosa nel mondo della comunicazione social. Raccontare una storia, far conoscere un dettaglio, anche un marchio. Deve essere piacevole».

Quando le parole tornano sulle corse, l'orgoglio di Fausto Masnada prende forma. Un orgoglio molto particolare perché è l'orgoglio di chi ha fatto qualcosa per gli altri e ne è fiero: «Sono fiero di ciò che ho fatto al Giro. Ti rendi conto? Ho lavorato per la maglia rosa, sono stato il treno della maglia rosa. Come posso non esserne felice? Se mi dicessero in questo istante che l'anno prossimo avrò lo stesso privilegio, metterei la firma. Dal punto di vista personale sono soddisfatto del decimo posto di quest'anno. L'idea è quella di lavorare per un piazzamento nei primi cinque in una grande corsa a tappe. Per questo durante l'inverno farò lavori specifici sulla posizione e sui materiali da cronometro. Non posso trascurare questi aspetti. Proprio mercoledì ho ripreso gli allenamenti cercando di allineare quantità del lavoro alla qualità». Questo inverno, probabilmente, tornerà a lavorare anche con Remco Evenepoel ma su di lui, Masnada, ha già molto da raccontare: «Se parlassi delle qualità tecniche e tattiche di Remco scadrei nel banale: dove ha gareggiato, ha quasi sempre vinto. A me, più di tutto, ha sempre colpito la sua umiltà, davvero un ragazzo alla mano. Quando è stato annunciato il mio arrivo in Deceuninck è stata la prima persona a scrivermi, a cercarmi, per un "in bocca al lupo". Un messaggio inaspettato che mi ha fatto felice. Non che a Remco Evenepoel serva il mio augurio di buona fortuna ma a chi si pone con queste delicatezze nei tuoi confronti non puoi che augurare il meglio. Sono certo sarà formativo lavorare con lui. Non vedo l'ora».

Foto: per gentile concessione di Fausto Masnada