Manifesto di Pogačar

Alle cinque, l'ora dei toreri, come scriveva qualcuno, Tadej Pogačar, sulle rampe del Mottolino, ha "matato" il gruppo, ha fatto esplodere, una volta di più, il Giro d'Italia: è il re, il re rosa. La semantica legata alla Spagna e ai tori non è casuale, perché esattamente trent'anni fa, esattamente alle cinque, Luis Ocaña finiva di vivere, dopo uno sparo, all'ora di pranzo, nella tenuta di Caupenne d'Armagnac. Preso a sputi e sassate dai francesi, quando era poco più che un bambino, per essere “lo spagnolo di Mont de Marsan", ripudiato dagli spagnoli, dalla Federazione Ciclistica, con la "colpa di essere comunista", era un figlio di nessuno: suo padre, un genitore autoritario, lo vide piangere solo una volta, con una maglia di campione spagnolo sul letto, divorato da un tumore allo stomaco e rimase fino alla fine dei suoi giorni convinto che quelle lacrime potessero essere di dolore fisico, rimase con il dubbio di non essere riuscito a farsi amare abbastanza, di non poter "appartenere" nemmeno alla sua famiglia. Ripudiato, rinnegato. Non sono paragoni, non sono confronti, non avrebbe alcun senso, ognuno ha la sua storia, questo è solo un ricordo. Tadej Pogačar, poco dopo le cinque di una domenica di maggio, su una strada stretta, meglio sarebbe dire su una rampa, appartiene, più che mai, al ciclismo e alla sua gente. L'appartenenza non è proprietà, non è possesso, non è bandiera da sventolare, confine da imprimere, l'appartenenza è la possibilità di riconoscersi in un gesto, di vedersi simili, magari, più spesso completamente diversi, eppure sentirsene attratti, andare in delirio, impazzire. Non si basta mai, Pogacar. Non basta mai. Avrebbe potuto controllare la corsa, attaccare negli ultimi chilometri, racimolare altri secondi: è scattato ai meno quattordici dal traguardo e, uno a uno, ha superato tutti coloro che gli erano davanti, quasi "mettesse la freccia" e proseguisse. Lasciava soli gli altri, restava solo lui: un punto minuscolo, rosa, in mezzo a una montagna avvolta nella neve e nel freddo che qui dorme.

Accade alla fine della seconda settimana del Giro d'Italia, accade nella tappa del Mortirolo, tra le altre cose. Anzi, «nella tappa del Mortirolo da Edolo», come sentiamo da giorni, non da Mazzo di Valtellina: sì, dal versante più "facile", tutto è relativo, ci mancherebbe, ma è davvero più facile. Pure il Mortirolo da Edolo "appartiene meno” alle persone del ciclismo o, se vogliamo, alle persone delle montagne del ciclismo. Ma le strade restano comunque, anche senza riconoscersi in nessuno, per le persone è diverso. Le persone delle montagne del ciclismo hanno un rapporto particolare con i monti: magari, durante l'anno, vanno altrove, magari è "gente di mare", ma, se arriva una corsa, non c'è gente migliore a cui chiedere informazioni, perché, quel giorno, la montagna la conoscono come il palmo della propria mano. Il Mortirolo, nome mortifero, come i briganti che vi bazzicavano e che gli hanno restituito, suo malgrado, l'appellativo di "Selva bella". Il Mortirolo che, oggi, non fa danni, li farà il Passo del Foscagno, dove lo sloveno innesca un'andatura velenosa, per cui l'unico antidoto è lasciare andare ed evitare che il veleno entri in circolo: veleno, oggi, è acido lattico.

C'erano Georg Steinhauser e Nairo Quintana in testa: il primo, con un cognome da filosofo, il secondo per cui non occorre presentazione. Forse, c'era una lieve malinconia quando notava che, ormai, non aspirava più ad essere la stella del ciclismo colombiano, in fondo, c'è sempre quando i tempi cambiano, forse c'era solo del sano realismo, obbligo a trentaquattro anni. Anche Quintana ha ricominciato a sentire di appartenere, di far parte: la bandiera colombiana che gli sventola davanti in salita è un dettaglio significativo. Ancor più significativo è il modo in cui conclude al secondo posto, superato da Pogačar, nella sua rincorsa, a 1900 metri dal traguardo: era importante resistere, ha resistito, è stato "il primo degli umani". È stato uno scalatore, come sempre, anche se gli anni sono passati e l'ultimo è stato più difficile di altri. In questa difficoltà ha voluto parlare poco, «per non ferire nessuno». Nessun commento, solo un fatto.

Gli indiani, si dice, in salita, parlando dei tifosi assiepati. Gli indiani sulla neve, con cappellini di lana e giubbotti, con tutto quel che serve per fare rumore al passaggio del "re": vicini al re mentre il re è vicino a loro, nel momento del suo sacrificio, perché la salita è salita, ma pieno di gioia. Tadej Pogačar è colui che si sente nel posto giusto, al momento giusto, così continua a completarsi, a crescere, a essere parte di un qualcosa più grande, ad avverare completamente la propria persona. Un'altra persona era al posto giusto, nel momento giusto, questo pomeriggio, un ragazzo, in salita, su una curva: lo stesso a cui Pogačar ha lasciato i guantini. Quel ragazzo saltava di felicità. Abbiamo detto tutto.


La sfida

Era una sfida, un duello cavalleresco. Era una sfida e Filippo Ganna, questa volta, l'ha vinta. Era il dieci maggio, eravamo tra Foligno e Perugia, Filippo Ganna era seduto sulla stessa sedia su cui era seduto poco più di un'ora fa, quella destinata al miglior tempo provvisorio della cronometro: il video inquadrava Tadej Pogačar, dapprima sulla salita conclusiva, poi sempre più vicino al traguardo. Ad un certo punto, la grafica, un piccolo rettangolo su cui scorrono numeri, su cui scorre il tempo, dapprima verde, è divenuta rossa: è la campana a morto per qualsiasi ambizione, significa che l'altro, lo sloveno, in quel caso, è andato più veloce: sedici secondi e settantatré centesimi. Filippo Ganna si era alzato dalla sedia, aveva salutato, se ne era andato da quella telecamera che lo inquadrava: non era più il primo. Questo è ciò che abbiamo visto, quel che ha sentito era dentro quella macchina perfetta e curata allo spasimo, denominata corpo, denominato atleta. Una settimana e un giorno ed il momento è tornato. Sì, i momenti, molto spesso, tornano, si ripresentano, come le occasioni, anche se quando le perdiamo ci sembrano irrecuperabili. Questa volta tra Castiglione delle Stiviere e Desenzano del Garda, accanto al lago, "l'occhio della terra", come lo definì qualcuno, e quel ragazzo, quello con addosso la maglia tricolore, viene da Verbania, città di lago. Filippo Ganna è ancora seduto su quella sedia, davanti ad uno schermo e ad una telecamera. Sono le 16:43, parte l'altro, parte la maglia rosa, scende Tadej Pogačar. Il duello, a distanza, ricomincia.

Filippo Ganna era partito più di due ore prima ed aveva attraversato l'aria: veloce, più di cinquantatré chilometri orari di media, solido, un blocco compatto, fermo pur nello spostamento, guardategli la schiena, una tavola, perfetta, affascinante questo contrasto, elegante, nelle linee, del corpo in bicicletta e delle ruote sull'asfalto. Dentro qualcosa tra rabbia e amore, trovate voi un nome esatto alla sensazione, sappiamo che l'avrete provata: la rabbia di non avercela ancora fatta quest'anno, di non aver ancora vinto, l'amore di volercela fare, di tornare all'assalto, anzi, alla conquista. Direte che ha già vinto tanto Ganna, avete ragione, ma non si pesa la rabbia, non si pesa l'amore, non hanno a che fare con una somma o una sottrazione, hanno a che fare con gli esseri umani. Sensibile, nel senso di chi riesce a sentire, a percepire, a "toccare con mano": la sua sensibilità è esibita anche in sella, nel suo rapporto con la strada, in come vi scorre sopra, nelle curve in cui non smette un attimo di pedalare. Aveva fatto la ricognizione sul tracciato di gara, più volte, "per conoscere a memoria ogni curva": ha memorizzato tutto, non solo nella mente, anche nel corpo, che vi si orienta con delicatezza, nonostante lo morda, con finezza, nonostante lo divori. Un insieme di contrasti per cui le persone si affacciano dalle transenne al fine di osservarlo qualche secondo in più, perché il passaggio di Ganna è questione di vento, di una folata d'aria, allora serve allungare l'osservazione. Il sublime. Saranno 35'02" per percorrere 31.2 chilometri. Una bottiglia d'acqua rovesciata in gola, la mano nell'acqua di una fontana e di nuovo quella sedia, di nuovo l'attesa.

All'inizio non sorrideva, Ganna, guardava e basta, occhi fissi, dritti verso il monitor, quasi perso in un altrove. Quel rettangolo in grafica che indica i tempi riappare, è il primo intermedio: Tadej Pogačar ha quattro secondi di vantaggio. Pare un fermo immagine, è Ganna: immobile. Un'inquadratura tra il primo ed il secondo intermedio lo sorprenderà con la testa fra le mani, forse stanco di aspettare. Aspettava da una settimana o, forse, da quel giorno, ad Andora, il sette maggio, quando il gruppo riuscì a chiudere, a catturarlo, a lanciare la volata e aveva gli occhi lucidi, la voce spenta, perché avrebbe voluto vincere. Che oggi sarebbe andata diversamente l'ha capito al secondo intermedio, ne ha, però, avuto la certezza solo quando a Pogačar mancavano sei secondi per tagliare la fettuccia bianca dell'arrivo, ma il traguardo era troppo lontano. Era con Jonathan Milan, altro atleta che di velocità se ne intende: ha riso, ha riso forte.

Questa volta la voce ha fatto fatica ad uscire, nella prigione di una "e" prolungata e poi annacquata. Di un «non è mai facile» vibrato come vibrano le corde di una chitarra, ma quando agli uomini trema la voce di solito stanno per piangere o stanno già piangendo, di tristezza o di felicità. Cosa c'era dentro quella macchina perfetta che tutti abbiamo osservato, ammirato esaltato? Non possiamo saperlo. Sappiamo, però, ciò che sta venendo fuori adesso e questa volta è tutta felicità.

 

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Il liscio, i treni e Jonny Milan

Il gruppo, tra Riccione e Cento, assomiglia alla Romagna. Intendiamo dire che, più di altri giorni, forse, il plotone è casa e trasmette sensazioni simili a quelle che si possono vivere su una spiaggia romagnola, mentre qualcuno, nella realtà o nel ricordo, disegna la sabbia con piste, paraboliche, inganni, trabocchetti, salite, discese, poi mette la mano in un secchiello, tira fuori le proprie biglie, le fa scorrere, simili a pianeti, fino a scoprire chi vince. In quegli "specchi" rotanti, i volti degli atleti, dei campioni che un gruppetto di ragazzini sognavano di essere, sognavano di essere e, per qualche ora, erano, quasi una magia teatrale, la finzione più bella, perché è realtà. "Semplice", il gruppo, in giornate così: si può fare "ciao" alle persone a bordo strada, persino alle telecamere, magari accompagnandolo con una faccia buffa, all'unisono con un compagno di squadra. Si mangia un boccone, un minuscolo panino, con più tranquillità, lasciando che il sapore accarezzi le papille gustative. Anche lo scherzo e la risata fanno parte di giorni simili, il divertimento, la capacità di divertirsi, altra essenza di questi luoghi. Di ballare, ad esempio.

La Riccione-Cento è un liscio, a proposito di balli e gioia, perché non c'è un rilievo, un'increspatura nell'altimetria, solo qualche cavalcavia, magari non lontano da una ferrovia ed è in tappe come queste che i "treni" fanno parte del ciclismo. In tappe che presentano come tracciato "un percorso piatto come una tavola di biliardo e diritto come quello dell'Orient Express" per dirla con Marco Pastonesi, quando scriveva di Ercole Baldini, il campione di Forlì, con "il suo motore umanamente romagnolo". La Riccione-Cento è una giornata di primavera che tende all'estate, con i campi verdi, macchiati dal rosso di qualche papavero, e un'aria limpida, un cielo sgombro, sull'asfalto, a tratti, l'effetto Fata Morgana, un miraggio: lontana di un anno l'alluvione, il fango non c'è più, perché le strade, con fatica, si possono pulire, ma non ci sono più nemmeno tante persone e tante altre cose, piccole e grandi. Resta invece il ricordo, la memoria, la paura, quando la luce cambia e le nuvole ritornano. Sarà perché quel che succede non passa mai del tutto, almeno dentro.

Manuele Tarozzi è di Faenza: parla velocemente, sin troppo, a volte, con la musicalità delle parole declinate qui, e dice che ama solo le fughe che arrivano perché "non sarà mica bello essere ripresi sulla linea del traguardo". Aggiunge che va in fuga per vincere, non per provare. Uno deciso, Tarozzi. Ha qualche dubbio solo a tavola e non saprebbe scegliere tra cappelletti e piadina, "il pane, anzi il cibo nazionale dei Romagnoli": la vorrebbe anche al rifornimento. Il caffè, invece, sempre. Uno deciso, Tarozzi, tanto che parte lancia in resta, con il compagno di squadra Alessandro Tonelli e con Andrea Pietrobon. Il gruppo, se lo vede, lo osserva solo da dietro per più di cento chilometri: lui vedeva così De Gendt, agli inizi, e quando se l'è trovato davanti, le prime volte, è rimasto sorpreso perché, tutto sommato, "fisicamente mi somiglia pure, lo facevo più alto, più piazzato". In chi va in fuga si mette sempre un pizzico di eroismo, di romanticismo, per cui diventa, in ogni caso, di più. Non importa cosa o quanto, ma di più. Oggi Manuele Tarozzi ha fatto un'eccezione: è scattato più per provare che per vincere, per arrivare nella sua città davanti al gruppo, in fuga, con quel "di più" che dicevamo.

I treni delle tappe per velocisti sono quelli che cuciono la volata, vestito dello sprinter, ma sono anche quelli che affrontano il vento, i ventagli, che proteggono i velocisti, fanno da scudo e da "corda" a cui aggrapparsi per resistere o per rientrare, per attaccare, anche. Jonathan Milan che, per qualche istante, da solo affronta il vento per tornare in gruppo, dopo l'azione della Ineos che l'ha trovato nel secondo gruppo, staccato, è un treno ad un vagone, ad alta velocità però. L'inquadratura si allarga, l'effetto è quello di quando, seduti in treno, parte il treno accanto e si ha la sensazione di muoversi a propria volta, mentre è un'illusione. Che forza, quanti watt, che potenza sviluppa il ragazzone friulano. È un antipasto. Sessanta chilometri dopo, quando il gruppo si scatena e inghiotte curve e cambi di direzione, le sue gambe avranno già recuperato lo sforzo. Simone Consonni, dopo aver svolto il suo lavoro, lo lascia partire sulla scia di Fernando Gaviria che prova ad anticipare la volata. Si rialza, Consonni, e, allungando leggermente il collo, osserva la scena da dietro.

Vedrà il casco di Milan, la testa, continuamente scossa, quasi anche lei imprimesse velocità alla bicicletta, qualche tratto di ciclamino nei movimenti frenetici dello sprint, un tratto impressionista, nulla più. Frontalmente non è solo Milan ad alzare le braccia, ma anche Consonni, l'ultimo uomo. Jonathan Milan dirà poche parole, soprattutto "grazie", alla squadra. Glielo abbiamo sentito dire molte volte, sempre intriso di timidezza e di umiltà. Tra Riccione e Cento, l'ha detto ancora, un'altra volta. Le biglie si raccoglieranno dalla spiaggia, qualche signora su una vecchia ed elegante bicicletta di famiglia tornerà a casa. Domani sapremo il resto.

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Oltre i muri: la gioia di Julian Alaphilippe

Al Giro d'Italia, è il giorno dell'ermo colle, di qualsiasi ermo colle, e di ciascuna siepe che "da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude". Tutto l'essenziale che c'è da sapere su un muro, della strada che si arrampica, della natura che si espande, degli esseri umani che lo costruiscono e della loro interiorità in cui si erge a poco poco e li cambia, è nelle parole di Giacomo Leopardi. È anche la terra di Michele Scarponi e del Saltarello: il primo un ciclista, il secondo un ballo tipico marchigiano che racconta, attraverso rapidi movimenti di punta e tacco, una strana felicità, una festa che nasce da dentro. Michele Scarponi quella poesia l'aveva fatta propria, pur forse non avendone mai parlato: Scarpa che nei suoi silenzi si limitava a sorridere, a fare una smorfia e oltrepassava con l'ironia le siepi che racchiudevano, che impedivano lo sguardo. Dei problemi diceva che erano simili alla pioggia, ma non può piovere per sempre: quella frase l'aveva sentita nel film "Il corvo" ed ogni volta la cambiava un poco, perché fosse davvero adatta al momento, perché non fosse una di quelle cose che si dicono per "circostanza".

Il Saltarello è la danza delle fughe, sono degli "scapigliati", gli anticonformisti del movimento artistico della Scapigliatura, coloro che partono in tromba in un tornado di gruppi e gruppetti che si creano e si disfano continuamente, perdono pezzi e li ritrovano. Mirco Maestri e Julian Alaphilippe sono, oggi, gli esponenti maggiori di questo movimento, in sella ad una bicicletta, potrebbero anche essere simili ai poeti de "L'albatros” di Baudelaire, “principi delle nubi, che stanno con l’uragano... esuli in terra". In un certo senso lo sono, almeno in parte. Non è solo la solitudine a renderli tali, è qualcosa radicato in loro, nel loro passato. Prendete Mirco Maestri, di Guastalla, nella Bassa reggiana, per tutti "Paperino", per via di quel pupazzo che, all'asilo, in un modo o nell'altro, era sempre con lui. Un ragazzo che ha iniziato a pedalare per un problema di metabolismo, che, tempo fa, aveva raccontato di essere stato un ragazzino più largo che alto e solo per questo aveva iniziato a pedalare. Figuratevi se pensava di arrivare al Giro d'Italia, aveva sogni molto più semplici. Con la bicicletta è sempre restato, essenzialmente, per un senso di gratitudine, di riconoscenza, per avergli permesso di cambiare, di diventare quel che si sentiva. C'è anche il suo ermo colle da queste parti, anzi, se li prende quasi tutti i muri, dalla testa della corsa, in un'azione "folle" assieme ad Alaphilippe. Ogni tanto si guardano: il francese gli dice qualcosa, lo incita, pare anche aspettarlo, fargli coraggio, della serie "vieni con me", "andiamo via insieme".

Recanati, Osimo, Monsano, Ostra, Ripe, La Croce, Mondolfo, questa è la sequenza. Mentre i muscoli gridano pietà, torturati, fatti a pezzi, dalle peripezie della verticalità. A Monte Giove arrivano assieme: la pedalata di Alaphilippe diventa insostenibile per lui, immersi nel vociare della gente che è salita a piedi e ora è felice perché la festa è arrivata. Si sbanda su quel muro, da destra a sinistra e da sinistra a destra. Lo sforzo dei chilometri precedenti grida vendetta, in quegli istanti, Maestri cede, spinge la bicicletta a forza di volontà e della stessa gratitudine che gliela fa continuare a scegliere. Il francese si volta, guarda, deve proseguire, non può fare altro. Il 16 maggio del 2024 non ringrazia solo per quello, ringrazia anche per la possibilità di una giornata come questa, in fuga con un ciclista come Alaphilippe, che è uno dei suoi corridori preferiti, forse il preferito, perché è l'enigma del ciclismo ed anche di un certo modo di essere umani. L'insostenibile velocità di Alaphilippe diviene, poco dopo, una sorta di insostenibile leggerezza dell'essere, un inno alla spensieratezza e alla gioia di essere un ciclista e di essere il ciclista che è: funambolo in discesa, in curva, in ogni equilibrismo che la bicicletta, comunque, impone. È l'altra parte de "L'infinito" di Leopardi, sono i profondissimi spazi, interminati, i sovrumani silenzi, il vento tra le piante, e tutto quello che si pensa o si sente: le morte stagioni, la presente, il suo suono. Fino all'arrivo, primo.

Stanco lo è, sicuramente, ma resta in piedi, continua a muoversi, sospira, sorride: cerca e viene cercato. Viene cercato dagli atleti del gruppo per un complimento, cerca Mirco Maestri solo per dire grazie, per l'importanza che ha avuto in quella fuga, per il coraggio e per quello che hanno condiviso e che solo loro possono capire fino in fondo mentre si salutano e si allontanano dalla strada della tappa che li ha fatti andare oltre. Oltre ogni muro, primo e nono, a Fano, dopo l'unico naufragio permesso ai ciclisti: l'attacco, la distanza, la lontananza dagli altri e quello nella propria interiorità. L'orizzonte ora è aperto, vasto. Mette pace.


Spazzare via la noia

Il ciclismo, magari a differenza di altri sport o di altre situazioni, conosce la noia. Non solo la conosce, nel senso che, in taluni giorni, può viverla, ma permette di studiarla, di addentrarvisi, per scavarla, scrutarla. Questo per un motivo tanto semplice quanto profondo: il ciclismo segue il ritmo degli uomini, la bicicletta non ha altro modo di funzionare, se non attraverso le gambe degli esseri umani. Una corsa, qualunque corsa, percorre un "viaggio" da un punto ad un altro e, comunque vada, qualunque cosa accada, lo fa solo sulla spinta di muscoli umani. I tempi degli uomini sono anche tempi lenti (tra virgolette perché la tappa odierna tutto è stata tranne che una tappa corsa a ritmo blando), tempi in cui nulla accade, tempi in cui, perché qualcosa cambi, devono trascorrere molti minuti, talvolta molte ore.

Nella quotidianità, quell'attesa si cerca di ingannarla, con quel che velocizza, con la tecnologia, con la diversificazione più svariata, pur nella routine. In bicicletta, un ciclista non ha questa possibilità, può scattare, alzarsi sui pedali, cambiare posizione, parlare con un compagno, ma nulla più. Allora anche chi osserva deve imparare a fare i conti con la noia, che altro non è se non un pretesto per fare altre cose, mentre la tappa è in corso. Le voci dei telecronisti restano in sottofondo, le immagini sullo sfondo. Ricordiamo quando da ragazzi, da bambini magari, lo spazio della noia era lo spazio dedicato ai compiti di scuola per il giorno seguente, per, poi, poter tornare ad alzare il volume, in vista del traguardo. Risentiamo le voci di una radio, in una vecchia officina, nel rumore e la manopola del volume ruotata, verso le cinque del pomeriggio, l'orario dell'arrivo. Qualche libro di lettura preso in mano e richiuso nel momento in cui uno sguardo veloce al televisore coglieva una frenesia improvvisa in gruppo. Qualche sbadiglio? In certe giornate può succedere, non è un male. La noia lontana dal gruppo, quando nulla cambia per chilometri e chilometri, è questa.

In gruppo, invece, i giorni "piatti" hanno un altro volto. Soprattutto oggi, probabilmente. Da giorni si parla di un virus che ha già costretto al ritiro alcuni atleti, l'ultimo è stato Cian Uijtdebroeks, che non è partito proprio stamani. Le tappe simili a quella da Foiano di Val Fortore a Francavilla al Mare sono le frazioni dei pensieri di chi non sta bene e di chi, invece, pur stando bene inizia a domandarsi se fra qualche giorno il malessere possa toccare anche a lui. Il dubbio, l'incertezza: il pane quotidiano di ogni corridore. Sono persone che costruiscono "lentamente", gli atleti, sempre per lo stesso motivo, perché "lavorano" con il proprio corpo, allenano il proprio corpo e non c'è altro modo se non "il tempo che ci vuole". Sono allo stesso tempo, però, persone che possono distruggere velocemente, in frazioni di secondi: le cadute. Chi sta male, in fondo, "a fare l'elastico", per 207 chilometri, non conosce la noia, perché la noia è una sorta di vuoto da riempire, il dolore, invece, è già pieno di cose. Pensiamo a Martin Marcellusi e a Giulio Pellizzari che, per motivi diversi, hanno patito in coda al gruppo: ad ogni accelerazione, ad ogni rilancio. Sono arrivati, sì, sono 207 chilometri in meno: si conta così, quando non si sta bene. I giorni piatti, i giorni della noia, sono anche i giorni delle fughe più irrazionali: Thomas Champion, cognome pieno di epica per chi pedala, Edoardo Affini e Tim van Dijke, i fuggiaschi di oggi. Il loro segreto è cogliere l'istante e lo colgono anche in giornate in cui pare impossibile, proprio perché sanno quanto un ciclista sia in bilico, quanto la tappa del giorno dopo potrebbe non esserci. Qualche città racconta lo stesso segreto: Buca, sommersa dalle acque e svanita nel nulla.

Poi arriva la volata, la noia pare lontana anni luce. I secondi in cui si ferma il mondo di chi osserva, e trema, vibra, viene scosso l'universo dei ciclisti. Tanti anni fa si girava la manopola di una vecchia radio alzando il volume, si faceva lo stesso con la televisione, oggi magari è un cellulare, talvolta un computer, ma sono dettagli. Arriva la volata e quello scalpitare di biciclette lanciate a tutta velocità in certi momenti spaventa anche chi osserva; pare non ci siano spazi, non ci sia aria sufficiente, pur essendo all'aperto, sembra che, da un attimo all'altro, qualcuno debba sbandare e cadere. Anche di cadute e sbandate sono fatte le volate: abbiamo rivisto dall'alto quella che ha coinvolto Jakobsen e Mihkels, fa effetto, come sempre. Fa sobbalzare. La noia è spazzata via dalla volata, certo e, soprattutto, dal suo vincitore, Jonathan Milan che, durante la tappa, aveva pensato alla responsabilità del lavoro di tutta la sua squadra in un giorno così, a quanto questa vittoria ci volesse. Se l'è presa, scatenato nella velocità di uno sprint. Ora la radio e la televisione sono un insieme di voci che commentano e di suoni che si intuiscono dal lungomare di Francavilla e, guardando dentro la noia dell'inizio, forse, qualche bambino appassionato di ciclismo sarà cresciuto ancora un poco.

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Una giornata da ricordare

Dove resta il ricordo di un ciclista? Fra delle lastre di roccia, in un pomeriggio invernale del 1980, Giovanni Todesco e sua moglie, pur se ancora non ne avevano contezza, poterono toccare il luogo in cui resta la memoria di ere passate, più di cento milioni di anni fa: nella pietra di Pietraroja. Si trattava di un piccolo dinosauro carnivoro, sdraiato sul lato sinistro, con il capo leggermente inclinato, il suo nome scientifico è Scipionyx Samniticus, ma per tutti è semplicemente "Ciro". A Pompei, sede di partenza della decima tappa, l'eruzione del Vesuvio del 79 d.C., ha bloccato un istante: strade, abitanti, oggetti della quotidianità. La paura è rimasta bloccata, cristallizzata, così il ricordo, l'ultimo istante. Il Giro d'Italia è una città che cambia, che si costruisce e si cancella nell'arco di poche ore: mezzi, transenne, persone. Tutto che arriva, poi passa. Le città sono città diverse immerse nel Giro. Già, ma quando tutto torna alla normalità, in che angolo delle persone è il ricordo di quel passaggio delle biciclette che non segnano le pietre, che non fermano il tempo? Nelle fotografie, certo, ma oltre, oltre uno scatto, dov'è?

Il ricordo di un ciclista è in una borraccia, che segna il ricordo forse più di qualunque altro oggetto legato alla bicicletta. Oggetto fondamentale, oggetto del bisogno, perché cura la sete, perché contiene acqua e un ciclista è fatto anche di acqua, come tutti noi, ancora di più, forse. La borraccia che Alaphilippe, ad un certo punto, rallenta e quasi deposita, appoggia, ai piedi di una sedia bianca, di plastica, dove è seduta una signora con i capelli bianchi. La raccoglie. Il tempo che passa allunga i ricordi, come la sera allunga le sagome dei camminatori nei prati, sui monti. Sere diverse, comunque sere. Per questo tutti raccolgono le borracce, sono un segno tangibile per tenere stretti i ricordi quando si sbiadiscono. Lì c'è senza dubbio la memoria di un ciclista. Alaphilippe, poi, si staccherà dalla fuga di giornata, dopo averla cercata e voluta un'altra volta: è accanto alla macchina del medico, sembra svuotato. In un giorno sbagliato.

Il ricordo di un ciclista può essere in un cartello, al Giro è spesso nei cartelli oppure nelle scritte a terra. Gino Mäder, adesso, è anche in quell'inchiostro, ora che non è più in sella, dove tre anni fa vinse, giusto al Giro d'Italia. Gino Mäder aveva qualcosa di Palomar che sentiva il dovere di guardare le stelle per non sprecare il fatto che ce ne fossero così tante, lo svizzero sentiva il dovere di ricordarsi di abitare sotto un cielo di stelle, in un pianeta di natura rigogliosa. Perché? Perché è bello. Forse ci avrebbe risposto così, come ci aveva detto raccontando delle sue vittorie. Anche in una penna o in un pennarello c'è il ricordo dei ciclisti, pure in un pennello. Se si osserva Alessandro De Marchi mentre attacca non si hanno dubbi: il ricordo di un ciclista è nelle origini delle cose. La bicicletta, la solitudine, la rabbia, la gioia, il dolore. Di Damiano Caruso si potrebbe dire lo stesso: con le bende addosso, con le ferite ancora non cicatrizzate, all'attacco e di nuovo in gruppo a tirare, a fare il suo dovere.

Il ricordo di un ciclista è nelle partenze. Gianni Mura ironizzava: "Solo chi ama le pantofole dice che partire è un poco morire. Non partire, quello sì, è un poco morire". E aveva ragione. Filosofia di ogni ciclista, ogni mattina, ogni volta in cui è a terra ed in ogni istante in cui deve accelerare e non ce la fa. Pensiamo a Jan Tratnik che era riuscito a partire, in fuga e ancora in fuga, almeno fino a quando Valentin Paret-Peintre non scandisce il suo ritmo da scalatore: stacca Romain Bardet, raggiunge Tratnik e lo lascia lì, ripartendo, da solo. Qualche secondo dopo, anche Bardet raggiungerà e staccherà il corridore sloveno. Si spegne la luce, non si riparte, non si risponde, non si resiste: finisce anche se non finisce. Il ricordo di un ciclista è nel continuare. A pedalare, come fa Bardet che, a Torino, vedeva con fatica la coda del gruppo, oggi vede a pochi metri il vincitore di tappa: vorrebbe prenderlo, non ci riesce, ma come sono cambiate le cose. Anche il cambiamento è ricordo di un ciclista: accettarlo, sopportarlo, non odiarsi troppo perché non si è più quelli di una volta.

Infine, ma non per ultimo, il ricordo di un ciclista è nelle prime volte, perché la bicicletta è una prima volta: dell'equilibrio, della scelta, della lontananza da casa, di una velocità scelta solo dalla propria forza, dalla propria volontà. Perchè per Valentin Paret-Peintre è la prima vola, al Giro e fra i professionisti, a Bocca della Selva, che pare davvero una bocca, di faggi, di verde. Si vede che è la prima volta: da come va a zig zag sul traguardo, mentre alza le mani, chiede applausi e ride con il pianto in gola. Si vede che è la prima volta perché non sa più dove cercare conferme, perso in un mondo suo, in un pensiero che solo lui conosce fino in fondo, mentre i massaggiatori gli scuotono le spalle, quasi a svegliarlo, a destarlo. Sì, il ricordo di un ciclista è in tutti questi momenti e, poi, o forse ancor prima, in quello che suscita quando transita accanto per pochi secondi o mentre una telecamera lo segue, perché il ricordo di un ciclista è in quel che prova e che fa provare. Prima di tutto il resto. E quelle sensazioni sono come le pietre: restano più o meno simili in milioni di anni.

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Napoli è mille colori

«Napule è mille culure» cantava la voce di Pino Daniele e, ad un tratto, sospirava «Napule è mille paure». Le dita a pizzicare le corde di una chitarra dal suono perfetto, in cui, però, percepiva sempre la mancanza di un qualcosa. Napoli è un senso della poesia che scappa dalle parole, mentre una ragazza, sul lungomare, si chiede perché i cento chilometri del giro della costiera si compiano sempre in senso orario, e qualcuno le risponde: «Perché altrimenti vedi troppo il mare e, se vedi così le acque del mare, ti distrai». Quella ragazza è Alessia Vigilia, ciclista di mestiere: una voce parlata, non cantata, dall'altro capo del telefono, mentre la televisione trasmette le immagini della nona tappa del Giro d'Italia, da Avezzano a Napoli ed il mare, in quel senso, viene lasciato sulla sinistra, abbandonato in un cono di sguardo, in un pensiero. Napoli è una mancanza, anche per lei: una voce di padre, Ciro, il suo nome, che racconta Diego Armando Maradona e pare una storia della fantasia, invece è una storia del passato, realmente esistita, mentre i ragazzini giocavano a pallone per la strada. Napoli è andare via assieme, ovunque si vada: simile a Andrea Pietrobon e Mirco Maestri, in fuga, soli ma non soli, anche se non c'è nulla.

Sono quelle persone per strada, ovunque, anche lontano dal gruppo, anche lontano dal mare, su un cavalcavia, che attendono l'ultimo corridore, poi si voltano e vedono il gruppo andarsene, lasciare la loro compagnia, lo ritroveranno chissà dove, forse, sempre con il vestito della festa e i pantaloni poco sopra delle ginocchia sbucciate, giocando in un prato lì accanto. Lo ritroveranno come hanno ritrovato Napoli, quando l'hanno lasciata, sapendo che vi avrebbero fatto ritorno, perché certe volte bisogna andare via, anche se non si vuole. "Chi tene 'a mamma è ricco e nun 'o sape": da queste parti non lo dicono solo oggi, è una certezza a cui aggrapparsi in un giorno difficile, uno di quei vecchi detti che facevano affidamento su ciò che bastava quando non c'era niente altro. È il profumo dei limoni che Alessia Vigilia non può descrivere e basta questo per aver voglia di immaginarlo, è quello dei canditi sulla pastiera portata a tavola dalla zia, è l'aroma della "pummarola", il colore rosso dei pomodori nutriti dalla terra.

Julian Alaphilippe ed il suo scatto hanno qualcosa dell'anima di Napoli, di quei contrasti di cui ci racconta Vigilia. È la cultura di cui parla, ad ogni angolo della città, dove ci si stupisce e si resta a farsi domande. Di quel dare tutto pure se dopo ci si fa male. Alaphilippe è più vicino che mai a Napoli quando un ragazzo, non appena viene raggiunto e si arrende al gruppo, sfilando in coda, gli cammina accanto. Non ha corso con il gruppo, non con Narvaez che è appena scattato, ha corso con lui che anche oggi ha messo tutto e non è bastato. «Stanno gridando, esultando, incitando e lo fanno perché sono così, non importa chi tu sia, è il loro entusiasmo, il loro calore. Lo farebbero con chiunque». Il contrasto è tra i primi e gli ultimi, il contrasto è tra chi ce la fa al primo colpo e chi resta staccato e deve riprovare, tra i momenti felici e la malinconia: le lacrime di Clarke, lo scorso anno, l'abbraccio di De Marchi, la vittoria di De Gendt, in fuga, la beffa di Narvaez, in fuga anche lui, ma con un diverso destino. Napoli è anche quel che non è facile, la difficoltà, le ferite, perché nemmeno la meraviglia è cosa semplice, nemmeno la meraviglia è perfezione, la cura, come preoccupazione e attenzione. Le paure, sì, le stesse paure di Pino Daniele, la stessa voglia di aggiungere ancora qualcosa alle note di quella chitarra. I mille colori di Napoli non sono solo colori: non è solo il cielo blu ed il mare che lo imita, non è solo il Vesuvio maestoso là in fondo e Capri che si lascia intuire. I colori sono sensazioni: la gioia di Ciro che martedì vedrà il Giro partire da Pompei ed il sollievo di Alessia, una ciclista che sorride di gusto mentre dice che "ci sono sempre più persone che vanno in bicicletta e questo è bello, così bello da far bene". Napoli è Tadej Pogačar che spiega che i suoi compagni fanno già tanto per lui e lui non è il miglior ultimo uomo, ma lo doveva a Molano: è fare il possibile.

I colori, quelli dei pastelli e delle tempere, sono quelli del gruppo, dei treni dei velocisti, puzzle variabili. Narvaez, venuto dal freddo, per poco non vinceva dove il caldo è clima e modo di essere, venuto dalla montagna per poco non vinceva al mare e, forse, avrebbe detto qualcosa del Vesuvio, si sarebbe fermato ad osservarlo qualche secondo in più. Lo ingabbia lo sforzo di Simone Consonni per riportare sotto Jonathan Milan, che parte forse presto e viene a sua volta beffato da Olav Kooij e dalla sua maglia gialla della Visma-Lease a Bike: pallido, nulla a che vedere con il sole che disegna la pelle a Napoli, pallido, simile al ghiaccio, dove pattinava. Napoli, adesso, è una festa: un guantino di un ciclista che fa la domenica quello che la domenica dovrebbe essere, che era per i nostri nonni probabilmente, un tramonto di maggio che fa pensare a quando si dovrà partire e alla sera in cui si potrà tornare. Napoli è la voce di Alessia Vigilia che, lontano, è contenta anche solo per averne potuto parlare. Punto e basta. Ma non basta, lo sappiamo.

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Torino-Adelaide: il viaggio di Andrea e Giacomo

«La realtà è che il momento giusto per partire, se si ponderano tutte le possibilità, non esiste. L'unica via, se davvero si vuole quella partenza, è creare quell'istante e andare, anche se, attorno a noi, non c'è nulla di perfetto». Parole di Andrea Incarbone, ventidue anni, che, domenica 21 aprile, è montato in sella alla sua bicicletta, uscendo dal garage della sua casa di Torino ed è partito, direzione Adelaide, direzione Australia. Sì, dall'altra parte del mondo e ci arriverà esattamente come ha messo piede fuori da casa, in bicicletta. Saranno circa 22000 chilometri, saranno circa undici mesi di viaggio, attraversando il pianeta. Due ombre: la sua e quella di Giacomo Perone, amico fin dai tempi degli Scout e di quel giro in bicicletta, diciotto giorni, fino a Palermo, dopo la fine della scuola, in estate. Andrea e Giacomo, entrambi facenti parte dell'associazione "Centoventuno". Da qualche parte, nelle loro menti giovani, c'era già l'idea di un altro viaggio, ben più lungo, non di giorni, ma di mesi, forse anni, attraverso i continenti. Ma il mondo è enorme e le situazioni che lo pervadono non sono governabili da due ragazzi: così, sì, sono arrivati a Capo Nord, dopo un mese e mezzo di pedalate, nel gelo, nel freddo, ma quel sogno originario non l'hanno mai iniziato per davvero. Almeno fino al 21 aprile, nonostante ancora oggi le cose non siano facili, o, forse, siano più difficili di sempre. Per lunghi giorni, l'entusiasmo è stato spento da ciò che è accaduto ultimamente in Iran: bisognava tracciare nuovamente una parte del percorso, passando dalla Turchia, dall'India, poi volando verso la Cambogia, il Vietnam e recuperando in quelle terre circa seimila chilometri, quasi cancellati dalla storia piombata su di loro. Non era questo ciò che avrebbero voluto. Poi, d'improvviso, qualcosa è tornato ad accendersi, una nuova soluzione: l'Himalaya, la Turchia, la Georgia, il Kazakistan, Nuova Delhi, l'India e via su quel tragitto.

Torino-Adelaide, in poche parole. Solo due a dire il vero. Torino perché è la città di casa, Adelaide perché è il punto più distante raggiungibile, togliendo la Nuova Zelanda, passando da Darwin e dal deserto australiano. Inoltre anche Adelaide ha qualcosa di familiare, perché proprio lì abitano dei parenti di Giacomo e arrivare, fermare le ruote ed i pedali della bicicletta, sarà, in un certo senso, tornare a casa prima di tornarci davvero. Si parte in primavera, l'unico modo per evitare la stagione delle piogge, si parte con il necessario, ben consapevoli che percorrere più di ventimila chilometri significa cambiare set-up della bicicletta più volte: «Immaginiamo tre macro aree: le attrezzature invernali le avremo con noi per la parte più fredda d'Europa, per i deserti freddi e per l'Himalaya. La prima cesura sarà Nuova Delhi, quando spediremo a casa tutto il materiale invernale, sarà un passo fondamentale in vista del deserto australiano dove avere le borse vuote sarà fondamentale per caricare più provviste possibili. Per il resto, fornellini, vestiario, attrezzi per aggiustare la bicicletta, tende, powerbank, attrezzature per riprendere, videocamere. Sarà abbastanza». La voglia di arrivare all'Himalaya è tanta, e preme, brucia, come il desiderio di vedere con i propri occhi l'India, un paese che spesso ci si immagina, da lontano, oppure la curiosità per il deserto australiano, eppure Andrea, ormai, sa qualcosa in più dell'essenza reale del verbo viaggiare per fermarsi alla scelta di un luogo, quando gli si chiede quale sia il punto del percorso cui maggiormente anela il suo animo: «Quando hai davanti mille chilometri, diecimila, ventimila, c'è sempre la tentazione di dire: "Quando arriverò lì, sarò felice". Come se quella fosse, per noi, la fine del mondo, il desiderio più bello da realizzare. Si potrebbe fare un elenco di luoghi che vogliamo raggiungere, ma non saranno mai quelli a fare davvero la differenza nel nostro viaggio. Mi spiego meglio: il senso del viaggio lo si incontra, per caso, in un qualunque posto, spesso in uno di quelli che nemmeno avevamo considerato, totalmente diversi ed inaspettati».
Questa visione è, senza dubbio, influenzata dall'aver conosciuto la bicicletta e dall'aver imparato, piano piano, tanti suoi segreti, a partire da quelli meccanici, soprattutto quanto spostarsi in bici possa cambiare la visione del mondo circostante: «Credo sia il mezzo che più si addice al viaggio degli esseri umani, uno strumento perfetto, sotto tutti gli aspetti. Ogni metro è una conquista perché si fa affidamento solo sulla propria persona, ci si suda, letteralmente, ogni traguardo. In più, si è messi a diretto contatto con l'esterno, con l'ambiente, non rinchiusi in un abitacolo, non protetti in una bolla di comodità. L'essere esposti alla scomodità è un pungolo che permette di imparare, di essere reattivi agli stimoli». Cosa sia esattamente viaggiare in bicicletta è difficile da dire, anche per Andrea, ma un qualcosa, proprio nei ricordi del viaggio in Sicilia, ci va vicino. Giacomo era già tornato a casa, Andrea era rimasto sull'isola un'altra settimana, a pedalare in solitaria e, in queste pedalate, aveva incontrato un ragazzo con cui si era fermato a chiacchierare per diverso tempo, condividendo riflessioni. Era stato lui a dirgli: «Andare in bicicletta è come pregare». «Di biciclette un poco me ne intendo, non posso dire lo stesso della fede, ma il ritmo che la bici imprime alle mie giornate, la sua ritualità, la capacità di ricollegarmi con me stesso, di farmi concentrare, mi fa pensare che quel ragazzo avesse ragione».

Viaggiare in compagnia è difficile, Andrea lo ammette ben presto: questione di abitudini da rendere omogenee, di attimi di stanchezza ed energia da "mettere d'accordo", di condivisione totale di ogni momento. Da soli, si conoscono più persone, si è più aperti al circostante, agli incontri, ma, allo stesso tempo, ci si priva di una grande opportunità: «La felicità va condivisa, va diffusa, anche quella per gli attimi minuscoli che, talvolta, riempiono le nostre giornate. Anche quando siamo arrivati a Capo Nord: avrei voluto telefonare a casa, alla mia famiglia, ai miei amici, per descrivere quel che vivevo e vedevo. Giacomo era con me, non dovevo spiegare nulla, provavamo assieme le stesse cose, bastava questo per ripagare la fatica».
Allora il 21 aprile, la partenza è stata un modo per chiudere dei cerchi, come sarà tutto questo viaggio: l'idea di Andrea e Giacomo è di trovare un'associazione per la ricerca contro il tumore al seno, lo stesso che, purtroppo, ha portato via la madre di Incarbone in pochi mesi. Sarà questa la spinta per proseguire la pedalata anche nei momenti più difficili: un progetto più grande di loro, che li terrà assieme per undici mesi o forse di più. Da Torino ad Adelaide. Ma questo l'abbiamo già detto.


In ogni modo

Maglietta lievemente slacciata all'altezza del petto, segno di un caldo che inizia a stringere, di una sofferenza lieve, sapore della pedalata, una danza sui pedali che rimanda alla montagna perché sono i suoi uomini ad arrampicarsi in questo modo, a prendere queste movenze, la bicicletta, dall'alto, ondeggia, alleggerita del peso dello scalatore che si libra nell'aria: è l'immagine di Romain Bardet che si infila in una fuga che non è solo una fuga, è la ricerca del tempo perduto, un viaggio che è un sentimento e non soltanto un fatto, ci avrebbe suggerito Mario Soldati. Nairo Quintana e Julian Alaphilippe a scalpitare insieme al francese e ad altri undici uomini, dopo che il filo dei fuggitivi si è spezzato e ricongiunto più volte. Potrebbe essere solo un'illusione, con il senno di poi lo sarà, ma Romain Bardet, per quel che trasmette nel suo viaggio, inteso come parabola, in sella, merita che si guardi in quell'illusione come in un caleidoscopio e che ci si creda. È l'intensità la chiave per interpretare l'atleta di Brioude: lui che scrive e parla di tracce da lasciare in quel che si fa, prima delle vittorie o dell'esaltazione del campione e per confortare, dopo un dispiacere, crede nei pensieri sinceri, limpidi.
Si dispiace per il ritiro di Thibaut Pinot, per il suo ciclismo. Pensa e legge molto, Bardet, poi scrive come chi ha lasciato maturare quei pensieri: non serve un pezzo, non un racconto, ovunque restino le parole. Guarda lassù, dove c'è la vetta, perché c'è il traguardo e perché «è sempre bello», vuole rompere confini, allargare le possibilità, contemplare, scappare: una sorta di dichiarazione d'intenti. Non gli è servito per vincere quell'atto di solitudine, ma gli è servito ed è servito a noi, mentre il plotone si addentrava nel verde di alberi «simili a cani che ringhiano al cielo» e tutti aspettavano un solo uomo: Tadej Pogačar, maglia rosa, come i pantaloncini, i guanti, il casco, persino la scritta sulla bicicletta.

Il Corno Grande del Gran Sasso in alto, in fondo. Tadej Pogačar a ruota della sua squadra, gli altri a ruota di Tadej Pogačar, in attesa della mossa del fenomeno. Non è facile aspettare e non è facile nemmeno scattare, scappare, perché "quello lì" è in grado di prendere la ruota e partire in contropiede, lasciando sul posto chiunque, ribaltando la situazione e per un ciclista è una delle cose peggiori essere staccati mentre si sta attaccando, la frustrazione quando, all'improvviso, la bicicletta dell'attaccato va troppo più veloce, le sue gambe sono troppo più agili, la frequenza di pedalata superiore per riuscire a mettersi in scia. Valentin Paret-Peintre è l'unico fuggitivo rimasto in testa, mentre questi pensieri si addensano nelle menti, mentre Aurelien, suo fratello, perde contatto con il gruppo: cognome evocativo il loro, a sensazione ricorda una parete dipinta, una parete e un pittore, qui le pietre ci sono, i costoni di roccia ci sono, a Pietracamela, si notano ancora le pitture rupestri del maestro Guido Montauti. Non c'è posto migliore per tentare la sorte per uno con un cognome simile.

L'andatura dell'UAE sbarra la strada ad altre acrobazie fra le lettere, la strada sale, gli occhi cercano lo sloveno. A rompere lo stallo, è Antonio Tiberi, per ben due volte; non va lontano e non potrebbe andarci, ma in tre settimane di gara contano i segnali e questi sono bei segnali, per gli altri, certo, ma anche per la propria convinzione. Contano i segnali come conta la memoria, quella dei muscoli e degli sforzi compiuti: ieri una buona cronometro, oggi lì con i migliori, non un brutto modo per andare verso Napoli e, poi, verso il giorno di riposo di lunedì. Non è certamente una salita impossibile, ma faticano tutti, mentre la maglia rosa pare «con la pipa in bocca», come si dice in questi casi, a ruota di Rafal Majka. Si sposta giusto quando partono gli scatti, Majka, ma resta nei dintorni, fra gli altri. Rimonta il gruppetto stringendo i denti, con il suo solito ghigno sulle pendenze, regala gli ultimi metri di servizio, di fedeltà, di gregariato.
Nessuno poteva fare niente prima, nessuno può fare niente quando Pogačar lancia la sua "volata", ustionante, bruciante, tanto da dargli il tempo per voltarsi ed esultare con sollievo mentre la linea bianca non è ancora arrivata. Un altro modo di vincere, un altro modo per vincere. Un enigma complicato per i suoi avversari, come affrontare la polivalenza, quel che è multiforme, che gioca con la fatica. Il ciuffo dal casco non è più solo uno, da tempo ormai, «la Majella ed il Gran Sasso continuano il loro dialogo» quassù a Prati di Tivo, la carovana, intanto, si dirige verso sud.

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Supernova

Simile a una supernova è deflagrata la potenza in sella di Tadej Pogačar, nei 40 chilometri che uniscono Foligno a Perugia. Un'esplosione derivata dal contatto di forza, di aerodinamicità, di leggi della fisica, di delicati equilibri e polmoni forti così. Una miccia, una reazione, accesa dal desiderio, racchiuso nel grido dopo il traguardo: volontà che brucia, rinunce che accendono e scompigliano. Si dice che una supernova che esplode possa liberare, per brevi periodi, “l'energia” superiore a quella di una galassia, ma noi torniamo all'asfalto, alle nostre strade e alle nostre città, perché in quello scenario un ciclista sviluppa i propri muscoli, collauda una posizione all'apparenza impossibile da tenere per qualche chilometro, figuriamoci per quaranta, figuriamoci per 51 minuti e 44 secondi di sforzo, quello è il suo tempo. Sarebbe facile parlare di spazio, perché le biciclette assomigliano sempre più ad astronavi, per perfezione e studio, a qualcosa che sfidi lo spazio interstellare, come il tessuto che si portano addosso, una seconda pelle a cui sono state applicate matematica e fisica, calcoli e geometrie, per accrescere la velocità, per ridurre l'attrito con l'aria. Verrebbe facile, invece, restiamo agli uomini, alla macchina umana che fa cose bellissime, a quelle visiere in cui il mondo corre come un'impressione. Vince Pogačar e pone distacchi importanti sui suoi più diretti rivali per la classifica generale che, un poco, hanno la tentazione di guardarlo come un extraterrestre. Siamo convinti che in quelle gambe ci siano stati anche tutti gli scatti che, forse, aveva in mente, ma ha risparmiato, ha trattenuto. Ora li ha addosso Geraint Thomas che ha pagato due minuti.

E simile a una supernova è esplosa la bellezza di Filippo Ganna in sella. Qualcosa che ha a che vedere con l'architettura, che disegna lo spazio in cui scorre. Viene da pensare che Filippo Ganna e la bicicletta siano un corpo unico durante lo sforzo, perché traspare una facilità, una genuinità nello sforzo che è apparenza. Chiedete a Ganna la fatica che si fa, oppure limitatevi ad osservarlo al traguardo, svuotato, stanco. Il talento esce così: consuma chi lo mette in pista, mentre chi guarda ha la sensazione di essere trasportato altrove, in un futuro da fantascienza in cui tutte le logiche siano sovvertite e un uomo possa fare l'impossibile. No, c'è il vento, l'acido lattico, le giornate no, la paura, l'insoddisfazione, il tempo e lo spazio che divorano, mentre un ciclista, da solo, nei propri pensieri, divora l'asfalto, ci prova almeno. Per questo suscita meraviglia quel che è avvenuto, quel che avviene. Per questo Lorenzo Milesi, autore di un'ottima prova, tra l'altro, mentre osserva lo schermo in cui è replicata la prova in sella di Ganna, durante la salita, quando riprende e supera con apparente facilità avversari scattati prima di lui dalla pedana, sorride come si sorride quando ci si stupisce, quando si manifesta un fatto che, come esseri umani, fatichiamo a capire, ma ci piace. Anche se sappiamo che lo pagheremo, forse lo pagheremo anche caro: chi va più veloce, passa una posizione avanti, scarica secondi, forse minuti, sugli altri. Tuttavia di fronte a certe velocità, a certe perfezioni, non si riesce a non dire nulla, a non fare nulla. Vogliamo esserne partecipi, in un modo o nell'altro e ci sembra uno spreco poter guardare, solo guardare.

Guardare il padellone di Ganna, il modo in cui fa la barba alle curve. Guardare gli ultimi chilometri in salita di Tadej Pogačar, la sincronia perfetta tra il terreno su cui pedala ed il suo fisico, aumentando, controllando, la gestione dello sforzo, la mente sempre un pezzetto più avanti. Il suo predicato verbale è "migliorare". Dice che è sempre possibile migliorare e che la sua ricerca è per una comodità sempre maggiore in sella, durante lo sforzo, che pare un assurdo, ma assurdo non è. Come stranisce tutti l'insoddisfazione di Filippo Ganna dopo una prova che ha lasciato zitti, in silenzio, a chiedersi dove sarebbe arrivato nel suo giorno migliore. È un ciclista e un ciclista non conosce le stelle o la volta del cielo, conosce ogni sensazione del proprio corpo, conosce il proprio potenziale e vuole sentire di averlo raggiunto, pure se perde. Quella è la sua ricerca, l'unica possibile sopra il destriero che ha nome bicicletta. I calcoli per dare uno spazio al dominio di Pogačar continuano, è giusto così, qui ogni giorno si sa qualcosa di nuovo ed è un piacere questa curiosità. Come quando provavamo a fissare il sole, chissà perché, pur sapendo che era impossibile: «Fu solo accecato dalla luce, libero come un diavolo, un altro corridore nella notte, accecato dalla luce. Mamma mi diceva sempre di non guardare verso la luce del sole, ma mamma, è lì che c'è divertimento». Sì, Bruce Springsteen.

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