Alberto Bettiol: «Ti racconto questa»

«Ti racconto questa: sai a che ora sono andato a letto la sera prima del giorno in cui ho vinto la Coppa d'Oro? Alle quattro del mattino. Eravamo in questo albergo a far baccano con i miei compagni e il sonno non veniva mai. Sono andato a letto a quell'ora ed il giorno dopo ho vinto. Non lo dico per vantarmi. Lo dico perché oggi una cosa di questo tipo non accadrebbe più ed è un peccato». L'intervista con Alberto Bettiol scorre fluida, all'ora di cena di una gelida serata di novembre, tra la sua parlata toscana, qualche risata e diversi aneddoti. Ogni racconto, anche se giocoso, scherzoso, contiene un insegnamento. Ed è questa la migliore forma di leggerezza, quella che è in grado di riflettere profondità schivando la pesantezza.

«Ci sono gli sponsor che investendo vogliono risultati e i direttori sportivi che, forse poco consapevoli, si rifanno sui ragazzi. Parliamo di bambini di otto, dieci, anni che fanno i rulli o che ricevono in regalo biciclette in carbonio e pedali da professionisti. A cosa serve quella bicicletta ad un bambino che deve fare dodici chilometri? Così si bruciano le tappe e quei ragazzi divenuti allievi non vivranno più quegli entusiasmi che, per esempio, io ho vissuto. La mia prima bicicletta in carbonio, l'ho avuta da juniores, a sedici anni, e per assurdo pesava di più di quella in alluminio perché era un carbonio grezzo ma a me sembrava di aver sotto una Ferrari. Quando ho avuto il mio primo potenziometro, il mio primo srm, da professionista mi sentivo una divinità in terra. Molte volte sono anche i genitori che, credendo di fare del bene, esasperano ogni situazione. In realtà si arriva a casi gravi, a ragazzi che diventano anoressici o bulimici per inseguire le brame genitoriali. Io dico sempre di dover ringraziare i direttori sportivi e le persone che hanno consigliato il mio babbo quando ero piccolo. Hanno sempre detto che avevo delle capacità ma hanno evitato ogni esasperazione. Anche la società, oggi, va in una direzione opposta con la continua ricerca dei risultati. Ma che senso ha il protocollo cerimoniale nelle gare dei più piccoli? Ai bambini non interessa, i bambini di quel risultato si ricordano per pochi minuti, poi vogliono andare a giocare a basket, a calcio, a passeggiare in compagnia nei prati. Il bello in quell'età è proprio questo. Per me il ciclismo era la possibilità di andare lontano da casa, di stare fuori a dormire, di festeggiare con gli amici la fine dell'anno o il capodanno, di stare insieme, di fare gite. Mi sembra che tutto questo si stia perdendo nonostante i tanti volontari che investono soldi propri per aiutare i ragazzini, per portarli alle gare. Nonostante la loro dedizione».

Lugano, dove abita ora Bettiol, è lontano da quel condominio di Castelfiorentino in cui tutto è cominciato: «Noi abitavamo al terzo piano, al secondo c'era il presidente della società locale di ciclismo. Avessi abitato in un altro condominio forse questa storia non sarebbe mai iniziata. Papà mi ha accompagnato ad iscrivermi alla società ma ho continuato anche a fare altri sport. C'era lo studio, c'erano gli amici e tante altre cose che, in quel momento, venivano prima del ciclismo. Può essere che una passione diventi un lavoro ma è un percorso per cui serve tempo. Un percorso graduale in cui i dubbi e i ripensamenti sono all'ordine del giorno, giustamente direi». A Castelfiorentino, in realtà, Bettiol ci è ritornato a fine stagione, lì ha festeggiato il suo compleanno: «Puoi immaginare la gioia di mamma, saranno stati più di cinque o sei anni che non ero a casa con loro il giorno del compleanno. Solitamente ero in vacanza in paesi caldi. Quest'anno non si può ma comunque mi sono regalato delle belle giornate». La sorella della mamma di Alberto Bettiol è insegnante e ha sempre insistito perché Alberto studiasse: «Mi ero anche iscritto all'università ma poi la mia facoltà richiedeva la presenza, quando ho siglato il mio primo contratto, mi sono fermato. Avevo un lavoro, avevo una sicurezza economica. Forse a mia mamma quella scelta non è piaciuta sul momento ma non si poteva fare altro. Ma anche lì: non sai quante volte mi sono chiesto se davvero volevo fare questo. Anche al passaggio a professionista, tante volte mi sono detto: vale la pena fare così tanta fatica per arrivare novantesimo? Sono davvero convinto di quello che sto facendo? Ma io non voglio fare solo questo, io voglio studiare, voglio imparare. Cosa sto facendo? Sono ancora qui perché ho stretto i denti e perché ho trovato persone che mi hanno aspettato con una rara pazienza. Una pazienza che oggi manca. Ai giovani lo dico sempre: il problema non è passare professionisti, il problema è fare i professionisti e restare sempre professionisti». Il ciclismo di Bettiol è medicina «per non pensare a questa situazione, per sentire ancora una parte di normalità» e routine da cui, ogni tanto, staccare la spina: «Riposo, per me, è anche solo la consapevolezza di svegliarsi la mattina e non dover scegliere maglia, guanti, calze, casco e orario per uscire. Ogni tanto staccare è salutare».

Alberto Bettiol è un ragazzo estroverso: «Rido, scherzo, mi racconto molto ma c'è una linea di confine. Per gli affetti e le cose a cui tengo di più ho una cura particolare, queste cose le sanno in pochi, in pochissimi». Quella cura che, forse, è più difficile da preservare dopo la vittoria al Fiandre, l'anno scorso: «Mi dicono tutti che ho fatto un'impresa, che è una vittoria importantissima e mi elogiano. L'altra parte di quella vittoria, però, non la vede nessuno. Ho perso quell'irriconoscibilità, quel silenzio attorno che certe volte è necessario. Non solo sono più controllato in gruppo ma anche nella vita di tutti i giorni. Se Alberto Bettiol non pubblica nulla sui social per qualche giorno sono tutti a chiedersi che fine abbia fatto, cosa sia successo. Sono senza dubbio di più i lati positivi di quelli negativi ma esiste anche l'altro lato della medaglia. Io mi concentro su di me, sulla mia persona. Io sono più importante, poi viene il resto: è l'unico modo per affrontare la situazione». La prima volta in cui Bettiol ha rivisto integralmente quella gara è stato il 7 aprile di quest'anno, nel corso di una replica: «Non amo particolarmente rivedermi. Volevo invece tornare in quei luoghi a passeggiare da solo, a piedi. A guardarmi attorno, incontrando la gente, quella gente, che ha un legame così viscerale col ciclismo. Alcuni erano lì quel giorno. Cosa ho fatto quel giorno, l'ho capito quando sono tornato nelle fiandre quest'anno. L'avevo intuito dall'atteggiamento del pubblico alle gare, da tutte le telefonate arrivate a mamma, papà e a mio fratello, dalla Rai ad attendermi in aeroporto al ritorno. Pensa che, la sera stessa, telefonarono a mio papà per fare delle riprese a casa mia. Lo dico sempre: se il Fiandre lo avesse vinto Sagan, Alaphilippe, Gilbert o Cancellara non sarebbe stato così. Invece lo ha vinto Bettiol e nessuno se lo aspettava. Questo è speciale».

E la pressione? Come si gestisce la pressione che una vittoria del genere comporta? «L'unica pressione che mi resta addosso è quella che mi metto io. A me gli appuntamenti importanti, caricano. Se so che devo correre il mondiale mi gaso, faccio tutto il possibile per arrivarci al meglio, torno dagli allenamenti arrabbiato se non riesco a correre come vorrei e, stai tranquillo, che non sbaglio. Quello che dicono gli altri è relativo. Di più. Quello che dicono gli altri è spesso condizionato da quello che diciamo noi. A me fanno sorridere le colpe date alla stampa. Voi scrivete quello che diciamo noi. In un certo senso invidio i giovani che fanno dichiarazioni mirabolanti. Beati loro che hanno tutte queste sicurezze. Io non ci riesco. Io posso dire che mi impegnerò al massimo, che farò il possibile ed anche di più, ma non mi metterò mai, da solo, fra i favoriti di una corsa. Non mi appartiene caratterialmente e credo sia un bene».

Lo è, Alberto. Lo è.

Foto: Claudio Bergamaschi


Enrico Battaglin: «Sono nato qui»

I luoghi in cui Enrico Battaglin è cresciuto sono gli stessi in cui vive anche adesso e questo torna molte volte nel suo racconto: «Sono cresciuto tra Colceresa e Marostica. Quando mi guardo attorno e vedo questi luoghi ripenso a quando ero ragazzino. Le domeniche d'inverno, quando non corro, mi piace andare in centro a Marostica con mia moglie, sedermi al tavolino di un caffè e fare colazione. Oppure andarci al pomeriggio e fare un aperitivo. Noi, lì, senza troppi pensieri, senza preoccupazioni». Sono proprio questi i luoghi in cui ogni tanto fantastica, spaziando tra passato, presente e futuro: «La mia è una famiglia di contadini. Mio nonno coltivava i campi e aveva animali. Mio papà ha lavorato in ditta ma ora che è in pensione ha ripreso a coltivare mais e a curare i campi. Quando posso mi piace dargli una mano. Chissà, magari un domani. Non so se riesco a spiegarlo a parole ma c'è una soddisfazione particolare in quel prodotto che raccogli dalla terra, è qualcosa di tuo. Lo raccogli, lo depositi nelle cassette, lo guardi e sai che è opera tua. Che il tuo sudore e la tua fatica hanno dato la possibilità a quella frutta o a quella verdura di essere lì, matura, in quei cesti». E sono questi paesaggi, questa terra e queste persone a mancargli quando è via: «Il mio tempo, in questi giorni, è per Arianna, mia moglie, per i miei nipoti, Mattia e Luca, e per il mio cane Leo. Non ho fatto vacanze, sono stato solo un giorno al mare, a Caorle, ma nulla di che. C'è un gusto molto intenso nell'essere qui con loro».

Una condivisione che è mutata nel tempo e lo ha reso l'uomo che è oggi: «Sino a due anni fa vivevo con i miei genitori. Nel 2018 mi sono sposato e sono andato a vivere con mia moglie. Un passo importante che mi ha reso felice. Credo di aver imparato molto in questo periodo, proprio come persona. Non ero capace di fare molte cose, ho dovuto imparare e penso che questo mi abbia fatto bene». Quest’inverno Enrico Battaglin ha lavorato tanto, a marzo, però, sembrava tutto finito: «Ci siamo trovati a fronteggiare qualcosa che non conoscevamo e questo paralizza. Siamo ancora in un momento difficile ma sappiamo come muoverci e questo deve essere un motivo per sperare. Quando dico che la situazione attuale è diversa da quella di questa primavera intendo proprio questo». Questa consapevolezza nello scorrere del tempo lo rende sereno: «Come torno in Bardiani? Intanto più vecchio, dici poco? A parte gli scherzi, sono già passati cinque anni. Lavorerò con molti giovani e mi piacerebbe lasciare loro qualcosa di quello che ho appreso nel WorldTour. Molte volte basta poco, un consiglio da niente e la tua strada è più semplice. Io vorrei fare questo per loro, altrimenti a cosa serve il tempo che passa?». I giovani gli stanno particolarmente a cuore e la sua riflessione al proposito è profonda: «Si inizia sempre per gioco, poi da Under23 intuisci che potrebbe essere qualcosa in più. Quando passi di categoria sei orgoglioso ma devi restare con i piedi per terra. Se ti illudi e molli un poco la presa rischi di buttare tutto all'aria. Quando sono passato io professionista eravamo più o meno tutti allo stesso livello, oggi in gruppo ci sono ragazzi molto giovani che hanno caratteristiche fuori dal comune. All'estero, poi, "maturano" prima atleticamente e anticipano scelte che noi magari facciamo più tardi. Ed è bello ma anche rischioso: appena vediamo qualcuno particolarmente bravo tendiamo tutti a fare paragoni col passato perché, in fondo, siamo alla ricerca del fenomeno. Forse dovremmo essere più cauti con le parole, faremmo del bene a tanti ragazzi».

Se parla di Steven Kruijswijk, Battaglin ripensa a quella tappa del Giro d'Italia 2016, a quella caduta mentre l'olandese era in maglia rosa e al Giro che fugge via: «Sono situazioni in cui non vorresti mai trovarti. Non sai nemmeno cosa dire perché a parole è sempre tutto più facile mentre nei fatti per superare certe batoste c'è solo il tempo. Consolare qualcuno è sempre difficile, farlo in una lingua che non è la tua è molto più complesso. Cerchi gli sguardi. Cerchi di smorzare quel senso di colpa che chi cade può avere con un cenno, un gesto. Cosa puoi fare? Ricordo come fosse ora quella sera, a cena. Non riuscivamo a parlare, occhi bassi, tanta delusione». Qui subentra la conoscenza tra capitano e gregari: «Sembra facile, in realtà è un finissimo lavoro di conoscenza che si perfeziona negli anni. Ogni uomo è diverso, ogni capitano è diverso e vuole cose diverse. Per conoscersi bene servono un paio di anni di lavoro spalla a spalla. Accade come per i treni: un treno vincente è un treno con meccanismi affinati, l'esperienza lo conferma». Gli anni in Lotto Jumbo gli hanno fatto conoscere anche Primoz Roglič: «A me hanno sempre sorpreso i suoi valori. Perché è arrivato tardi al ciclismo altrimenti sono convinto potrebbe aver già vinto un Giro, un Tour e forse anche una Vuelta in più. Impara molto velocemente: nei primi tempi aveva più difficoltà a muoversi in gruppo, cadeva o restava nelle retrovie. Ora è davvero abile. Ci sono sempre stati buoni corridori fra gli sloveni, in questi anni è avvenuta l'esplosione». Sarà per quell'umiltà che lo caratterizza, sarà per come ha vissuto la sua carriera da ciclista, sarà per quella terra che lo ha cresciuto ma Enrico Battaglin preferisce raccontare ciò che farà per avverare i sogni degli altri, i suoi sogni li tiene nascosti, in disparte, e li racconta abbassando la voce, quasi per non fare rumore: «Ho già vinto tre tappe al Giro d'Italia, mi piacerebbe tornare a vincerne una. Quest'anno mi mancava così poco. Di sicuro quando vedrò il calendario segnerò diversi giorni con un cerchio rosso. Mi piace buttarmi, provare, inventare. Poi c'è quel sogno nel cassetto da tanto: inventarmi qualcosa alla Milano-Sanremo, magari arrivare in via Roma a braccia levate. C'è e lo custodisco gelosamente, tornando a visitarlo ogni tanto».

Foto: Claudio Bergamaschi

Il grido di Alfonsina Strada

Partiamo da qui. Partiamo da quel giorno del 1924 in cui Alfonsina Strada si presentò alla sede de "La Gazzetta dello Sport" chiedendo di poter partecipare al Giro d'Italia. Strada aveva già ricevuto tre rifiuti ma in quell'anno la richiesta venne accettata nonostante la contrarietà di alcuni organizzatori che temevano che questa scelta potesse finire per caratterizzare il Giro come una pagliacciata. La ragione del cambio di rotta fu di natura molto pragmatica: molti atleti avevano disertato la corsa, fra gli altri Girardengo e Bottecchia, e quel Giro d'Italia rischiava di avere una lista di partenti decisamente povera. Allora Alfonsina Strada era un "buon espediente" per alzare le luci sulla corsa. Solo quello, non illudiamoci. Tanto più che nelle liste ufficiali degli iscritti il nome venne riportato variato: chi scrisse Alfonsin Strada e chi, senza remore, Alfonsino Strada.

Perché siamo partiti da qui? Per un motivo molto semplice. Tempo fa, raccontando questa vicenda e sottolineando i grossi passi da fare per l'emancipazione femminile, qualcuno alzò la mano e ci disse: «Sono passati quasi cent'anni. Non vorremo fare paragoni?». Quel gentil signore suscitò in noi una riflessione. Ed è vero, le cose sono cambiate. C'è però un problema: sono cambiate, migliorate, senza dubbio, ma non si sono completamente aggiustate. In quel tempo, che non è nemmeno così remoto, almeno si agiva in determinati modi con la consapevolezza dei fini delle proprie azioni, fini spregevoli sia chiaro, oggi invece si agisce senza più la consapevolezza delle discriminazioni di genere che alcuni pongono in essere ed anzi talvolta con la fierezza di chi quella parità di genere la ha raggiunta. O ancor peggio, per gli uomini, di chi quella parità la "permette", come se le donne dovessero attendere il cenno del capo di un uomo per sentirsi libere o per agire. I comportamenti sono, forse, meno gravi. Quello che invece resta grave è l'inconsapevolezza. Già, perché, in fondo, non c'è nulla di peggio di questo.

Raccontare la storia di Alfonsina Strada assume un senso particolare se quel racconto può, in qualche modo, cambiare la nostra realtà quotidiana. Come? Per esempio attraverso l'acquisizione di qualche consapevolezza che ancora ci manca e che può aiutarci a smascherare ogni "concessione" travestita da parità di genere, ogni comportamento che, sotto sotto, bercia al maschilismo fingendo buone intenzione, ogni dettaglio, ma forse neanche troppo dettaglio, che fa la differenza quando si parla di donne.

Serve raccontare, per esempio, di come Alfonsina iniziò ad andare in bicicletta, su un mezzo definito "ai limiti del rottame" perché le famiglie privilegiavano i maschi, perché anche il ciclismo privilegiava i maschi. Di quella discriminazione, piccola agli occhi dei contemporanei, perché "cosa vuoi che sia? Una ragazza può fare altro", di tutto quello che avrebbe potuto togliere ad Alfonsina Strada e di tutto quello che sicuramente ha tolto a tante altre ragazze che avevano sogni simili a quelli di Alfonsina.

È bello raccontare la fatica che Alfonsina Strada dovette fare per convincere gli organizzatori e per partecipare al Giro di Lombardia nel 1917. Arrivò ultima, a più di un'ora e mezza dal vincitore, ma arrivò. Serve raccontarlo perché, se al posto di Strada, ci fosse stata un'altra donna, se quella donna si fosse arresa all'idea degli uomini, probabilmente la nostra quotidianità sarebbe infinitamente diversa. Alfonsina Strada non lo fece. Alfonsina Strada che a quel Giro, quello a cui non la volevano, quello a cui la fecero passare per un maschio, lottò ad armi pari con gli uomini per otto tappe e cedette solo a una caduta e a dolori per cui molti si sarebbero ritirati. Lei venne mantenuta in corsa, pur se non in gara, e al Guerin Sportivo dichiarò: «Sono una donna, è vero. E può darsi che non sia molto estetica e graziosa, una donna che corre in bicicletta. Vede come sono ridotta? Non sono mai stata bella; ora sono un mostro. Ma che dovevo fare? La puttana? Ho un marito al manicomio che devo aiutare; ho una bimba al collegio che mi costa dieci lire al giorno. Ad Aquila avevo raggranellato cinquecento lire che spedii subito e che mi servirono per mettere a posto tante cose. Ho le gambe buone, i pubblici di tutta Italia (specie le donne e le madri) mi trattano con entusiasmo. Non sono pentita. Ho avuto delle amarezze, qualcuno mi ha schernita; ma io sono soddisfatta e so di avere fatto bene». Spediva ogni vaglia al marito e alla figlia e andava avanti, nonostante tutto, perché sapeva di aver fatto bene.

Una recente ricerca di Cyclist Alliance evidenzia dati allarmanti rispetto alla situazione del ciclismo femminile: il numero di atlete con uno stipendio pari a zero euro è aumentato dal 17% nel 2019 al 25% nel 2020. A seguito della pandemia da Covid-19, il 29% delle atlete ha subito una riduzione dello stipendio. Più di cento ragazze hanno partecipato al sondaggio ed il 43% di loro ha affermato di aver rimborsato la propria squadra per attrezzature, assistenza medica, assistenza meccanica e costi di viaggio. Il 33% è costretta a svolgere un secondo lavoro per mantenersi.

Tutte ragazze che continuano a svolgere il proprio lavoro al meglio. Ragazze che fanno bene e che la bicicletta, nonostante tutto, fa stare bene. Per quanto tempo sarà ancora possibile tutto questo? Quanti anni dovranno ancora passare? Conviene sbrigarsi. Anche le storie più importanti rischiano di essere inutili se si continua a fingere di non sentirle.

Foto: The documentary

Buona fortuna Tom-Jelte Slagter

Vi parliamo di Tom-Jelte Slagter ma potremmo parlarvi di tanti altri ragazzi e di tante altre ragazze. Vi parliamo di Tom Jelte Slagter perché per parlare d'altro si finisce per non parlare di ragazzi come Slagter. E invece parlare di ragazzi come Slagter è importante, perché ai più nella vita capita di trovarsi in situazioni affini a quella in cui si è trovato e si trova Slagter. Tom-Jelte Slagter ha deciso e reso pubblica la sua decisione: «Non sarò un ciclista professionista nel 2021. Ho trascorso dieci anni in gruppo, un periodo che porterò sempre con me ma ora è il momento dei saluti. Posso già raccontarvi dove sarà il mio futuro, ho da poco siglato un contratto con John Deere: sarò un rappresentante e rivenditore di macchine agricole nella zona di Groninga, la mia zona natale». Da quanto si racconta, Slagter, questa estate, dopo l'esclusione dal Tour de France, avrebbe avuto modo di incontrare un noto rivenditore di trattori della zona e costui, appassionato di ciclismo, gli avrebbe offerto un lavoro a partire dal prossimo mese di gennaio. Tom-Jelte Slagter ha trentun'anni ed è professionista dal 2011, nella sua carriera ha corso per squadre di tutto rispetto, Rabobank, Garmin, Cannondale e Dimension Data, fra le altre, non riuscendo tuttavia ad emergere con risultati di particolare spessore. Slagter è un onesto ragioniere della bicicletta ma questo ha poco a che fare con quello che vogliamo dirvi. E, forse, quello che vogliamo dirvi ha anche poco a che vedere con noi ma solo apparentemente.

Vi abbiamo sempre detto che essere Alvento vuol dire stringere i denti, vuol dire resistere, vuol dire rimanere da soli e continuare a pedalare, in testa o in coda al gruppo. Ed è vero: chi fa questo è Alvento. Senza ombra di dubbio. Ma c'è qualcosa da ricordare sempre anche quando la società tende a farcelo scordare. Già, perché sotto sotto l'idea che arriva da ogni dove è questa: devi resistere a tutti i costi altrimenti sei un perdente, altrimenti non vali, altrimenti sei un debole, senza grinta e coraggio. Questa idea è sbagliata, bisogna dirlo a voce alta. È sbagliata perché, alcune volte, nella vita fermarsi è necessario come è necessario cambiare strada o lasciar perdere. Lo è per noi, per la nostra persona. Chi si ferma, chi cambia strada, chi, a qualunque età, prova a cambiare la prova vita non manca di coraggio e di grinta, anzi. Anche se la strada precedente era stata una sua scelta, anche se l'aveva voluta con tutto ciò che poteva dare, anche se arrendersi, alcune volte, sa tanto di fallimento e come tale viene giudicato. Abbiamo la possibilità di tornare a scegliere e di cambiare scelta. Non ci è vietato, non dobbiamo temere questa opzione. Abbiamo la possibilità di fermarci dopo aver investito tanto, anche tutto, su un progetto o un'idea di futuro. Abbiamo il dovere di farlo se, in quel momento, crediamo che la nostra vita debba prendere un'altra direzione. Abbiamo anche il dovere di dirlo, di raccontarlo, senza temere coloro che semplificheranno: «Hai rinunciato perché non ci riuscivi». Forse sì o forse no. Non cambia nulla. Se non riusciamo più a continuare abbiamo il diritto di dirlo chiaramente e per una volta di non ascoltare tutti quelli che ci diranno: «Hai scelto tu questa via, ora devi arrivare in fondo. Devi farcela. Non puoi arrenderti adesso». Lo dicono per farci coraggio, certo. Molte volte vale questo discorso, altre no. Arrendersi, se così si può dire, quando non riusciamo più a fare qualcosa è possibile. Certe volte è salutare. Questo non significa non dare tutto, questo significa dare tutto ma capire, con lucidità e coraggio, quando il tuo significato è altrove.

Tom-Jelte Slagter, a quanto sappiamo, aveva altre offerte e avrebbe potuto continuare a correre anche la prossima stagione. Recentemente ha dichiarato: «Il ciclismo è stato importante ma non è mai stato tutta la mia vita. Forse anche per questo ho fatto questa scelta». Chi decide di cambiare ha paura, quasi sempre. Per assurdo, avrebbe potuto essere più comodo continuare a correre. Per assurdo, forse, avrebbe richiesto meno grinta lasciare tutto come era e far finta di niente. Far finta di non sentire quei discorsi che tutti ci facciamo, nella mente, e che ci dicono cosa fare e quando farlo. Non li ascoltiamo perché ascoltarli significa dover spiegare tante cose a tutti e sottoporsi a ogni genere di giudizi, simili a quelli citati, che sicuramente ci verranno appiccicati addosso. Dovremmo farlo, invece, e dovremmo ringraziare chi lo fa, facendogli il più grande in bocca al lupo. Perché se a ben pochi fra noi, forse a nessuno, capiterà di vincere il Tour de France o il Giro d'Italia, a molti accadrà di dover cambiare via, per stanchezza, per scelta, per necessità, talvolta solo per motivi di forza maggiore. I motivi non importano poi più di tanto. Tutte le persone che devono fare una scelta di questo tipo sono "Alvento" e fanno fatica, una fatica assurda. Hanno bisogno di ascolto, di comprensione, di appoggio e magari di qualcuno che racconti le loro storie per tutto il bello che racchiudono. Sì, perché chi sceglie di cambiare è da ammirare come chi tiene duro.

Foto: Tom-Jelte Slagter


Diego Rosa: «Guardo al lato buono della realtà»

«Sai, ci lamentiamo tutti per questa situazione e lo capisco benissimo. Davvero. Il 23 settembre sono diventato papà per la seconda volta. Da quel giorno non mi sono staccato da mio figlio un attimo. Si chiama Noah. Mi piace tenerlo in braccio, tenerlo vicino. Anche adesso, mentre parlo con te. Con Elia non avevo potuto, ero sempre fuori per lavoro. Elia quando tornavo a casa dai ritiri piangeva, sembrava non mi riconoscesse. Sto vivendo dei momenti stupendi. Penso a quello che accade fuori da qui e mi spiace perché è brutto, bruttissimo. Poi penso a questa casa, a quei due piccolini che sono qui a giocare, e mi dico: ma cosa potevi volere di meglio dalla vita?». Diego Rosa è un ragazzo abituato a cercare il lato buono delle cose e questa volta il lato buono, per lui, è davvero grande. Ha maturato questa abitudine perché, del resto, fare diversamente non cambia la realtà: «Noi non abbiamo il potere di cambiare questa situazione. Dobbiamo seguire le regole ma non possiamo fare altro. Dovrà passare del tempo e provare ad essere sereni, per quanto possibile, offre a questo tempo la possibilità di trascorrere meglio. Per questo dico sempre di guardare il mondo con serenità, perché in questo modo gli si offre una possibilità di essere sopportabile anche in momenti bui».

Questa forma di serenità diventa sicurezza nei fatti e nelle parole: «A me piace essere schietto. Alcuni mi dicono che vedo solo il bianco ed il nero delle situazioni e non so captare il grigio. Forse è vero e forse, in alcuni frangenti, questo mi penalizza. Ma, alla fine, sono convinto che sia necessario. Forse è anche un aspetto caratteriale che appartiene ai ciclisti, altrimenti avremmo scelto un altro mestiere. Seguo molto l'istinto e le mie scelte sono difficilmente comprensibili razionalmente. Seguo l'istinto per scegliere e per esprimermi. Quando, a inizio stagione, alla Parigi-Nizza, continuavamo a correre nonostante la pandemia ero esterrefatto. Mi sembrava una recita. Perché fingere una normalità che non c'è? Questo non è quel lato buono delle situazioni, questo significa ingannarsi consapevoli di sbagliarsi. Bisogna anche avere il coraggio di fermarsi e cercare a bocce ferme un punto da cui ripartire».

Questa continua ricerca non gli ha impedito di avere paura. Una paura che in questa stagione si è ripresentata in molteplici forme: «A dirti la verità, quando ci dicevano che saremmo tornati a correre, non ci credevo e avevo paura. Ma non tanto per le gare, sia chiaro. Ci si può anche fermare per un anno, si può anche vivere un anno senza ciclismo. Le cose essenziali nella vita sono altre. Il problema è che molte squadre non avrebbero retto un anno senza corse e, probabilmente, avrebbero chiuso. E chi pensa al futuro di tutti coloro che ci lavorano? Non parlo tanto di atleti. Noi siamo comunque dei privilegiati. Parlo del personale. Ci sono squadre che hanno sessanta, settanta persone al loro interno. Se chiudono due squadre restano "a spasso" più di centoventi persone. Questo è drammatico. Noi atleti sappiamo che il ciclismo sarà una parentesi della nostra vita e che, si spera il più tardi possibile, ma verrà il giorno in cui appendere la bici al chiodo. Ma loro? Mi conforta il fatto che per arrivare a fare questo lavoro hanno dovuto stringere i denti tante volte, sottoporsi a tanti sacrifici, fare molte rinunce. Sono abituati a resistere. Li invito a stringere i denti ancora una volta, a tenere duro. Tutto questo finirà».

Paura che può essere anche mancanza: «All'inizio, pur di tornare a fare il nostro lavoro abbiamo passato in secondo piano tanti aspetti: la mancanza di pubblico, per esempio. E, se non si può fare altrimenti, va bene così. Ma poi te ne accorgi, ti accorgi di quanto le persone ti manchino. Al Tour de France salivamo sul palco a salutare un pubblico che non c'era. Alla "Strade Bianche" sono arrivato staccato. Di solito sull'ultimo strappo c'è tantissima gente ad applaudire, ad incitare. Questa volta no. Questa volta c'era un silenzio spettrale. Un silenzio che mi ha fatto parecchio male, che mi ha fatto sentire ancora più solo».

Al Tour de France, Diego Rosa si è trovato diverse sere a parlare con i propri compagni: «Ad un certo punto, siamo arrivati ad avere un vero e proprio terrore dei tamponi. Noi eravamo davvero in una bolla ma con il regolamento del Tour sarebbero bastati l'autista del bus, un massaggiatore e magari un D.S. positivi per andare a casa tutti. Io ho lasciato il Tour dopo alcune tappe per una brutta caduta e la frattura della clavicola, ma, dei giorni che ho vissuto, ricordo questo. Ci dicevamo che dovevamo essere fortunati, che se la sfortuna avesse deciso di affiancarci, sarebbe stata la fine. Difficile correre così, molto difficile».

Poi ci sono le parole per i suoi figli, quelle che suonano come un auspicio di futuro: «Io vorrei solo che si realizzassero per ciò che sono e che desiderano. Senza lasciarsi intrappolare troppo dalle voci della gente. Credo non ci possa essere desiderio più bello da esprimere per un figlio. Che possa percepire chiaramente la sua essenza e che possa avverarla. Con tutta la tenacia che serve. E certe volte ne serve davvero tanta».

Foto: Claudio Bergamaschi


Sul divano con papà

Vi ricordate la promessa di Giulia? Noi ce la ricordiamo bene. Di Giulia avevamo incontrato il padre al Giro Rosa, a settembre. Un padre che avrebbe voluto provare il piacere di assistere ad una gara dal vivo assieme alla figlia, una ragazza a cui il ciclismo non è mai piaciuto e per questo alle gare con papà non è mai andata. Proprio il papà di Giulia mi aveva pregato di parlarle, di spiegarle perché sarebbe dovuta andare ad una gara con papà. Così avevo fatto, una sera di settembre, dalla camera di un albergo. Ero crollato dal sonno ma le avevo strappato una promessa: «Cercami ad una delle prossime corse, mi vedrai accanto a papà. Te lo prometto». Da quel giorno, di Giulia non ho più saputo nulla. Fino a questa mattina quando Giulia mi ha scritto.

Ho risposto con l'animo di chi non sente un amico da tanto tempo e si attende il racconto di una vita trascorsa ma non condivisa. Io e Giulia non siamo amici. La nostra conoscenza passa per poco più di un nome. In fondo, però, sono io ad aver raccontato qualcosa di Giulia. In fondo, Giulia è passata per le mie parole. Mi spiego? Ci sono state delle ore, quelle di scrittura del pezzo, in cui Giulia era tutta la mia realtà. Devi essere fedele, estremamente fedele, alle storie che racconti. Cosa vuol dire? Vuol dire che devi volere bene alle tue storie, che devi dare tutto per le storie, che devi averne profonda cura perché a qualcuno arriveranno attraverso il tuo filtro. E se non sarai attento, se non vorrai abbastanza bene a ciò che racconti, lo racconterai male. Gli farai un torto, un grave torto. Una forma di trascuratezza indegna. Come invitare un amico a casa e poi non dedicargli tempo. Se non hai tempo, meglio non invitare nessuno. Se non sei attento alla tua storia meglio lasciarla ad altri. Anzi, se le vuoi bene hai il dovere di lasciarla raccontare ad altri. Così da Giulia ho voluto sapere proprio tutto del futuro di quella promessa.

G: «Purtroppo devo dirti che non sono ancora andata a nessuna gara con papà ma lo farò presto. Te lo ho promesso!»
S: «Con questa situazione, immaginavo. Chissà quando sarà quel "presto..."»

Istintivamente ho provato a portare il discorso su altri temi. Vero che a quella promessa tengo molto, che non vedo l'ora che quel giorno arrivi perché sono certo che vedrà un padre e una figlia emozionati, però alle promesse bisogna lasciare il loro tempo, affinché si avverino con delicatezza. Affinché non diventino scadenze da rispettare ma volontà palpitanti. Il mio tentativo però ha poco successo, Giulia ritorna sul tema.

G: «Non ti ho scritto per dirti questo. Ti ho scritto per dirti che avevi ragione»
S: «Non puoi ancora saperlo. Se avrò avuto ragione me lo dirai quando ci ritroveremo ad una gara. Succederà»
G: «E invece lo so già. Dall'altro pomeriggio»
S: «Sei riuscita a vedere qualche gara dal vivo? Ma come? Non ce ne sono»
G:«No, non sono stata ad una gara però ho fatto una cosa che non avevo mai fatto prima»
S: «Raccontami»
G: «L'altro pomeriggio sono passata dalla sala mentre papà stava vedendo una gara in televisione. Credo una delle solite repliche che ormai conosce a memoria ma mio papà è così. Non si stanca mai. Beh mi sono seduta lì con lui. Non lo avevo mai fatto»

Ero contento, così contento che ho sciolto subito quella domanda che mi facevo dall'inizio del racconto: «Ti è piaciuto?»

G:«No, è stata una gara noiosissima. Non succede nulla per interi minuti, non so come facciate voi. A me ad un certo punto cala il sonno. Papà vede ore ed ore di dirette... che pazienza!»

Ho risposto con un silenzio più lungo del solito. Amareggiato, con una profonda sensazione di aver fallito. Ho ripensato a quell'uomo e al suo desiderio. Me lo sono immaginato dopo quella gara, deluso dal fatto di non essere riuscito a far capire alla figlia cosa provasse davanti a quelle biciclette. Ho immaginato ma ho immaginato male.

G: «Sapevo sarebbe finita così. Il ciclismo non mi piace e gli sforzi tuoi e di mio papà non cambieranno nulla. Mi spiace. Però ora sono ancora più convinta del fatto che andrò a qualche gara con papà. A costo di annoiarmi»
S: «Perché?»
G: «Perché, ad un certo punto, non so cosa stesse succedendo in corsa, papà si è esaltato. Ha fatto un balzo avanti sul divano e mi diceva: "Guarda, guarda, ora va via da solo". Dovevi vederlo! Ad un certo punto ha messo una mano sul mio braccio e ha stretto forte. Lui quando è felice fa così, anche quando faccio qualcosa di bello fa così. Credo sia come dire: "Sei forte". Non lo so esattamente ma se lo fa è perché è felice. A cena mi ha anche ringraziato per essere stata con lui a vedere la corsa ma non serviva. Avevo già capito di averlo fatto felice. Basta davvero poco per far felice qualcuno, no?»

Sì Giulia, basta davvero poco. Pochissimo. E noi siamo felici come papà.

Grazie per aver mantenuto quella promessa. Ci abbiamo sempre creduto e abbiamo fatto bene.

Foto: Claudio Bergamaschi

Alex Dowsett, una vittoria che vale ben una lacrima

Alex Dowsett, qualche anno fa, ha rischiato di non essere più quello che tutti conosciamo oggi. Quello che, in fondo, era sempre stato. Può succedere nella vita. Può succedere quando ti metti a fare qualcosa e scopri che ti riesce abbastanza, di più, scopri che sei proprio bravo a fare quella cosa. Che hai un talento. Dowsett, tra il 2013 e il 2014, ha capito di essere un asso nelle prove contro il tempo: oro ai Giochi del Commonwealth, sei volte campione britannico, Record dell'ora nel 2015 e piazzamenti di prestigio internazionale. Il talento è prezioso, certo. Ma ha una doppia faccia, come tutte le cose. Può farti perdere il contatto con la realtà, può convincerti di essere superiore agli altri, non più bravo in un determinato campo, quello ci sta, proprio superiore. Può portarti ad atteggiamenti di superbia. Può accadere a tutti, forse ci sono più probabilità che accada a chi magari, per arrivare a quel punto, ha sofferto molto, a chi, per qualunque motivo, non credeva in alcun modo di poterci arrivare, alle persone che nessuno credeva avrebbero potuto arrivarci. Non tanto o non solo per mancanza di fiducia nelle loro possibilità ma perché la natura ci ha messo lo zampino. Ecco, quando accade così, e tu arrivi a dimostrare a tutti il tuo talento, e arrivi comunque ad avere successo, puoi reagire in due modi: ricordandoti di te da ragazzo e provando a fare qualcosa per i ragazzi e le ragazze che oggi sono come te, oppure puoi reagire altezzosamente, senza controllare quel senso di rivincita col mondo che ti porti dentro. Un senso di rivincita che non è detto sia negativo ma, come tutte le pulsioni, ha bisogno di essere incanalato, di essere indirizzato, affinché non sia sprecato. Affinché sia "meritato" e lo si renda utile, seme e non erba cattiva.

Ad Alex Dowsett stava succedendo questo, perché quel senso di rivincita era deragliato, fuori controllo e Alex aveva dimenticato il motivo che lo aveva portato lì e se dimentichi il motivo per cui fai qualcosa, hai scordato tutto. Poi ci furono le parole di una signora in Portogallo. Una signora che non lo conosceva, o meglio, una signora che conosceva quello che era Alex Dowsett e non quello che stava diventando. Gli disse: «Grazie infinite, Alex. Ora so che mio figlio potrà condurre una vita normale». E Dowsett ricordò. Ricordò le corse in ospedale perché, quando da bambino si tagliava, anche per un minimo taglio, il sangue usciva a fiotti, non si arrestava più. Ricordò l'ansia dei suoi genitori, le paure per qualunque cosa facesse. Alex Dowsett scoprì così di essere emofiliaco: il suo sangue non coagulava bene e per rimediare a questo servivano delle iniezioni. Ma in realtà serviva molto di più, era necessario convincere tutti gli adulti che lui avrebbe potuto essere esattamente come loro. Dowsett, quel giorno, ricordò questo, ricordò i compleanni degli amici, a cui non veniva invitato per paura di quello che sarebbe potuto succedere se solo fosse caduto, se solo si fosse sbucciato un ginocchio. E pensare che Alex aveva imparato sin da bambino a farsi da solo quelle iniezioni ma le persone hanno paura, anche giustamente, se vogliamo, e non puoi farci niente.

E c'erano le storie che papà gli raccontava abbracciati sul divano: storie di sport, perché Phil Dowsett, questo il nome del padre, era stato un pilota di British Touring Car. Papà avrebbe tanto voluto che un domani fosse proprio Alex a fare da cantastorie per altri bambini, per i suoi figli. Forse per questo lo iscrisse a nuoto, perché voleva che il futuro del figlio fosse un futuro da raccontare, fosse un futuro di cui andare fieri. Sì, perché quell'istinto di rivincita verso ciò che ci capita lo abbiamo noi stessi ma prima di noi lo hanno, per noi, le persone che ci vogliono bene, i nostri genitori. A papà Phil piaceva immaginare Alex mentre raccontava storie a un nipotino perché questo voleva dire che suo figlio avrebbe potuto viverle quelle storie. Che suo figlio avrebbe potuto avere "una vita normale". Suo papà voleva esattamente quello che voleva quella signora e presto capì che l'unico modo per regalare una vita normale ad Alex era lasciargliela vivere come desiderava. Alex Dowsett desiderava correre in bicicletta.
Fu così che Alex Dowsett tornò ad essere il vero Alex Dowsett. Inizia in questo modo il racconto che questo ragazzo ha portato nelle città e nelle scuole con associazioni e campagne di sensibilizzazione. Per dire che è normale avere paura, sua mamma la ha ancora per le corse del figlio, ma l'emofilia è qualcosa con cui convivere, qualcosa da cui non farsi paralizzare, perché la medicina avanza e le cure ci sono. Lo testimonia lui, primo ed unico atleta professionista emofiliaco. Questa è la sua storia da raccontare a tutti e da gennaio a suo figlio. Già perché il desiderio di papà si è avverato e Alex diventerà a sua volta papà. Parlerà di tantissime cose con quel bambino, gli dirà che contro la paura si può sempre fare qualcosa e che la tua paura non è sprecata se serve a far coraggio ad altri. Poi gli racconterà delle gare e di quel giorno d'autunno in cui vinse una tappa al Giro d'Italia mentre piangeva e diceva che il futuro era tutto lì. E farà tanto perché queste storie non finiscano mai, perché l'immaginario di suo figlio sia il più variegato possibile. Un mese prima della nascita, per esempio, tenterà un nuovo record dell'ora e se ci riuscirà sarà ancora più felice perché quel bambino saprà che ancora una cosa in più è possibile.

Ad Alex Dowsett stava succedendo questo, perché quel senso di rivincita era deragliato, fuori controllo e Alex aveva dimenticato il motivo che lo aveva portato lì e se dimentichi il motivo per cui fai qualcosa, hai scordato tutto. Poi ci furono le parole di una signora in Portogallo. Una signora che non lo conosceva, o meglio, una signora che conosceva quello che era Alex Dowsett e non quello che stava diventando. Gli disse: «Grazie infinite, Alex. Ora so che mio figlio potrà condurre una vita normale». E Dowsett ricordò. Ricordò le corse in ospedale perché, quando da bambino si tagliava, anche per un minimo taglio, il sangue usciva a fiotti, non si arrestava più. Ricordò l'ansia dei suoi genitori, le paure per qualunque cosa facesse. Alex Dowsett scoprì così di essere emofiliaco: il suo sangue non coagulava bene e per rimediare a questo servivano delle iniezioni. Ma in realtà serviva molto di più, era necessario convincere tutti gli adulti che lui avrebbe potuto essere esattamente come loro. Dowsett, quel giorno, ricordò questo, ricordò i compleanni degli amici, a cui non veniva invitato per paura di quello che sarebbe potuto succedere se solo fosse caduto, se solo si fosse sbucciato un ginocchio. E pensare che Alex aveva imparato sin da bambino a farsi da solo quelle iniezioni ma le persone hanno paura, anche giustamente, se vogliamo, e non puoi farci niente.

E c'erano le storie che papà gli raccontava abbracciati sul divano: storie di sport, perché Phil Dowsett, questo il nome del padre, era stato un pilota di British Touring Car. Papà avrebbe tanto voluto che un domani fosse proprio Alex a fare da cantastorie per altri bambini, per i suoi figli. Forse per questo lo iscrisse a nuoto, perché voleva che il futuro del figlio fosse un futuro da raccontare, fosse un futuro di cui andare fieri. Sì, perché quell'istinto di rivincita verso ciò che ci capita lo abbiamo noi stessi ma prima di noi lo hanno, per noi, le persone che ci vogliono bene, i nostri genitori. A papà Phil piaceva immaginare Alex mentre raccontava storie a un nipotino perché questo voleva dire che suo figlio avrebbe potuto viverle quelle storie. Che suo figlio avrebbe potuto avere "una vita normale". Suo papà voleva esattamente quello che voleva quella signora e presto capì che l'unico modo per regalare una vita normale ad Alex era lasciargliela vivere come desiderava. Alex Dowsett desiderava correre in bicicletta.
Fu così che Alex Dowsett tornò ad essere il vero Alex Dowsett. Inizia in questo modo il racconto che questo ragazzo ha portato nelle città e nelle scuole con associazioni e campagne di sensibilizzazione. Per dire che è normale avere paura, sua mamma la ha ancora per le corse del figlio, ma l'emofilia è qualcosa con cui convivere, qualcosa da cui non farsi paralizzare, perché la medicina avanza e le cure ci sono. Lo testimonia lui, primo ed unico atleta professionista emofiliaco. Questa è la sua storia da raccontare a tutti e da gennaio a suo figlio. Già perché il desiderio di papà si è avverato e Alex diventerà a sua volta papà. Parlerà di tantissime cose con quel bambino, gli dirà che contro la paura si può sempre fare qualcosa e che la tua paura non è sprecata se serve a far coraggio ad altri. Poi gli racconterà delle gare e di quel giorno d'autunno in cui vinse una tappa al Giro d'Italia mentre piangeva e diceva che il futuro era tutto lì. E farà tanto perché queste storie non finiscano mai, perché l'immaginario di suo figlio sia il più variegato possibile. Un mese prima della nascita, per esempio, tenterà un nuovo record dell'ora e se ci riuscirà sarà ancora più felice perché quel bambino saprà che ancora una cosa in più è possibile.

Foto: Pentaphoto


Cento sfumature di solitudine

C'era un ragazzino, a Parigi, il 20 settembre. C'era anche l'ultima tappa del Tour de France, a Parigi, il 20 settembre. Quel ragazzino era accanto a delle transenne, più alte di lui, poste a protezione della bolla del gruppo, alla partenza. Quel ragazzino era lì per vedere. Per questo avvicinava gli occhi- chissà di che colore li aveva gli occhi- ad ogni fessura della transenna e provava a vedere oltre. Non crediamo abbia visto molto ma siamo certi che qualunque cosa vedesse gli bastasse, per restare lì tutto quel tempo. C'era silenzio, a Parigi, il 20 settembre e si sentiva tutto.

C'era Tao Gheoghegan Hart, a Milano, il 25 ottobre. C'era anche l'ultima tappa del Giro d'Italia, a Milano, il 25 ottobre. Tao Gheoghegan Hart aveva appena vinto il Giro d'Italia, dopo una cronometro corsa sul filo dei secondi. C'era una ragazza, Hannah Barnes, che gli correva incontro in una piazza Duomo deserta, avvolta nella nebbia. Anche Hannah è una ciclista. C'era Tao che le scostava la mascherina dal viso con una delicatezza indescrivibile, quasi a dire: «Fammi vedere ancora una volta quanto sei bella..». Poi c'era Tao Gheoghegan Hart che baciava Hannah Barnes. C'era silenzio a Milano, il 25 ottobre e si sentiva tutto.
C'erano Chris Froome e Rui Oliveira, a Madrid, l'8 novembre. C'era anche l'ultima tappa della Vuelta, a Madrid, l'8 novembre. Froome e Oliveira che si incontrano da qualche parte dopo l'arrivo, ancora in sella alle loro biciclette. Chris Froome che ha già vinto tutto ciò che si poteva vincere, Rui Oliveira che è al primo anno tra i professionisti. I due si erano fatti una promessa, chissà dove, chissà quando. Il loro è un appuntamento, in realtà, Froome toglie dalla tasca il suo numero e lo dona a Oliveira. Oliveira ringrazia, con un candore raro. C'era silenzio, a Madrid, l'8 novembre e si sentiva tutto.

Quel silenzio non lo avrebbe voluto nessuno. Quel silenzio non lo vorrebbe più nessuno. Perché è un silenzio surreale, perché è un silenzio che vorremmo fosse altrove. Ma quel silenzio c'è e, temiamo, ci sarà ancora per diverso tempo. Noi di quel silenzio vi abbiamo raccontato tre storie per raccontarvi una scelta. Si può vivere il silenzio come vuoto asfissiante e angosciante, come privazione immanente, oppure si può dargli la possibilità di essere altro. Di essere, per esempio, la capacità di cogliere ciò che nel rumore, nel caos, ci sfugge. Perché ritorneremo ad essere come eravamo un tempo. Prima o poi accadrà. E quando accadrà, forse, sapremo non farci travolgere dalla confusione e dalla folla, come viandanti distratti. Sapremo ascoltare ogni minima particella di caos e riconoscerne il valore. Sapremo vedere e raccontare più storie perché saremo meno distratti. Più felici, certo, ma soprattutto più attenti. E questo è ancora più importante.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


Thomas Voeckler, lupo di mare

Thomas Voeckler ha l'animo da lupo di mare. Qualcosa che viene dall'infanzia: i genitori di Voeckler, appassionati di navigazione, gli hanno fatto solcare le acque sin da ragazzo. Un ragazzo nato in Alsazia, a Schiltigheim, e cresciuto in Martinica, terra di cui porta il vessillo in quel soprannome, T-Blanc, che dai bordi di una nave ha esplorato l'Atlantico e sperimentato uno dei più grandi dolori della vita: la perdita del padre, risucchiato dalle acque. La vocazione è spesso il riflesso di esperienze vissute e forse per questo la vocazione di Thomas Voeckler non poteva che essere la ventura. Che è avventura e disavventura ma resta movimento costante tra gli estremi. Cambia il mezzo, la bicicletta, ma non lo spirito. Lo chiamano "baroudeur": vocabolo che riassume il suo modo di correre, il piglio sfrontato, combattente anche contro ogni logica, e che, per significati letterali, lo ravvicina al campo militare perché "baroudeur" è anche il soldato di ventura. Termine che riporta alla fiducia e ad un altro francese d'antan, Jean René Bernaudeau. È lui a chiedergli di aspettare, ai tempi della crisi de "La Boulangère", di avere pazienza che ci saranno altri sponsor, di non firmare altri contratti. Così sarà: la nuova casacca di T-Blanc sarà quella di Direct Énergie e poco importa se il contratto di Cofidis sarebbe stato economicamente più vantaggioso. La fiducia è una cosa troppo seria.

Thomas Voeckler è un istrione, un attore dai mille volti, il francese perfetto. A tratti collerico, irascibile, non certo l'atleta più stimato in gruppo o più amato dal pubblico europeo. Di certo il più amato dai suoi connazionali che in lui vedono il sunto dell'essenza d'oltralpe. Anche nelle mille smorfie, nella polemica cercata, esagerata, a volte, permetteteci di dirlo, inutile. Soprattutto, però, nell'animo con cui fronteggia le corse e "la corsa" per eccellenza, il Tour de France. Se il Tour, come scriveva Gianni Mura, è una "chanson de geste", Voeckler ne è il volto caratterizzante. Sin da quel 17 luglio del 2004 a Plateau de Beille, quando un ragazzo di venticinque tagliò il traguardo con la maglia gialla aperta sul petto, un sorriso da guancia a guancia e un pugno levato in aria. Quel giorno Voeckler perse oltre cinque minuti da Lance Armstrong, arrivò stremato ma custodì la maglia gialla per una manciata di secondi. I francesi provano una particolare simpatia per i volti più umani. Simpatia che è accostamento, compassione nel senso etimologico del termine, che è "patire assieme". I volti umani sono quelli che conoscono la sconfitta, il dolore e anche la beffa. Somigliano più a quel ragazzo che non "all'americano". Umano può essere chi perde, se la sconfitta matura in una certa maniera. C'è un manierismo del perdere. Voeckler è particolarmente umano, e per questo amato, perché corre allo spasimo, non c'é ragione, c'è istinto puro, volontà di manifestarsi al centro della scena, e qui torna l'attore, e di suscitare qualcosa in chi assiste. E lì non puoi mentire, perché il pubblico capisce.

Quando torna in maglia gialla nel 2011, Voeckler non è più un ragazzo e la strada che ha fatto lo ha temprato e gli ha insegnato ma l’indole è radicata. A tre giorni da Parigi, in Francia si scomodano ciclisti d’altri tempi e si crede davvero che T-Blanc sia l’uomo giusto per riportare la Grand Boucle in patria. Del resto se uomo giusto c’è, Voeckler ne è il ritratto perfetto, un’apoteosi di orgoglio, grinta e vanità. Ma la strada vive d’altro e quel giorno Thomas Voeckler è uno sconfitto, un perdente. Un perdente irrazionale su una salita contro cui non può far nulla se non digrignare i denti, mandare a quel paese qualche moto di ripresa e prendersela anche con qualche tifoso. Irrazionale e spietato. Questa irrazionalità di Thomas Voeckler è il suo bene e la sua condanna per tutti gli anni che da lì lo separeranno dal suo ritiro, avvenuto nel 2017. È l’amara constatazione che non sempre dare molto ti consente di ottenere molto. Che certe volte la logica imporrebbe anche qualche calcolo e risparmiarsi tornerebbe utile per il risultato. Non solo. Risparmiarsi tornerebbe utile anche a te, in termini di tranquillità e di benessere. Basterebbe farsi ragionieri della vita e minimizzare i rischi, massimizzando i risultati. Basterebbe esserne capaci. Basterebbe evitare di dare anche quello che non si ha, per senso del dovere o della coscienza. Basterebbe. Ma sarebbe davvero vivere? Voeckler dice di no e noi non ce la sentiamo di contraddirlo perché forse questa volta ha proprio ragione.

Foto: Bettini


La Vuelta di Roglič è un pugno agli incubi

L'aria di novembre, ai quasi 2000 metri dell'Alto de la Covatilla, sagoma ogni volto mettendone in evidenza tagli spigolosi. Gli zigomi sono lunghi coltelli a fendere il freddo come schizzati da righe e squadre in un progetto geometrico appena abbozzato. Gli angoli dell'umanità sono acuti, aspri, rigidi come la natura delle montagne quando l'autunno dirada verso l'inverno. C'è questa realtà acuminata sullo sfondo e la dolorosa nenia delle ascese- Puerto del Portillo de las Batuecas-Alto de San Miguel de Valero-Alto de Cristòbal-Alto de Penacaballera-Alto de la Garganta- come aghi nelle gambe, quando Richard Carapaz scatta ai tre chilometri e mezzo dal traguardo e la corsa sembra precipitare in un vuoto temporale che isola, attrae e respinge. Il dolore in queste circostanze assume i contorni di una pietà trasfigurata. Il dolore trasfigura e viene trasfigurato quasi sfregiato, confondendo sensi e sensazioni in un turbine che toglie il fiato passando dalla vista o dalle gambe. Che annebbia la vista col bruciore di un sudore freddo che dopo pochi metri tramuta in brividi e si asciuga in salviette appese al collo come rimasugli di battaglie dimenticate. Che taglia in pezzi grossolani le gambe, stese su pedali che non scorrono più disobbedendo alla fisica, quasi con la forza dei conati di nausea che sente risalire nelle interiora chi non deve affrontare solo l'acredine della terra ma anche il risucchio dei fantasmi che si nutrono ingordi dell'odore d'autunno e pullulano fra le foglie cadute e i tronchi ricoperti dal muschio.

I fantasmi che Carapaz getta alle spalle e trapassa come loro stessi trapassano i muri, con la scia d'aria mossa dal suo alzarsi sui pedali, a puntare con occhi iniettati di volontà sanguinea il prossimo metro di strada. Primož Roglič, in quell'istante, sa di incubi di notti scure e di albe attese rivolgendo auspici verso quella falce di luna lontana che tanto profuma di Spagna e di tutta l'intensità della nazione iberica. Trasfigurare significa cambiare forma e stato, significa segnare e farsi segnare. La trasfigurazione in questo momento è simile all'attrito del tempo e dello spazio che corrodono tutto quello che mostra loro il sembiante, scagliando in chissà quale viscera volontà e desideri. Qui non bastano più. Qui è la paura a prenderti a morsi perché non c'è più un domani imminente, perché il futuro è lattescenza confusa. Carapaz e Roglič sono sul filo di questo scorrere di realtà e ci restano per pochi minuti ma sembra l'eternità.
I denti dell'illusione sembrano conficcarsi nella pelle di Roglič e invece lasciano una vecchia cicatrice ma feriscono Carapaz che ha solo addolcito qualche chilometro danzando su muscoli vivi e sperando Madrid. Gli incubi di quella luna bugiarda che Roglič aveva visto da Parigi sono gli spettri che per qualche notte Carapaz vedrà in ogni angolo del sonno. Roglic ha sentito ancora male, come se gli avessero disinfettato una ferita con alcool puro e senza sedazione, ha teso ogni centimetro di muscolo e per qualche istante ha come avuto la sensazione che quel vuoto fantasmagorico lo stesse invadendo, che quel muro di fantasmi lo avesse imprigionato ancora a pochi sospiri dal traguardo. Come la ricerca negli incubi, con la stessa frustrazione di quella delusione, di quella mancanza. Non questa volta, Roglič. Non questa volta in cui l'andatura è quel ramo sul filo di un burrone o la rete aperta sotto. Questa volta il tutto è qualcosa che lenisce e carezza. Questa volta il tutto è un respiro appoggiato sul diaframma e uno sguardo che vola alto. Questo tutto assomiglia a Madrid che domani sarà decadenza dimenticata e bellezza in divenire.

Foto: Bettini