«Vai e torna vincitore»

Stavamo solo cercando di tratteggiare una luce su una collina toscana, nei dintorni di Siena. Prendiamo in prestito le parole di Edward Hopper, nel suo caso parlò di una luce sul muro di una casa, noi abbiamo in mente il sole sulle "verdi terre" e un velo d'ombra, quello di una nuvola passeggera, poco più di un cirro, che disegna un contorno: simile agli alberi, con la luce che ne allunga le sagome, penetrando tra le fronde. Già, ma gli alberi hanno le loro radici profonde, corteccia e rami, una nuvola è il nulla, è vapore acqueo, disperso nel cielo, eppure quell'ombra resta sulla collina. In gruppo, invece, non c'è quiete, verso la salita di Volterra, perché la fuga non trova il suo spazio, la sua dimensione: è un'anima tormentata, senza pace, quella di chiunque voglia scappare dal gruppo, capace di farsi male, pur di riuscirci. Ci è tornata in mente una canzone di Gian Pieretti, sigla del Giro d'Italia sul finire degli anni novanta: «perché la tua presenza, malgrado passi il Giro, devo dire che mi manchi da morire» e qualche nota più in là «però, sinceramente, non me ne frega niente, fra poco passa il Giro e in casa solo io non ci resterò». È anche una scusa per gli amori perduti, il Giro. Sono necessari chilometri e chilometri, prima che in sette prendano qualche secondo, tra loro Julian Alaphilippe e Luke Plapp. Nel giorno degli sterrati: Giancarlo Brocci era un arbitro di calcio quando li scoprì, tra piloni, stradine, strettoie, un arbitro che non si lasciava sfuggire il minimo fallo ed il suo giudizio era insindacabile. Eppure pensava agli sterri, alla polvere. Da queste parti, a Siena, c'è il Palio ed al Palio, quando si benedicono i cavalli, si dice: «Vai e torna vincitore». Quasi una missione che mette i brividi a chi pronuncia quelle parole, a chi affida quel proposito. La visione e la missione di Plapp e Alaphilippe è simile.

Si alza una polvere bianca che pervade ogni cosa, quando le ruote smuovono la terra, a Vidritta. Non c'è nulla: polvere e campi, polvere e foglie, polvere e ciclisti. Ma c'è tutto, perché serve solo questo. In toscano, "fare il cencio" significa svenire, ma quel biancore che si solleva imbianca davvero tutto, compresa la pelle, il contorno degli occhi, i ciuffi di capelli fuori dal casco, le narici. Non è facile pedalare sugli sterrati, proprio perché non c'è nulla, non c'è l'asfalto: si soffre con quel poco che si ha. Plapp, a gennaio, dall'altra parte del mondo, in Australia, ha letteralmente "perso parte della sua pelle" in una caduta ed è andato all'arrivo, terminando ciò che aveva iniziato, la tappa, il proprio dovere. L'abbiamo osservato mentre faceva di tutto per andarsene, mentre allungava, aumentava il ritmo della pedalata, per poter vincere la tappa, prima ancora, perché i secondi non mentono, perché c'era la possibilità di prendere la maglia rosa. Dove c'erano le ferite, resta qualche cicatrice e lui corre ancora. Il primo dolore per Alaphilippe è forse nelle parole di quel professore che disse a suo padre: «Suo figlio non ha le capacità per frequentare un liceo e non ha nemmeno il fisico per una scuola di ciclismo. Iniziasse a lavorare invece di perdere tempo con gli amici». Un'etichetta, di quelle che si appiccicano alle scatole e agli scatoloni nei traslochi. Alaphilippe ne ha sentite tante di parole, ne ha sentiti tanti di giudizi, in particolare come le cose hanno iniziato a non andare più nel verso giusto ed il verso giusto per un campione è la vittoria. Attacca con rabbia, attacca con gusto, alla ricerca di una parte dispersa di cui ha bisogno. E corre ancora.

Con loro c'è Pelayo Sanchez, ventiquattro anni, di Tellego, in Spagna: Alaphilippe è il suo campione, si ispira a lui. Ad Asciano, in una curva, dopo un errore, Plapp si avvantaggia, Alaphilippe prova a rincorrerlo, da solo non ci riesce, scuote la testa, si mette alla ruota di Sanchez, rientrano così. Potrà raccontare di aver riportato Alaphilippe sul fuggitivo, potrà dirlo perché è vero. Non solo. Potrà raccontare anche che, a Rapolano Terme, in una volata a tre, l'ha fatto passare in seconda posizione, si è messo in terza, la migliore per lanciare una volata e, quando il francese è partito, gli ha prima preso la ruota, poi l'ha affiancato e superato, in vista del traguardo, pur se, nei pronostici, il più veloce era proprio Alaphilippe, il suo campione. Ha un volto giovane, Pelayo Sanchez. Giovani sono anche le sue parole, giovane è la sua felicità, che crescerà e cambierà con lui, ma questo giorno non se lo dimenticherà. Nemmeno Alaphilippe dimenticherà questo giovedì di maggio, Julian che ha anni ed esperienza in più di Sanchez, che ha già vinto tanto e che da tanto non vince, che poco fa ha perso una tappa che voleva, che ha bisogno di sentirsi di nuovo Alaphilippe, quello che la gente vede e sente ancora, ma che lui sta cercando. Tra Torre del Lago e Rapolano Terme, ha rimesso assieme qualche pezzo. Resta ancora un'ombra, ma stasera è più simile a una nuvola. Leggera.

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La fuga arriva

Il primo gesto della mattina, accanto alla ciclabile di Genova, dove qualche pedalatore può, per frazioni di secondo, tenersi al fianco del gruppo, nel tratto di trasferimento, e voltarsi incredulo, è uno di quei gesti che, al Giro d'Italia, si fanno spesso: cercare un numero, un dorsale, dall'alto, sulla schiena dei corridori e trovare il rispettivo nome. Si fa così in caso di cadute, si fa così quando qualcuno si allontana dal gruppo, in testa, in fuga, oppure in coda, stanco, affaticato. Sono ancora i primi giorni e la stanchezza non è nemmeno troppa, Fernando Gaviria dice che "non si è ancora così stanchi da non riuscire più ad avere la forza per ridere", che rende l'idea di quello che sono certi giorni lontani da casa, su quella bicicletta. Sono ancora le prime tappe, eppure Fabio Jakobsen sono già due giorni che, sulle rampe iniziali e dolci di una salita, cede, barcolla, si stacca, muove le spalle, deve inseguire, con qualche compagno di squadra lì davanti, ad aspettarlo: 144, il suo numero. È fra i primi a lasciare le ruote del gruppo e chissà cosa scatta nella mente di chi, proprio nelle giornate in cui è atteso, quelle dei velocisti, diviene il primo "pezzo" mancante del plotone. Se quell'idea arriva alla mente, le gambe si bloccano, diventano di ghiaccio, un pugno nello stomaco: il corpo, da macchina perfetta, diviene caos, nulla più combacia. Si cercano i numeri e, verso il Passo del Bracco, sarà perché le zone sono queste, sarà per l'assonanza con il Passo del Bocco, il fatto che il 108 non ci sia pesa di più. Eppure lo sapevamo, ma i ricordi seguono strade proprie. Ora Genova pare davvero avere la faccia di tutti i poveri diavoli conosciuti da Fabrizio de Andrè, nei suoi carruggi, degli esclusi, dei fiori che sbocciano dal letame, dei "senzadio". Ma si va avanti, via dalle prigioni, di Marco Polo e della malinconia, dell'assenza.

Si cercano ancora numeri: quando va in avanscoperta la prima fuga, quattro uomini, e ad ogni caduta. Non serve il dorsale per riconoscere Christophe Laporte, mentre frana a terra, è la maglia a svelarne l'identità. Un tombino, forse. Il momento più difficile non è quando si cade, in fondo, sono pochi secondi, nemmeno il tempo di capire. Il brutto è quando bisogna tornare in piedi e fare i conti con l'impatto. La forza di ridere può toglierla un corpo ammaccato, sfregato sull'asfalto: Laporte esplora le gambe, le spalle, tocca la schiena. All'inizio è solo paura, dolore improvviso, i punti in cui la pelle è andata via si scoprono piano, piano, dopo, al primo movimento. Diceva Fausto Coppi che il momento più esaltante per un ciclista non è nemmeno la vittoria, è la decisione. Sì, l'adrenalina della scelta: di scattare, anche solo di continuare pure se il traguardo è lontano. Hanno deciso Benjamin Thomas, Enzo Paleni, Michael Valgren e Andrea Pietrobon. Hanno deciso e sono partiti, quando la prima fuga era già stata riassorbita, annullata, da un'andatura forsennata della squadra di Kaden Groves, la Alpecin-Deceuninck, altra decisione che poteva essere sollievo, sarà rimorso, in ogni caso rinuncia a qualcosa.

Del resto, decidere vuol dire escludere almeno una possibilità, non vale solo per un ciclista. In fuga, in caccia: una di quelle scelte apparentemente assurde, quasi sempre, che, però, ci si ostina a compiere, contro la logica. In fondo raccontare della bicicletta è anche raccontare di tutto ciò che c'è di irrazionale nel suo equilibrio, nel suo piacere, nella sua fatica che fa la tana nei muscoli; perché? Perché sono gli esseri umani a scegliere e gli esseri umani sono fatti di tutto questo. Giacomo Puccini era di Lucca, la città d'arrivo, lui che prima «un poco traballando e molto serpeggiando procedeva autonomo» sul "bicicletto", dopo «riduceva i suoi compagni di viaggio come tanti peperoni, con rispetto parlando». Può essere che la musica e la bicicletta abbiano qualcosa in comune? Che la composizione di un'opera e una volata, una fuga, si somiglino? A noi vengono in mente le mani dei pianisti, mentre provano e riprovano, forse una parte di risposta è qui.

L'altra è in Andrea Pietrobon. Non solo o non tanto perché anche lui suona il pianoforte, soprattutto per quello che fa e per come lo spiega. Racconterà di essere letteralmente sfinito, senza forze nei chilometri finali, a ruota di quelli che, in gergo ciclistico, si definirebbero cagnacci. Assurdo non avere più le forze nell'attimo in cui puoi provare a vincere una tappa al Giro d'Italia, assurdo essere svuotati quando la fuga arriva e tu sei nella fuga. Assurdo, ma succede. Proprio perché non ha più nulla, Pietrobon parte, allunga, uno scatto, un lampo, all'interno dell'ultimo chilometro. Si crea spazio. Confesserà di aver pensato per qualche frazione di secondo che stava per vincere una tappa al Giro d'Italia. Dirà «è stato bello». Anche solo pensarci, avete capito bene. In caccia, lì dietro, c'è Benjamin Thomas, esperto di pista, di velodromi, fenomeno in quella ellissi dove non si può sbagliare il momento. Non lo sbaglia nemmeno su un rettilineo a cielo aperto, brucia Pietrobon e supera Valgren. Succede quando si sa che scegliere è più importante di farcela. Sognava questo momento, non lo immaginava. Ora che è successo, deve solo imparare a crederci.

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Milan e "la mar"

Eravamo in apnea, abbiamo respirato forte, profondamente, siamo tornati in apnea e quel respiro, catturato e fatto proprio, nascosto nel torace, ci è bastato per vedere come andava a finire. Sono trascorsi quattro chilometri, tre uomini, fra i tanti, Filippo Ganna, Simone Consonni e Jonathan Milan: il resto è storia. La strada è vicina al mare e, solo qualche istante fa, tra le gallerie, le rocce, il blu e la vegetazione, la mente era tornata a Sanremo, alla Milano-Sanremo, regno di tutto ciò che ha a che vedere con la velocità e pure con la fantasia. Avremmo potuto essere ancora al primo giorno di primavera, il ciclismo è una macchina del tempo.

A Cosseria, in provincia di Savona, sul percorso, al Museo delle Biciclette, c'è l'eco di quella frase che un signore di nome Luciano Berruti diceva spesso, mentre sistemava la sua bicicletta, antica, rovinata, per cui aveva un'attenzione particolare ed il fatto che fosse "vecchia", del 1907 per la precisione, di più di cent'anni, accresceva solo la cura necessaria per starle vicino: «Non so, forse avrei dovuto nascere in un'altra epoca, in un altro tempo, invece sono nato in questo mondo e qui ho fatto le mie cose». Era un ragazzo vispo "il Berruti", raccontano che, ogni tanto, andava a scuola nascondendo una biscia in tasca oppure sotto il banco, catturata nella natura: i compagni lo vedevano, gridavano e la maestra lo rimproverava, magari lo spediva a casa, mentre sua madre non sapeva più cosa fare. Era, poi, un anziano signore con lunghi baffi, a fare da cornice ad una bocca che scandiva lentamente racconti che ti saresti fermato ad ascoltare solo per sapere come andava a finire. Perché il finale vogliamo saperlo.

Eravamo in attesa, a quattromila metri dall'arrivo, quando Filippo Ganna ha squarciato un cielo già pieno di domande e di fremiti, quelli che precedono il caos di qualunque volata: se ne è andato, in un'armonia perfetta con quello che aveva attorno. Perché Filippo Ganna in bicicletta sta bene, da qualunque prospettiva lo si guardi, dall'alto di un elicottero delle riprese, da una telecamera fissa, in un'inquadratura rubata, al volo, dietro una colonna di una galleria. Il Capo Mele è stata l'occasione per uno sforzo assoluto: altri hanno provato a seguirlo, qualche metro e sono "rimbalzati", accolti dalla stessa pancia del gruppo da cui cercavano di fuggire. Per dire di cosa sia un'azione del genere, per dire di quel che serve a stare da soli, al vento, pancia a terra, mentre dietro è tutto un rumore, una rincorsa senza tregua. Berruti si innamorò così delle biciclette; sentendo il loro suono, persino lo stridere dei freni, l'odore di bruciato che rilasciavano, su quelle vecchie bici: avrebbe capito. Sì, ma quando il gruppo insegue è tutta un'altra storia. Circa 3500 metri così. Poi la fine, a circa 500 metri dal traguardo. Non è strano il suo sguardo amaro, non è strano quel continuo guardarsi attorno, mentre parla: la delusione si manda via anche così dagli occhi, quasi potesse tornare indietro e scendere da qualche parte, in gola, nello stomaco e poi via. Invece no, deglutire non vale contro il rammarico. Respiro profondo, boccata d'ossigeno e ancora apnea.

I baffi sono quelli di Simone Consonni. Scherzerà: «Ad un certo punto, non sapevo più se tirare per Milan, oppure non tirare per Ganna. Mi hanno messo in mezzo». Si dice "lanciare la volata" e non sappiamo chi sia stato il primo a coniare questo termine, ma pare perfetto: quasi fosse un lancio nello spazio, in un'altra dimensione, su una navicella con cui bisogna avere una conoscenza totale. Jonathan Milan è l'astronauta, in questo caso. Lui che "maltratta" la bicicletta tanto la porta al limite massimo: dall'alto pare una danza nervosa, in cui tutto trema, a ritmo variabile, ma in un crescendo incessante. Fino all'arrivo, ai pugni che si stringono, ai muscoli che si gonfiano nel gesto della felicità, alla voce che si libera ed al petto che si espande. Dopo il secondo posto di ieri, la vittoria era accanto al mare di Andora. Ganna, Milan e Consonni: Tokyo, un velodromo, una pista, i Giochi Olimpici, l'estate che ballava nei campi e la gioia. La macchina del tempo è già tornata indietro, come ogni giorno, ad ogni Giro d'Italia.

Pare che, in spagnolo, il mare diventi "la mar", quando lo si ama, gli si vuole bene, si ricordano i favori che ha fatto e gli si perdona tutto il resto, i torti e qualche cattiveria, magari nascondendoli dietro una scusa: le bizze della luna che farebbe girare la testa a chiunque. Il vecchio de "Il vecchio e il mare" di Ernest Hemingway aveva questa teoria e stasera noi ci sentiamo d'accordo con lui. Per qualcuno sarà "la mar", per altri solo il mare, un rivale, un nemico. Qualcuno canterà una canzone, anche Luciano Berruti lo faceva, "ma dove vai, bellezza in bicicletta", così più o meno, altri tireranno le tende di una camera d'albergo, come le coperte su di un letto, tanto fuori resta solo la notte e domani è un altro giorno.

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Non stare nella pelle

Nei giorni scorsi, i giornali locali scrivevano dell'arrivo delle mondine a Novara, negli anni cinquanta, per lavorare in risaia, mentre maggio volgeva al termine. Erano donne che partivano dall'Emilia, da Rio Saliceto, da Bibbiano o da San Polo d'Enza, si maritavano a Garbagna e in altri piccoli paesi della Bassa e lavoravano nei campi senza attrezzi agricoli, solo con le loro mani. Ne parlavano perché stamani, proprio da Novara, partiva la terza tappa del Giro d'Italia 2024 e quelle risaie, quelle del vercellese, sarebbero state per molti chilometri i vetri d'acqua in cui il gruppo allungato si rifletteva, in un labirinto di specchi a tratti riflettenti a tratti deformanti. Si arriva così ad una strada serpentesca e stretta che si arrampica, compressa tra muri, muretti, balconi, ringhiere e tettoie, sino a Lu, unico Gran Premio della Montagna di giornata. In quel frangente, dopo chilometri e chilometri di nulla, dal punto di vista agonistico si intende, provavano la fuga e la sorte Davide Ballerini e Liliane Calmejane e noi pensavamo che solo loro (e pochi altri) avrebbero potuto inventare qualcosa in una situazione così a mollo nella noia. Il primo con la sua stazza, la sua bellezza in bicicletta, quasi perfetto, il secondo "dinamitardo" di ogni situazione, corridore francese di carta d'identità e di spirito, d'anima. Del resto, Alfonso Gatto aveva ragione: a chiunque non sia capo di stato o di governo, generale o cardinale, non capiterà forse mai di ritrovarsi fra tanti uomini, donne e bambini a fare da ala ad un passaggio di pochi secondi, quasi un frammento di un film, quasi un inganno dal tanto è veloce. Non capita a nessuno, se non a chi non è temuto, ma solo invidiato perché così felice di correre dietro ad un sogno: i ciclisti. Verso Lu, quella gente, probabilmente anche per il vicolo che la ospitava, era davvero sempre più e spuntava in ogni dove, ovunque si volgesse lo sguardo. Anche Calmejane e Ballerini non se la sono sentita: hanno rallentato, fino a farsi riprendere.

Sì, pure chi vive la corsa come un cavallo pazzo ha giorni in cui non riesce a credere; talvolta per timore, altre solo perché, per quanto la si possa riempire di romanticismo, la fatica è inutile in certe circostanze. E la fatica di una giornata come oggi in fuga è davvero tanta: tra strade infinite e simili, solitudini e pensieri. Non solo fatica di gambe, anche di mente, di idee. Ma, in pomeriggi come questi, la follia diventa ordinaria e il sangue, da un momento all'altro, lascia la quiete stantia in cui circola ed inizia a zampillare, a saltare, a muoversi in mille peripezie. Dapprima l'improbabile, l'illogico: i velocisti che fuggono dal plotone in una giornata in cui proprio il gruppo è la casa, il fiume, con cui possono andare al traguardo e giocarsi la vittoria, in potenza e watt. Poi il gruppo che si sfalda, si sgrana, perde pezzi, sparso su lunghi viali, tra vento e qualche goccia di pioggia. Raschi sosteneva che il ciclismo fosse fatto per accettare solo coloro con lo stesso sangue: sì, altrimenti se ne esce pazzi, privi di comprensione in certi istanti. Tadej Pogačar ha lo stesso sangue del ciclismo, per questo si sente così a proprio agio su una bicicletta: è un genio, un altro cavallo pazzo, di razza, uno di quelli che «sentono l’ora del gran premio prima che arrivi, dalle vibrazioni del vento». Per questo fa la volata ad un traguardo volante, dietro a Ben Swift, davanti a Geraint Thomas. Il fatto che si continui a vederlo sulla testa del gruppo, pimpante, "allegro andante", potrebbe far presumere altri colpi di scena? Certo, soprattutto in una giornata in cui è già successo tutto ed il contrario di tutto. Risolviamo presto il dubbio con la constatazione che è buona regola correre davanti, per tutti e per la maglia rosa in particolare. Calmiamo in questo modo ogni pazza idea. Sbagliamo, ma dirlo ora è facile.
Avevamo parlato di un finale in cui si sarebbe potuto ballare, avevamo pensato ad un liscio, in quanto la strada, pur se in pendenza, non sarebbe stata un ostacolo per lo sviluppo della potenza di Jonathan Milan e degli altri velocisti.

Le immagini non mentono: è esattamente come sembrava. Non fosse che Mikkel Honoré accelera in testa al gruppo e a saltargli sulla ruota è lo sloveno, la maglia rosa: un lupo che ha affinato l'istinto e non può trattenersi. Non si accontenta di braccare il rivale, no, rilancia, in senso metaforico e anche fisico perché la forza dell'azione riprende vigore. All'ultimo chilometro, con qualche decina di metri sul treno dei velocisti, non c'è un giovane inesperto che non sa che il gruppo può divorare alla velocità in cui è lanciato, c'è Tadej Pogačar con alla ruota Geraint Thomas e la gente a bordo strada che impazzisce perché aspettava tutto, non questo, tra le vie di Fossano, dove i ragazzi vanno in bicicletta a scuola e qualche professore si prodiga affinché il numero delle biciclette cresca di anno in anno. Pogačar non sta nella pelle, questa è la realtà. Verrà ripreso e si alzerà sui pedali, accanto alla volata già innescata e vinta da Tim Merlier, su Jonathan Milan, per nemmeno molto. Merlier che tutti chiamano "il Mago", per la sua abilità, per la sua astuzia, per il suo talento. Non è magia, è ciclismo. Quella strana faccenda che risveglia la noia e la sconquassa, quando meno te lo aspetti.

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Quando si parla di amore...

Marco Pantani conosceva la storia di Lucillo Lievore, gliela aveva raccontata Sergio Zavoli, mentre, durante un'intervista, il "Pirata" si accarezzava il pizzetto e, con la mano, si copriva la bocca, quasi per una lieve forma di imbarazzo. Lievore, "un corridorino di altri tempi", quel giorno del 1966, si cimentò in una fuga solitaria di 187 chilometri, sotto il sole, "solo lui e la sua ombra", sapendo che, in ogni caso, non sarebbe riuscito a vincere: davanti alla sua bicicletta, c'era, infatti, un altro atleta, ormai irraggiungibile. A Zavoli che, durante quella tappa gli aveva posto diverse domande, per poi fargli forza con un "È quasi finita. Coraggio, Lievore!", ora non restava che chiedere un'ultima cosa: perché? Lucillo Lievore non aveva avuto molti dubbi: «Perchè, per quello che valgo, il secondo posto è come il primo e, poi, perché nella vita si arriva anche terzi, decimi, ventesimi, novantesimi e persino fuori tempo massimo». Marco Pantani, continuando a sfiorare il pizzetto e le labbra, aveva accennato solamente un amaro "sì": l'annuire di chi, in qualche modo, si riconosce nelle parole. Parafrasando Raymond Carver ed il suo capolavoro "Di cosa parliamo quando parliamo di amore", a noi verrebbe da dire che, in fondo, parliamo anche di questo, quando parliamo di amore. Nei confini di quella parola, oggi potremmo narrare di Gino Bartali, che non c'è più da ventiquattro anni, e di quel "L'è tutto sbagliato, l'è tutto da rifare" che, alla fine, è una forma di affetto per la realtà, volerla cambiare, migliorare, cercare di farlo, perlomeno. In quel lemma sta la fuga "disperata" di Andrea Piccolo verso il santuario di Oropa, dapprima con un drappello di atleti, successivamente da solo: qualche tempo fa, ci ha confessato che, potendo tornare indietro, non cambierebbe nulla del proprio percorso, per il timore di allontanarsi dal luogo dov'è ora, nel gruppo dei professionisti, dove avrebbe voluto arrivasse presto il fratello maggiore, anch'egli ciclista. La sua fuga, con i dovuti paragoni, ha qualcosa in comune con quella di Lievore, come la fuga di chiunque nei giorni in cui tutti aspettano solo l'ineluttabile e l'ineluttabile di questo cinque maggio è Tadej Pogačar.

Laddove, poco prima, in realtà, venticinque anni fa, il 30 maggio 1999, c'era un salto di catena, accanto ad un cassonetto della spazzatura, oggi c'è una foratura, a poco più di undici chilometri dal traguardo, una caduta in curva e l'ammiraglia che frena a ridosso di quella bicicletta. Laddove c'era la pelata del ragazzo di Cesenatico e la maglia rosa, c'è il ciuffo, anzi i ciuffi, dal casco di Tadej Pogačar e la sua maglia bianca. Non si vedono gli occhi dello sloveno, quelli di Pantani li ricordiamo tutti, lambiti da un velo di qualcosa ben più profondo. Entrambi hanno dovuto recuperare: Pantani ne riprese e superò quarantanove, per Pogačar è andata diversamente, ma resta il fatto che all'inizio dell'ascesa non era più in gruppo, doveva prendere la rincorsa e ritornare sulle ruote. La sensazione che si prova quando un ciclista, in salita, "scatta nei denti" ai rivali, invece, si somiglia sempre: ha a che vedere con tutto quello che vorremmo ma non possiamo fare, avere, ha a che vedere con la felicità ed anche con la malinconia, con la tristezza, ha a che vedere con l'impossibilità di stare fermi, con un'ansietà piacevole che prende nel corpo e nella mente. Pogačar scatena questa percezione ai 4500 metri dal traguardo, nel tratto più duro della salita. Qualcosa che detona, che esplode e modifica la realtà, un big bang. Ci è tornato in mente quel che aveva scritto ieri: «Ora che il ghiaccio è rotto, si inizia a giocare davvero». Intendeva questo: voltarsi e vedere che O'Connor e Geraint Thomas non possono resistere. Forse qui c'è un piccolo residuo della giornata di ieri, quando non è riuscito a togliersi Narváez dalla ruota, nonostante gli attacchi.

La "curva Pantani" è a circa due chilometri e mezzo dal traguardo: la stessa esse impastata di romagnolo di Pantani, ragazzi che vengono dalla sua terra e che torneranno lì, perché all'alba sarà lunedì, sarà una settimana come tutte le altre. Se parliamo di amore, non possiamo scordare questa istantanea. Piadine, profumo di piadine e bandiere con il simbolo del pirata al vento. Vento nel vento, durante una rincorsa accanto a Tadej Pogačar, sui pedali, nuovamente seduto, sempre a spingere, con leggerezza e un sorriso a tratti accennato, il manifesto del suo ciclismo. Il Santuario di Oropa lo vede là, in fondo, in alto, dopo l'ultima curva, sulle pietre, al centro della strada. Marco Pantani non sapeva di essere il primo, lui sì, leva le mani al cielo. Batte il cuore, scalpita. Carver scriveva: «Sentivo il cuore che mi batteva. Sentivo il battito del cuore di ognuno. Sentivo il rumore umano che facevamo tutti, lì seduti, senza muoverci, nemmeno quando la stanza diventò tutta buia». Ci è successo qualcosa di simile anni fa, ci è successo qualcosa di simile oggi. Perché si parla anche di tutto questo, quando si parla di amore.

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La Avioneta

Marcovaldo, racconta Italo Calvino, attraversava la città sotto la pioggia a dirotto, curvo sul manubrio della sua bicicletta, avvolto in un impermeabile, «infagottato ed ingobbito»: sul portapacchi, una pianta che, presa a schiaffi dall'acqua, ogni volta in cui si voltava, pareva sempre «più alta e più fronzuta». Trafitte dalla pioggia di Torino, negli scorsi giorni, e chissà da quale cielo a fare da soffitto nelle prossime settimane, «le genti di tutta Italia, contadini, operai, lupi di mare, mamme, vecchi cadenti, paralitici, preti, mendicanti, ladri, schierati lungo quattromila chilometri, non erano - e non saranno - più gli stessi del giorno prima», per questo Dino Buzzati citava l'ultima città della fantasia, parlando del Giro d'Italia e di tutte le sue biciclette, assediata dalle forze del progresso. Accadrà per tre settimane e sarà un buon motivo per dimenticarsi di qualche dolore, di qualche preoccupazione: un sogno, ovvero «l'elusiva dote che ci fa ricchi per un'ora». Basta una maglia, verso Superga, per "fare più ricchi", una maglia granata, con il numero dieci, a ricordo di quel volo del 1949 e del fato solo che vinse il Grande Torino, basta una maglia e la scritta Mazzola per mantenere vivo il sogno di un bambino: non durerà solo un'ora, molto di più, come senza fine sembravano i pomeriggi della prima infanzia al Giro d'Italia, in città anch'esse spropositatamente grandi per le nostre mani, le nostre gambe e le nostre prime biciclette. È il 4 maggio, da Venaria Reale scatta l'edizione numero 107 del Giro d'Italia, mentre la città ricorda quei calciatori con la maglia granata.

Jhonatan Narváez ha poco a che vedere con Marcovaldo, ma l'acqua ed il freddo li porta dentro, e l'unico soffitto che può permettersi il plotone multiforme, il cielo, lo conosce bene: lui, "la avioneta", il piccolo aereo, come lo chiamano, è cresciuto ad alta quota e, nel 2020, quando vinse a Cesenatico, al Giro d'Italia, lo fece davvero in un giorno di acqua e autunno. Oggi, invece, a Torino, sullo strappo di San Vito c'è il sole e così tanta gente da scordare quale rumore faccia il silenzio. C'è il sole e Nicola Conci all'apice dello sforzo, più vicino alla sua prima vittoria in carriera. Allunga al massimo ogni fibra di muscolo, storce la bocca, percuote i polmoni, "tira" la bicicletta per portarla solo qualche metro più avanti. Lui non può vederlo, forse riesce ad intuirlo dall'andamento delle grida, delle urla, dell'entusiasmo che si espande, ma dietro, in testa al gruppo ormai sfilacciato, sta accadendo quello che non serviva una sfera di cristallo per presumere, per aspettare: Tadej Pogačar ha attaccato. L'assalto al Giro parte qui. Si potrebbe cedere allo sconforto di fronte alla sua superiorità di cui molto si è parlato in questi giorni di avvicinamento: si potrebbe se non si avesse l'indole di un ciclista o, anche, la giovinezza di Giulio Pellizzari, che ci ha provato, ha fatto bene, e ci riproverà perché è solo la prima delle ventuno tappe. Ha detto qualcosa di simile e sono parole che scuotono, a prescindere da come andrà. Romain Bardet e Thymen Arensman faticano: il primo pagherà quasi un minuto, il secondo più di due. È dura, il primo giorno, poi, ancora di più: solo loro sanno quel che veramente pensavano e sentivano stamani, forse qualche timore lo avevano, ma restano venti tappe e, ora che il timore è certezza, tornare in albergo è più difficile.

Tadej Pogačar continua l'assalto, gli resiste Narváez. Gli resiste e non sa nemmeno lui come: nei lunghi sospiri dopo il traguardo, ci sarà anche quello sforzo, la volontà di riprendersi il fiato che se ne era andato. Veloce, come ha imparato ad essere, riuscirà a superare in una volata a tre Schachmann e Pogačar, questo sì più difficile da immaginare. La prima maglia rosa sarà vestita sopra una maglia con i colori della sua terra, l'Ecuador, quella di campione nazionale, di cui ha più volte descritto l'energia. Non solo: ha anche scritto dei sogni, di tutte le illusioni con cui, per colpa loro, spesso ci si sveglia al mattino. Sostiene che non sia importante, perché i passi sbagliati sono solo le impronte che qualcun altro potrà seguire per farcela, nella propria vita. Fa piacere rileggerlo oggi, con la prima maglia rosa indossata, nel giorno in cui Imerio Massignan è andato via, un altro ciclista pieno di idee, di talento, di voglia, che ha ceduto spesso solo alla malasorte. Fa piacere leggerlo oggi, nel giorno che precede l'arrivo di Oropa dove, venticinque anni fa, un altro uomo ripartì dopo un salto di catena, riprese tutti coloro che gli erano davanti, li staccò e vinse. Era Marco Pantani. L'unico modo per tenere assieme tutte queste sensazioni, probabilmente, è la bicicletta, è il Giro d'Italia. Che adesso, mentre stiamo per mettere l'ultimo punto di questo pezzo, è davvero iniziato.


Viaggio dietro le quinte di Gironimo: il podcast di alvento

Gironimo è, alla fine, un nome che contiene un destino. La parola Giro, infatti, non poteva che riferirsi al Giro d’Italia, alle sue strade e alle sue storie, piccole o grandi. Gironimo potrebbe anche essere, e, forse, in qualche modo è, uno di quegli indiani che il gruppo dei ciclisti vede da lontano, quando si appresta a scalare una vetta: semplici persone in attesa della corsa, che paiono tribù indiane schierate. Un richiamo al viaggio, agli spazi sterminati ed agli spostamenti infiniti che il ciclismo esplora. Gironimo è tutto questo ed è, soprattutto, un podcast, giunto quest’anno alla sua seconda edizione: quello di Alvento sulla via del Giro d’Italia. Quattro voci, Filippo Cauz, Michele Pelacci, Leonardo Piccione, Marta Bacigalupo, il nostro furgone Nerone, e tanti aspetti da scoprire alla vigilia della puntata zero, che avrete la possibilità di ascoltare questa sera. Abbiamo pensato ad un’intervista diversa, una chiacchierata di redazione, potremmo dire, in cui mettere sul tavolo progetti e pensieri. A farci compagnia proprio Leonardo Piccione e Michele Pelacci.

Le voci e la voce sono il primo elemento su cui soffermarsi, perché quello di Gironimo sarà un racconto da ascoltare, non da leggere: «Credo questo sia il settimo Giro d’Italia per me e Filippo Cauz. Sei consecutivi, uno più indietro nel tempo- racconta Leonardo Piccione- ed in questi anni abbiamo capito come il Giro, meglio di qualunque altra gara, si presti ad un racconto diverso da quello scritto. Perché è una corsa fresca, con tante storie: la trama secondaria, diciamo così, è interessante quanto quella principale. Non sempre accade: il Tour de France, ad esempio, pone al centro il racconto primario. Al Giro abbiamo tanti atleti esordienti, tanti corridori da incontrare, voci mai sentite da ascoltare per la prima volta, con cui familiarizzare. Non solo le voci degli atleti, quelle dei tifosi, di chi lavora in un museo, di chi vi capita per caso. Ogni storia ha una voce, come ogni luogo: Gironimo vuole provare a dare spazio alla voce delle storie». Allora, anche se il Giro d’Italia è alla sua edizione numero 107, la noia non fa parte del viaggio, non è un rischio che si corre, perché si incontrano luoghi mai visti, le sedi di partenza e di arrivo cambiano, lo spirito della scoperta turistica si mantiene sempre vivo e, anche qualora si torni in città già visitate, è maggio ad essere l’incognita: la natura che rinasce, il clima ed il cielo a fare scherzi, a sorprendere. «Pensiamo al Giro come ad un romanzo: la quarta di copertina può già svelare una qualche anteprima, ma il libro va letto, altrimenti non si saprà davvero mai come si risolve il mistero. Quest’anno abbiamo un favorito d’obbligo, inutile negarlo: è Tadej Pogačar. Potrebbe essere un Giro senza storia? Certo ed in quel caso saranno ancor di più le storie. L’analisi tattica o tecnica non sono mai state al centro del podcast, pur essendo importanti perché raccontiamo un evento sportivo, se il dominio dello sloveno dovesse ridurre ancora il tempo per questo tipo di analisi, quei minuti saranno destinati a nuove storie e nuovi incontri. La noia non si annida qui, semmai può annidarsi nella routine, negli spostamenti, nelle code. A noi non è successo, perché il mondo del Giro assorbe completamente e la bellezza fa persino dimenticare di essere stanchi».

Michele Pelacci ascolta attento la riflessione di Piccione, poi interviene: «Sono d’accordo. Tuttavia introduco una differenziazione: se il dominio di Pogačar dovesse limitarsi alle tappe finali, anche uno stradominio, non vedrei grandi problemi. Se, però, dovesse “ammazzare” la gara già ad Oropa, avrei qualche dubbio in più. Penso che una gara “spenta”, in qualche modo, rovini la storyline, pur centrale. Perché tutti ricordano il Giro dell’anno scorso? Per un finale drammatico, non per il podio o per una posizione di rincalzo, ma per la vittoria. Il Giro del 2022, ad esempio, è ricordato molto meno: l’esempio è quello del ragazzo invitato al ballo, che, però, resta in un angolo, nascosto. L’anno scorso il volto della corsa è cambiato presto: Ganna ed Evenepoel con il Covid, Tao Geoghegan Hart ritirato per una caduta. La trama non può non risentirne».

Spiega Pelacci che, per lui che ha scoperto il ciclismo nel 2019, essere sulla strada ha significato comprendere realmente cosa sia il ciclismo: «Uno sport senza senso per la fatica che ha dietro, per i sacrifici che lo compongono. Vivere il Giro d’Italia dal vivo permette di meglio ponderare i giudizi e di evitare quelli inutili». Già, ma come si racconta Tadej Pogačar? La domanda sembra inevitabile visto che a parere unanime sarà il protagonista. Leonardo Piccione confessa di non averlo mai incontrato dal vivo e questo sarà un punto non poco importante nell’evoluzione del podcast: «Potrò parlargli per la prima volta, anche solo attraverso una domanda in conferenza stampa, se vincerà una tappa od indosserà la maglia rosa. Il racconto sarà legato all’evoluzione della nostra conoscenza del campione, un’angolazione differente, una sfida diversa rispetto a quella di Giri con pronostici serrati». Il tono dovrà restare leggero, senza però scadere nel linguaggio o nelle idee.

L’abbiamo nominata prima ed è, senza dubbio, la novità più importante di questa seconda edizione: Marta Bacigalupo, nuova voce del racconto, a cui, tra le altre cose, sarà affidato proprio il compito di scovare nuove curiosità su Pogačar. L’idea della sua partecipazione nasce, in qualche modo, dopo un incontro a Gattorna, durante l’undicesima tappa dello scorso anno: «Marta è entusiasta, allegra. In più, ha uno sguardo maggiormente da tifosa- spiega Pelacci- e non credo nemmeno desideri lavorare nel mondo del ciclismo: questa leggerezza porta una prospettiva che arricchirà le nostre chiacchierate. In più- Michele si lascia andare ad una risata- anche Marta guiderà Nerone e si dividerà con me i tanti chilometri giornalieri».

Sì, Marta sarà la prima voce femminile nel nostro podcast, aspetto importante, assieme alla freschezza che saprà portare, ed è proprio parlando di lei che iniziamo a svelarvi qualche pillola: il suo interesse per il mondo dei tarocchi farà sì che il Giro di Gironimo verrà anche interpretato attraverso le carte. Intanto, a proposito di interpretazioni, un pronostico sul podio di questo Giro 2024 l’abbiamo già chiesto ai nostri inviati: Pogačar, Thomas, Bardet, il tris di Piccione, Pogačar, Daniel Martinez, Valentin Paret-Peintre, quello di Pelacci. Ma non ci siamo fermati qui, Piccione e Pelacci si sono anche sbilanciati su altri aspetti: la tappa “sorpresa”, quella che, pur non indicata dai più come decisiva, potrebbe incidere sulla gara: Piccione segnala quella degli sterrati di Rapolano Terme, «potrebbe non accadere nulla, come potrebbe essere addirittura più incisiva di quella di Prati di Tivo. Ricordiamo tutti Pogačar alla Strade Bianche», Pelacci, invece, indica la prima perché «l’ho pedalata ed il finale di San Vito non è per nulla semplice».

Tour of the Alps 2023 – 46th Edition – 5th stage Cavalese – Brunico 144,5 km – 21/04/2023 – Giulio Pellizzari (ITA – Green Project – Bardiani CSF – Faizanè) – Foto Ilario Biondi/SprintCyclingAgency©2023

Leonardo Piccione introduce il tema legato agli italiani in corsa: Pellizzari, Piganzoli e Tiberi, i più attesi. Si aspetta Andrea Vendrame vincitore di “almeno una tappa” ed è curioso di conoscere Andrea Pietrobon, da quanto sappiamo appassionato di musica e musicista che si diletta con chitarra e pianoforte. Michele Pelacci si sbilancia in un pronostico: «Secondo me, possiamo vincere almeno sei o sette tappe. Gli atleti italiani sono in varie squadre, questo è il bello. Personalmente farei attenzione a parlare di ciclismo italiano in crisi, perché il ciclismo non è solo il ciclismo su strada e bisogna considerarlo a tutto tondo. Credo sia necessario mantenere, però, un profilo basso e continuare a lavorare». Due domande le ha già preparate: a Giulio Pellizzari, che condivide con lui la fede milanista, vorrebbe domandare una sua idea rispetto ad un cambio di allenatore del Milan: «Io sì, ed il più presto possibile». Da Zambanini, invece, vorrebbe sapere se ha mai lavorato nell’agriturismo di famiglia. E se invece parlassimo di nome a sorpresa? C’è accordo: Florian Lipowitz, più per le tappe, secondo Leonardo Piccione, in particolare, per le prime frazioni, che per la classifica.

Michele Pelacci ci confessa qualcosa che ancora non conoscevamo: «Ma tu sapevi che ho altri due nomi? In realtà, sono Michele Florindo Callisto Pelacci. Di Lipowitz mi piace anche il nome particolare: Florian e Florindo hanno qualche assonanza». Vorrebbe mantenere l’incognita, ma la nostra domanda lo fa cadere in tentazione: «Michele, sveliamo ai nostri lettori gli altri tuoi nominativi?». Qualche secondo e: «Ma sì, scrivi tutto, scrivi tutto».

Giro d’Italia 2023 – 106th Edition – 6th stage Napoli – Napoli 162 km – 11/05/2023 – Mads Pedersen (DEN – Trek – Segafredo) – Jonathan Milan (ITA – Bahrain – Victorious) – Fernando Gaviria (COL – Movistar Team) – photo Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Si torna seri. Non mancherà l’improvvisazione, «qualcosa che noi italiani sappiamo fare, nel bene e nel male», ma allo stesso tempo lo studio e le scalette saranno preparate con cura e precisione, «una curatela che vorremmo non arrivasse all’ascoltatore sottoforma di “peso”, ma di qualità del prodotto». Anche per i luoghi, prosegue Piccione, vale un poco quello che vale per la conoscenza delle persone, che si arricchisce tassello dopo tassello: «Consideriamo Napoli, dove il Giro fa ritorno: la prima volta, con il sole e la festa, ricordo una sorta di stordimento, di sbalordimento. L’anno scorso abbiamo pensato ad un altro racconto, quest’anno parleremo di geologia, di quello che accade sotto quella terra e quel mare, dell’attività tellurica costante, della scienza». Anche per Leonardo Piccione il Giro d’Italia è un ritorno a casa dall’Islanda, dove trascorre molto del proprio tempo, proprio quando là il clima inizia ad addolcirsi e le ore di luce si ampliano, mentre il sole non tramonta. I suoi amici islandesi gli chiedono se sia matto ad andarsene proprio adesso, lui risponde solamente: «C’è il Giro». La curiosità, da parte sua, è per Prati di Tivo, un lato del Gran Sasso che non ha mai visitato, ma che molti gli dicono assomigli all’Islanda, nei colori e nelle sfumature. Chissà. La stessa curiosità Michele Pelacci la nutre per Livigno, dove il Giro trascorrerà il giorno di riposo, e per il Monte Grappa ed il suo santuario: «Avrò la bicicletta con me, al mattino qualche sgambatina la farò, perchè è bello pedalare al Giro. Ovviamente pedalo volentieri con i nostri lettori, però mettiamo le cose in chiaro: chi vuole pedalare con Pelacci deve svegliarsi presto. Non ci sono sabati e domeniche che tengano. Massimo alle sette e mezza».

Proprio Michele Pelacci, in queste tre settimane, proverà ad imparare qualche parola di giapponese legata al ciclismo, con il supporto di Shimano: «Non riuscivo nemmeno ad imparare il francese al Tour de France Femmes, non so come finirà con il giapponese, in ogni caso, sarò studioso». Mentre Domenico Pozzovivo narrerà il percorso delle tappe: «Si tratta- spiega Piccione- di un qualcosa in divenire, ma Pozzovivo conosce veramente quasi ogni strada d’Italia, ogni curiosità, ogni museo. Sarà un racconto differente dalla classica ricognizione». Il Museo della Magia ed il Museo del Calcio Balilla sono già sul taccuino. Chissà, tra le altre cose, che anche Lisa Vittozzi, la campionessa di Biathlon, non faccia un’incursione nel viaggio.

«Abbiamo parlato delle cose che cambiano e di quelle che restano uguali- prosegue Piccione- bene, l’accoglienza del Giro nelle città non è mai cambiata. Dalla televisione non si colgono molti aspetti, ma basta osservare il volto sorpreso di adulti e bambini, quando il plotone giunge anche in un piccolo paese, in un borgo, per non avere dubbi. Basta leggere i cartelloni e gli striscioni che vengono preparati per comprenderlo. Non sempre queste persone aspettano qualche atleta in particolare, spesso attendono solo il Giro». Michele Pelacci è impaziente, scalpita: «Del Giro si inizia a parlare molto presto e sembra lontano, molto lontano, in realtà si avvicina in un attimo. Allora i pronostici, le tattiche, le squadre, i favoriti, le possibilità. Ora basta, bisogna partire perché il Giro inizia davvero». Così sono partiti e stasera inizia anche Gironimo.


Si va a Parigi: ne parliamo con Miriam Vece

Dopo 36 anni nel settore della Velocità, in pratica dalla partecipazione di Elisabetta Fanton a Seul 1988, e per la prima volta nella specialità del Keirin, presente nelle prove olimpiche dal 2012, l'Italia torna alle Olimpiadi. Il numero di telefono che digitiamo istintivamente è quello di Miriam Vece, ventisette anni, di Romanengo: sono state le sue prestazioni nel lungo percorso di qualificazione a permettere questo ritorno e questa prima volta. La certezza dopo la prova di Nations Cup di Milton, nel fine settimana del 20 e 21 aprile: «Devo ammettere che il sistema di punteggio per la qualifica non è più complesso come a Tokyo. In realtà, l'inizio di questo "viaggio" non è stato particolarmente brillante, penso all'Europeo e alle prove a Giacarta. Poi, qualcosa è cambiato, probabilmente al Cairo, in Egitto. Un quarto posto nella Velocità è come se mi avesse sbloccato. Se ci ripenso, da lì, su sei coppe, ho ottenuto cinque finali nel Keirin, allora, probabilmente, ho affrontato tutto in maniera più rilassata e le cose mi sono sembrate più naturali. Diciamo che il sentore della qualificazione era nell'aria da diverso tempo ormai, ma, sai, serve la certezza». Potrebbe sembrare scontato chiedere a Vece cosa provi, se sia felice, noi glielo chiediamo lo stesso e lei risponde stranamente riflessiva, tranquilla, gestendo perfettamente la felicità che pur si avverte: «Fino a Parigi sarà solo una lunga attesa. Per ora so solo che partiremo, arriveremo lì, gareggeremo, sarà la prima volta nel Keirin e chissà come andrà. C'è qualche intervista in più e una maggiore attenzione dell'opinione pubblica. Forse, al ritorno, farò una festa. Per ora so solo questo, forse, non appena arriverò capirò qualcosa in più. Sia dei Giochi Olimpici che di questa felicità».

UCI 2023 World Championship Glasgow - Track - Day 2 - Women Elite 500m Time Trial Qualification - 04/08/2023 - Miriam Vece (Italy) - Foto Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Se ne parlava, sì, con Ivan Quaranta, responsabile tecnico del settore, e con lo staff della Nazionale. Se ne parlava anche quando non c'era quasi nulla e questo Vece lo sa benissimo. «Quando Quaranta ha iniziato il suo lavoro eravamo, in pratica, degli "scappati di casa", gli Europei sono arrivati dopo e noi ci abbiamo sempre creduto. Anche se, per quanto mi riguarda, almeno all'inizio, ho quasi sempre respinto ogni consiglio di Ivan»: una risata interrompe il flusso delle parole, mentre i rumori dell'esterno attraversano il telefono. «Siamo cane e gatto. Lui mi proponeva qualcosa ed io sostenevo esattamente l'opposto: pareva una cosa fatta di proposito. Penso ai rapporti, ad esempio: ero sistematicamente contraria a quelli indicati da Quaranta, poi li adottavo e facevo bei tempi. Ma gli esempi sono davvero innumerevoli». A ben guardare, anche per la specialità è successo qualcosa di simile: Miriam Vece non pensava minimamente al Keirin, anzi, in un certo senso lo temeva da una caduta avvenuta quando era juniores. Per questo non l'aveva più rifatto e non voleva più rifarlo: «Non sai quante volte mi sono sentita dire: "Buttati, devi buttarti, senza pensare. Buttati". Il difficile è proprio la mischia: biciclette che arrivano ovunque, contatti, millimetri di distanza che si annullano con un movimento e si rischia di finire a terra, di farsi parecchio male». Quel timore è passato, è lei stessa ad affermarlo con un certo orgoglio: «Ora chiudo gli occhi, un respiro e mi butto. Se mi toccano? Proseguo lo stesso, testarda».

2023 UEC Track Elite European Championships - Grenchen (Suisse) - Day 1 - Womens Team Sprint - 08/02/2023 - Miriam Vece (ITA) - Foto Roberto Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Per qualche istante c'è la tentazione di sentirsi pioniere, di aver aperto o riaperto una strada, di essere la prima in qualcosa. «Sì, a livello personale è una soddisfazione importante essere i primi, ma se, poi, ti volti e dietro di te rischia di non esserci nulla? Può bastare essere la prima? Io credo di no. Negli ultimi tempi, per fortuna, si stanno avvicinando più ragazze a questa disciplina, sarà per la parte di storia che è già stata scritta, ma ancora non basta, soprattutto perché sono molto giovani e chissà se un domani proseguiranno. Potrebbe anche non esserci un seguito, dietro di noi, e mi spiacerebbe davvero. Ora ci sono le medaglie al Mondiale ed all'Europeo, ma quando eravamo giovanissime noi, io, Vittoria Guazzini ed Elisa Balsamo, ma in generale tutte le ragazze del quartetto o delle altre specialità, probabilmente sarebbe stato saggio anche da parte mia fare quel tipo di scelta, invece sono andata incontro al buio: non sapevo cosa ci sarebbe stato. Il mio periodo in Svizzera racconta anche questo». Proprio dalla Svizzera spiega di aver imparato tanto, tantissimo: a partire dalla lingua, «perché quando sono arrivata non sapevo proprio una parola di inglese, ora lo parlo molto bene e spesso anche quando parlo italiano mi viene in mente il corrispettivo inglese, oltre a tanti allenamenti e tante amicizie».
La sua famiglia e molti suoi amici hanno scoperto dai giornali la definitiva conquista del pass per i Giochi Olimpici dai giornali. Lei, ora, ripensandoci, non riesce a non pensare ai periodi più difficili passati: nel 2017, ad esempio, con la chiusura del velodromo di Montichiari, oppure nel 2020, nel periodo della pandemia ed in quello immediatamente successivo: «Se penso alle più giovani, ad un qualcosa che possa essere utile per loro, direi una cosa che si dice spesso, che è vera, ma, talvolta, a forza di ripeterla, sembra banale. Non lo è. I sacrifici tornano davvero indietro nella quotidianità, questa restituzione dell'impegno e dell'abnegazione esiste realmente. Sai quale credo sia il problema? Che non si sa quando avverrà quella restituzione, potrebbero servire anni e, nel frattempo, le persone si perdono perché non sanno cosa fare, se proseguire, se fermarsi, se davvero ci sarà una ricompensa. Il tempo che scorre impone di decidere e, se dai tanto e nulla torna, rischi di decidere di smettere di dare o di dare in un altro campo, in un altro modo. Questo aspetto c'è, non bisogna nasconderselo. Però fare sacrifici è necessario e, prima o poi, qualcosa ritorna. La mia partenza per Parigi, per i Giochi, lo testimonia».


Mulinvélo, Pastrengo

Il vecchio mulino di Pastrengo era lì, fondamenta ben salde nel terreno, incurante dei secoli che passano, bastione possente su cui il cielo rovescia pioggia, vento, neve d'inverno e cappa di aria calda, canicola soffocante, d'estate. Dal 1800, anno della sua costruzione, erano duecento anni di intemperie e volti e voci che solo ciò che è di pietra e resta nel tempo può conoscere. Dagli inizi del 1900, quando, effettivamente, iniziò a macinare farina finissima e finemente curata, era già trascorso quasi un secolo e, per la parte di produzione, quel mulino era inattivo da un buon periodo. All'interno, vi lavoravano le figlie del proprietario: curavano una piccola porzione relativa alla vendita di farine che, altrove, non si rintracciavano. Il resto della struttura non era visitabile dai più, la meraviglia della sua artigianalità, dei suoi segreti, nascosta proprio da tutto il tempo che era ormai trascorso, come una fotografia, protetta dalla copertina, in un album.

Sulla sponda orientale del lago di Garda, a pochi chilometri da Verona, i cittadini di Pastrengo conoscevano quel mulino, come i quattro forti austriaci racchiusi in poco più di un chilometro e mezzo, il vecchio telegrafo e l'aeroporto per velivoli super leggeri: sapevano della loro esistenza per sentito dire, per qualche transito su quella strada, al mattino presto o alla sera tardi, per caso. Così accadeva anche a Massimo Gaiardelli, mentre, dapprima, lavorava in un'azienda di elettronica e, successivamente, in bicicletta accompagnava le persone in Toscana oppure sulle Dolomiti: era una delle prime guide in sella, qualcosa che precorreva i tempi e che lo portava lontano da casa per molte, forse troppe, settimane. A ben guardare, qualcuno che aveva visto oltre, seppur per quello stesso caso, c'era ed era proprio a casa sua: si trattava di Antonella, la sua compagna, in un giorno in cui cercava della farina di Kamut, non così diffusa agli inizi degli anni 2000. La porta dello spaccio per la vendita, poi, il resto in denaro che manca e quelle ragazze che le aprono le stanze abbandonate. La copertina dell'album è tolta, la fotografia è esposta. «Dovresti vedere quanto è bello, peccato sia in parte abbandonato»: frammenti di conversazione tra Massimo e Antonella. Parole che fuggono via, almeno per quel momento.

La realtà è che Mulinvèlo ha radici in quel dialogo e casa in quel vecchio mulino abbandonato. Massimo Gaiardelli gestiva un negozio di biciclette, a Sant'Ambrogio, divenuto ormai piccolo e con una comunità di persone sempre più grande a frequentarlo, l'idea era di un nuovo luogo in cui porre le fondamenta. Nel frattempo, un cartello su quel mulino, con la scritta "in vendita", un passaggio in auto su quella strada, a cinquecento metri da casa, un sabato pomeriggio a visitarlo e l'acquisto per trasferirvi tutte le biciclette ed il fulcro del mestiere di Massimo e Antonella. «La maggior parte dei lavori sono fatti a mano, con l'intenzione di mantenere e, se possibile, proteggere l'anima del mulino. Ecco la tramoggia, guarda i tubi che portavano su e giù la farina, l'officina, invece, era un vecchio bunker della guerra. Puoi toccare il sasso, sentirne l'antichità, ammirare gli accessori realizzati con materiale recuperato dalla vecchia struttura del mulino, osservare la cantina, l'interrato sotto, il bianco ed il nero, la sala macchine, attraverso i vetri, le malte colorate che, da gennaio del 2023, hanno dato sostanza alla ristrutturazione di questo gioiello dimenticato». Oltre a questo, vi sono spazi appositi dedicati all'abbigliamento, alle collezioni di bici, fino ad una sorta di appartamento, un luogo intimo, in cui accompagnare il visitatore, bere un bicchiere del pregiato vino della Valpolicella e fare un aperitivo, a pedali fermi, a ruote immobili, dove, comunque, la bicicletta resta lo sfondo, l'idea generatrice. Proprio al movimento delle ruote si riallaccia il nome: nei mulini è tutto un ruotare ed il verbo "mulinare", per riferirsi al rapido girare dei pedali mentre si corre in bicicletta, deve avere qualche legame con queste antiche strutture. "Vélo", invece, è bicicletta in lingua francese, ma non solo: ha lo stesso suono di velocipede e di velocità, un binomio affascinante sin da quando si è bambini. Gli stranieri che giungono a Pastrengo si guardano attorno incuriositi e si chiedono se davvero può esistere un mulino pieno zeppo di biciclette.

La risposta potrebbe fornirla un signore coi capelli bianchi che, pur avendo sempre pedalato, ora inizia ad avere mal di schiena, a far fatica in quella posizione, eppure, al pensiero di rinunciare alla "sua" bicicletta si sente più vecchio che mai e gli occhi diventano lucidi: «Quando un signore gentile e canuto arriva qui, ho la chiara percezione della bellezza del poter risolvere un problema per qualcuno, del sentirsi utili. Poi li rivedi quei signori: forse faranno solo il tratto da casa all'edicola in bicicletta, ma, grazie al consiglio giusto, alla posizione corretta, a una piccola modifica sulla bicicletta potranno continuare a farla e allontanare di qualche tempo l'idea della vecchiaia e la sua malinconia».

Massimo Gaiardelli ha vissuto ogni minima sensazione su una bicicletta, in anni e anni di pedalate controvento, come in quelle che continua a fare oggi, la domenica oppure il mercoledì mattina, quando il mulino è chiuso, per questo conosce perfettamente qualunque piccolo fastidio che può provocare questa esperienza: dalle scarpe strette, alla sella, al soprasella, alla posizione del collo e della schiena. «Il gesto della pedalata mette assieme molti movimenti e molti fattori per cui è sufficiente davvero poco perché da qualcosa di piacevole, pur nella fatica che si sperimenta, a un momento di fastidio e sofferenza. Credo che il nostro compito sia quello di predisporre tutto affinché le persone stiano bene in bicicletta». Le persone, sì, le donne e gli uomini a cui si rivolgeva già quando vendeva i primi cellulari, i vecchi portatili a valigetta, gli stessi che, quando lo incontrano, gli ricordano che il primo telefono mobile gli venne consigliato proprio da lui: «Decisi di abbandonare l'elettronica proprio quando capii che, per come si erano messe le cose, avrei dovuto lasciare da parte la mia attenzione per il lato umano: non avrei mai potuto. Resta, però, il fatto che, in ogni caso, si parla di un qualcosa più "freddo" rispetto alla bicicletta: il ciclismo permette tutta una contestualizzazione, sin dal primo momento in cui ci si conosce, pur essendo estranei. Questo avviene perché si svolge all'esterno, nella natura, ci si può chiedere da dove si proviene, dove si abita, qual è il luogo in cui ci si reca quando si vuole osservare un panorama, magari scoprirlo. Bastano queste poche domande per sentire di avere qualcosa in comune, no?».

Si spazia dalla disciplina su strada, al gravel oppure alla mountain bike dove è necessaria anche una base tecnica e qualcuno che ne illustri i dettagli: Gaiardelli si muove attraverso dei video per registrare gli allenamenti e, successivamente, mostrarli a chi si sta cimentando in quella pratica, affinché, rivedendosi, possa prendere coscienza degli errori commessi e cercare di migliorarsi, sempre attraverso il dialogo, il confronto, evitando a priori l'informazione calata dall'alto che non mette a proprio agio chi la ascolta e vuole assimilarla.

La bicicletta mette sullo stesso piano, sullo stesso livello, quello della strada, del sacrificio, della velocità e del vento, Gaiardelli cerca quel piano attraverso un invito a pedalare assieme, a guardarsi, a commentare quel che si vede e le sensazioni che si provano, le emozioni di quando dallo stupore per quel che c'è «quasi ti butti per terra e piangi», persino a prendere la sua bicicletta e a mettersi in gioco, prima di qualsiasi giudizio, perché la missione della bicicletta, unica pur in tante declinazioni, è, fra le altre, per Gaiardelli, dare il giusto tempo ed il giusto ritmo al tempo ed alle cose: allora il mulino a cinquecento metri da casa non è più normale, ma speciale, vale anche per i forti austriaci e per il telegrafo, vale per i profumi e per i sapori, di cui la zona di Pastrengo è ricca. Libertà, esperienze assieme, viaggi, borse da preparare: ecco gli ingredienti che, dopo tanti anni, sono antidoto all'abitudine e stimolo costante per l'entusiasmo anche in Gaiardelli stesso, che è stato maestro di sci ma la "goduria" di un giro in bicicletta non sa dove altro scovarla. Se di fronte ad un anziano signore il bello è risolvere un problema, permettere la continuazione delle pedalate, di fronte ai più giovani la sfida è suscitare interesse, lasciare un seme, che saranno, poi, loro a coltivare. La costante è la tematica legata alla sicurezza, connessa a una filosofia ben precisa: «Sento diverse persone che non usano la luce o non mettono il casco e si nascondono dietro al fatto estetico. La mia idea è netta: io ti procuro la luce più bella che c'è, il casco più bello, più comodo, ma tu lo indossi. Così togliamo alibi. Poi ognuno deve fare la propria parte e gli utenti della strada sono molti».

In una realtà in cui le grandi aziende dominano ed il prodotto, anche la bicicletta, è sempre più depersonalizzata, c'è un ritorno di fiamma per l'artigianalità, per quel che è su misura, un vestito pensato per la persona e la bicicletta è un mezzo che ha bisogno di questo adattarsi a chi dovrà salire in sella e pedalare. Allo stesso modo, il mulino di Mulinvèlo è un'esperienza, oltre ad essere un locale, un negozio, sulla scia di esperimenti simili a Girona, a Londra, con l'innovazione data, proprio, dall'essere un mulino, da tutti gli anni che ha trascorso a produrre farina, dal caso di quel giorno in cui vi è capitata Antonella, dalla ristrutturazione, dall'ospitare biciclette. Soprattutto dall'essere sempre stato il posto giusto, al momento giusto. Una sorta di magia realizzata dagli esseri umani.


La prospettiva di un casco

I giardini di marzo si vestono di nuovi colori a Chiuduno, nei pressi di Bergamo, sull'eco di una canzone di Lucio Battisti che, chissà perché, si affaccia alla mente stamani. Pure la luce ha cambiato abito: la vetrata che riveste la parete alla sinistra del tavolo attorno a cui stiamo dialogando con Angelo Gotti, fondatore e CEO di Kask, proietta un chiarore differente, ombreggiando e rischiarando, pittrice esperta, i contorni delle sue mani mentre ruotano in ogni direzione un casco, indicando le linee e le asole, accarezzando con l'indice la rivestitura interna e stringendo e allargando il regolatore, con un cenno lieve di soddisfazione, al modo dei timidi.

 

«È necessario osservare il casco da ogni possibile prospettiva, rotearlo, inclinarlo, indossarlo e continuare a muoverlo sulla testa. Non devono emergere blocchi, in un punto o nell'altro: la sua reale essenza non è raccontata dall'apparenza di uno scaffale, ma dall'esperienza di mani artigiane che imparano a conoscerlo ed esplorarlo». Quello che intende Gotti l'abbiamo intuito pochi minuti prima, transitando da un piccolo laboratorio in cui un ragazzo dell'ufficio tecnico, muovendosi fra varie calotte, accanto a scansie ed attrezzature specifiche, ricerca le soluzioni migliori per plasmare il prossimo casco. Sembra di tornare indietro nel tempo, quando per fare il casco si partiva solamente da un pezzo di legno pieno che, colpo di scalpello dopo colpo di scalpello, iniziava ad essere scontornato sulle linee laterali, poi scavato, a cercare l'anima del disegno già impresso sui fogli, in uno schizzo e nella mente. Un processo che, in parte, resta costante tutt'oggi, anche se la tecnologia ha portato le elaborazioni in tre dimensioni, ma «il casco non è, se non nelle mani e sulla testa e – prosegue Gotti – la conformazione della testa è simile per tutti, ma in realtà molto differente nelle sfaccettature.

Il casco, prima nelle mani, ora è tornato, per qualche istante, ad essere poggiato sul tavolo, con gli occhi che ancora lo cercano, lo scrutano, fino a che si fermano sui pois rossi che lo macchiano, ricordo del pomeriggio del 17 luglio 2007, a Briançon, al Tour de France. Era la prima volta che Angelo Gotti respirava dal vivo l'atmosfera della mirabolante carovana gialla: se ne stava dietro una transenna, a pochi metri dal traguardo, dove non c'era nulla se non un grande schermo, non aveva niente, in fondo, nemmeno una bottiglietta d'acqua, eppure sentiva di avere scoperto una terra nuova. Le immagini continuavano a trasmettere Mauricio Soler all'attacco, i suoi pochi secondi di vantaggio, che solo qualche minuto prima parevano troppo pochi, quasi inutili, ora si sapeva, si sentiva, sarebbero bastati per vincere. «Osservavo il nostro casco a proteggere un ragazzo nel mezzo di un'avventura folle. Non capivo più nulla, ma ricordo distintamente che, dopo la linea bianca dell'arrivo, non lo tolse: era il mio punto di contatto con lui, un segno di riconoscimento dall'alto, mentre camminava verso il podio o si recava alle interviste. Se penso da dove sono partito, alle notti sveglio, nel buio, per fissare ogni dettaglio. Se penso come era grande quel casco nel megaschermo, il primo realizzato da Kask nel ciclismo».

Gli occhi diventano lucidi, liquidi, una risacca di ricordi: l'azienda in cui iniziò a lavorare a sedici anni e i caschi per l'equitazione, poi Mistral, dal nome di un vento, il maestrale che spira da nord ovest, il casco da ciclismo che lo fece discutere con il suo principale, dice così Gotti, «l'avevo progettato in maniera differente da tutti i caschi che già esistevano, ma gli esseri umani sono fatti da idee e istinti a preservarle. Non si rinuncia a un'idea per conformarsi agli altri». Fino ad un giorno in cui in un ufficio, simile a quello in cui stiamo conversando, calò il buio: Gotti vuole lasciare l'azienda, la nuova direttrice lo convoca. «Mi sono seduto che fuori era ancora giorno, sono uscito che era sera e il buio era anche dentro il locale perché, intenti a discutere, non avevamo nemmeno acceso la luce. Me ne andai». Il 18 marzo 2004, a Chiuduno, fra altri giardini di marzo, nasce Kask. Un paese dove tutto è a portata di bicicletta: made in Italy, dicono, made in Bergamo, sottolinea Angelo Gotti, che i primi caschi da lavoro li fece provare a un suo fratello, «il classico muratore bergamasco». Tutta la produzione qui, a portata di mano, per controllare ogni passaggio, per eseguire, se possibile, controlli aggiuntivi: «I caschi andrebbero battuti, in gergo, in due punti al momento del test, per verificarne la resistenza. Noi li battiamo ovunque: sono l'unico dispositivo di sicurezza che indossa un ciclista, se il punto fragile fosse il terzo? Non possiamo permetterci di affidarci alla fortuna, la coscienza non ce lo consente».

 

Ci sono voragini che Angelo Gotti rivive ancora adesso: l'incidente di Fabio Casartelli al Tour de France del 1995, quello di Andrej Kivilëv alla Parigi-Nizza del 2003 e quel «se il casco fosse già stato obbligatorio» che fa male. Ci sono lettere di ringraziamento con foto di caschi rotti nell'impatto di una caduta e frammenti di caschi spezzati conservati, «perché resteranno delle cicatrici, ma queste famiglie hanno ancora un figlio, un padre, un fratello». Allora ogni elemento del casco deve essere declinato nella prospettiva della sicurezza: dal polistirolo interno, ancora la miglior soluzione in termini di protezione dagli impatti, al comfort, «quel non sentirlo addosso», che accresce le possibilità che le persone lo indossino, all'aerazione e, per gli atleti, anche all'aerodinamica. «Si sono fatti passi enormi in questo senso: nel 1996 ricordo dei test in galleria del vento in cui su una pedana era posizionata una falsa testa e l'aria veniva sparata su dei cordoncini di cotone per verificarne il flusso. Si credeva che il casco dovesse essere allungato, ora sappiamo che è meglio sia corto e compatto e copra le spalle. C'era un casco unico, ora abbiamo caschi da pianura, aerodinamici e veloci, leggeri e areati da salita, polivalenti per tappe miste e ancor più aerodinamici per la cronometro. Ma un casco nasce dalla parte interna, proprio perché senza la sicurezza non ha senso di esistere».

A pochi chilometri dalla sede principale, in un capannone, operaie e operai, in piedi accanto a un lungo tavolo, eseguono ognuno una piccola operazione: chi toglie la sottile pellicola che riveste il casco, chi posiziona all'interno le protezioni prima riscaldate su un forno, chi sistema il regolatore e chi, con cura e un panno, pulisce la superficie dopo tutti questi passaggi. Operazioni di precisione e di mani pazienti. Ci si ferma ad osservare, ci si avvicina per vedere bene, e di fronte allo stupore per tanta attenzione di noi intrusi viene spontaneo esclamare: «No, niente, è solo bello vederti lavorare». In un altro capannone scopriamo i fogli da cui, attraverso l'arte della serigrafia, si sviluppa il casco vero e proprio. Saranno quei fogli a essere inseriti in una macchina, una sorta di demiurgo, che, attraverso degli stampi e il calore, li restituirà in pochi secondi con la sagoma perfetta del casco vero e proprio. Diego Zambon è il General Manager dell'azienda: alla stretta di mano, si è subito raccomandato sul fatto che «qui tutti si danno del tu, non è il lei a trasmettere il rispetto. Qui tutti visionano i caschi, danno un parere, partecipano, insomma, al lavoro di squadra. Parlo di Ineos, ma anche del contabile». Più tardi, davanti ad un caffè, ha confessato di essere abituato a parlare di numeri, di cifre, ma, in fondo, scaldato da ben altro. Dal pensiero che nonno, già agli inizi del Novecento, usava la bicicletta e, per lui, andava bene qualunque casco, bastava fosse della taglia corretta, tuttavia «se gli esseri umani non avessero questo desiderio di sperimentare, di guardare da altre prospettive, anche a costo di sbagliare, saremmo ancora lì e, chissà, forse non useremmo nemmeno più la bicicletta. Fare un casco ti ricorda che basta un passo di lato per vedere le cose in maniera differente e quel passo dobbiamo compierlo, anche se rischia di stravolgere tutte le convinzioni a cui ci aggrappiamo».

Il nostro giro ci porta verso un'esposizione di caschi, tra cui notiamo subito quelli usati da Chris Froome e, poco più in là, quello di Filippo Ganna, indossato al Mondiale a cronometro. Da qualche parte deve esserci anche quello del Record dell'Ora: noi indaghiamo con lo sguardo, finché veniamo avvertiti: «Angelo, ogni tanto, scende, ne prende qualcuno e lo porta nel suo studio. Sarà lì, senza dubbio. Quel signore che non dorme la notte ha questo vizio». La precisazione di Zambon suscita ilarità, è lui stesso a riprendere il filo del discorso, come dopo un respiro profondo che alleggerisce: «Froome non stava mai fermo in sella, continuava a muovere la testa, al contrario, Kiryenka era immobile. Noi siamo imperfetti, non possiamo farci nulla. Il casco è un oggetto e deve essere studiato anche per rimediare le imperfezioni umane. Nel momento in cui un atleta lo indossa, entra in rapporto con i suoi movimenti, con il body, con le condizioni meteo esterne. La performance risponde a questo equilibrio». Già, il lato umano: Froome che, non appena riceve il casco da Laura Butera, addetta alla comunicazione in azienda, a Monaco, resta qualche secondo a osservarlo «come fanno i bambini, ed era felice, davvero felice», oppure Filippo Ganna che, dopo il Record dell'Ora, restituirà quel casco all'azienda, mentre Gotti si raccomanderà «la visiera è sporca di sudore, guai a chi la lava». Pare sia uno dei caschi di cui va più orgoglioso: la visiera è dotata di alettine che favoriscono uno scorrere dell'aria più rapido. Le due componenti combinate hanno migliorato di 15 watt la prestazione, dieci per il casco, cinque per la visiera. Fino ad Alex Zanardi e all'unico contratto che non esiste: solo una stretta di mano e una telefonata a Gotti, in Sardegna, il giorno in cui vinse ai Giochi paralimpici.

 

Saliamo le scale, Angelo Gotti apre la porta del suo ufficio, sulla scrivania diversi caschi, altri sono posizionati su un mobile, lì dietro. «Ora mi rimetto al lavoro», afferma. La porta del suo ufficio si chiude, noi ci voltiamo verso la scala che ci accompagna all'uscita, sicuri che, prima di continuare a progettare, Gotti, almeno per qualche secondo, starà osservando uno di quei caschi, roteandolo, esponendolo alla luce, fino a dirsi, a bassa voce, rimettendolo al proprio posto, che fare i caschi gli piace ancora, come il primo giorno.

Foto: Eloise Mavian / Tornanti.cc