Mi accorsi di lui quando, prendendo nota dei corridori al via del Tour de l’Avenir del 2019, vidi spuntare il suo nome all’interno della selezione della squadra del Centre Mondial du Cyclisme. L’Irlanda, infatti, non era iscritta alla corsa. Era uno dei più giovani, 19 anni ancora da compiere, ma non solo, uno dei classe 2000 (primo anno nella categoria Under 23) più attesi, dopo l’11° posto ottenuto quella primavera alla Gent-Wevelgem e poi altri risultati interessanti, seguendo sempre quel canovaccio che ormai tutti gli appassionati hanno iniziato a conoscere: la fuga.
Foto: Tour de l’Avenir 2019, Facebook
La mattina del 19 agosto 2019 ad Espalion pioveva. Nel pomeriggio, a Saint-Julien-Chapteuil, il tempo non aveva certo dato tregua, anzi a tratti si era messo ancora più di traverso e Ben Healy, inglese di nascita, ma irlandese d’adozione (la famiglia da parte di padre arriva proprio dall’Irlanda e lui scelse la licenza irlandese perché da junior, nonostante i risultati brillanti, tra cui il giro dei Paesi Baschi vinto davanti a Evenepoel, fu ignorato dalla federazione britannica in vista del Mondiale), si lanciò in fuga in quella quarta tappa, e da quella fuga raccolse poi la vittoria, battendo corridori tutt’altro che disavvezzi a certi esercizi, soprattutto se caratterizzati dall’incessante ticchettio sulla testa della pioggia: Hulgaard e Jorgenson, i suoi compagni d’avventura anticipati a circa quattro chilometri dall’arrivo. L’anno dopo vinse di nuovo in Francia attaccando da lontano alla Ronde de l’Isard. Stavolta con il sole.
E con il sole lo vidi dal vivo a Castelfranco Veneto, nel 2021, al Giro d’Italia Under 23. Indovinate un po’ la successione dei fatti? Al mattino, al via da San Vito al Tagliamento, un tiro di schioppo dietro casa mia, gli dissi: «Today is the day, Ben!». Lui non mi rispose, anzi, ma fece qualcosa di più. Mi guardò con un ghigno a denti stretti, poco convinto, quasi fosse un tentativo di tenere fuori dal suo prezioso campo vitale qualcosa inteso probabilmente come un anatema lanciato da uno sconosciuto. Aveva la maglia bianca con la striscia verde e il trifoglio, simbolo di campione nazionale in carica, a difenderlo dalle mie maledizioni.
Come andò a finire… andò a finire che Healy vinse quella tappa, prima attaccando da lontano e poi lasciando per strada i suoi compagni di fuga, staccati a circa tre chilometri dall’arrivo. Dopo il traguardo mi avvicinai a lui complimentandomi, rispose: «Attack is the way» come fosse la cosa più normale al mondo. Chiuse quel Giro d’Italia al 12° posto in classifica, finendo anche secondo nella crono di Guastalla vinta da Baroncini e terzo il giorno dopo nella frazione di Sestola vinta da Ayuso davanti a Tobias Halland Johannesen e con la promessa che un giorno avrebbe provato (e ci proverà prima o poi) a fare classifica anche nei Grandi Giri.
“Artista della fuga” lo chiamano, e Tom Gloag, suo ex compagno di squadra in maglia Trinity Racing, un giorno mi disse: «Quando lo trovi nella starting list stai pur certo che non sarà mai una gara normale». Artista o dotato di una personalità simile, lo definisce invece uno dei suoi direttori sportivi, Tom Southam. «Quando l’ho visto per la prima volta non ho pensato fosse un corridore, semmai uno studente di storia dell’arte o qualcosa del genere»
Ben Healy, classe 2000, sta mettendo in campo anche tra i professionisti tutta la sua disciplina appresa, più che a Storia dell’arte, combattendo il vento trasversale che lo sfidava ogni domenica nelle zone di casa sin da quando era bambino. Ha iniziato con la mountain bike e solo dopo un po’ si è appassionato al ciclismo su strada: non ha nulla di così particolare da raccontare, né chissà quale background indimenticabile, Ben Healy, già da tempo corridore di culto, non spicca per quello che è, anche se sbirciando il suo profilo Instagram si capisce come ci tenga, ma per quello che fa.
Alla Parigi-Roubaix di quest’anno era presente, ma non tra gli iscritti alla gara, semmai come turista, accompagnatore, infine soigneur. Voleva gustarsi l’atmosfera di una delle corse più affascinanti, ma sulle quali, visti i 60 chili di peso, difficilmente potrà mai essere protagonista, forse nemmeno andando in fuga. «Il mio segreto per evadere dal gruppo? Nessuno, semplicemente provarci e riprovarci fino a che hai le gambe».
La squadra gli ha spiegato i punti in cui si sarebbe dovuto fare trovare pronto con il rifornimento, gli ha dato borracce e ruote e lui era lì, come nel suo stile, attento, nonostante quell’espressione un po’ stralunata disegnata da occhi nerissimi e ciglia lunghe. La sua giornata è stata descritta dalla squadra in cui milita, la EF EasyPost, e i nodi focali sono stati: lo stupore nel vedere gruppi sparpagliati ovunque e non vivere di persona quelle sensazioni, ma cogliere l’assurda sofferenza di una corsa come la Roubaix; il rumore delle bici sulle pietre, la difficoltà di stare al passo di una gara fatta a cinquanta chilometri all’ora di media, che ha significato anticipare il gruppo di pochissimi minuti; i suoi compagni di squadra che lo cercavano per ricevere il rifornimento, e infine l’ormai noto siparietto con James Shaw.
Shaw, suo compagno di squadra, al via non aveva preso la precauzione (come per altro fanno in tanti) di correre con i guantini, e a un certo punto, proprio nella zona in cui si trovava Healy, si fermò per un attimo per poi ripartire stremato e le mani indolenzite e sanguinanti. Momento immortalato anche dalle immagini di un telefono:
Chasing Roubaix with Ben Healy.
This part, featuring @JamesthingyShaw, is one of the funniest things I have ever seen at a bike race.
(James’s hands do not look pretty now)https://t.co/zVAYCDGZZ2 https://t.co/3A2srtuZfE pic.twitter.com/Ls1GLbsYt2
— Keir Plaice (@keirp) April 14, 2023
«Pover’uomo», esclama Ben con quel sorrisino beffardo che stiamo imparando a conoscere, gli occhi scuri che sembrano sempre rivelare o nascondere qualcosa. «Non lo invidio. Spero che arrivi al velodromo con le mani ancora intatte». Ghigno healyano. Sipario.
Pochi giorni dopo ha rimesso i panni del corridore, interpretando nuovamente quello del fuggitivo-protagonista. Come il miglior De Gendt di sempre, come Ben Healy da più o meno il suo sempre. Ha anticipato, ha attaccato. Prima al Brabante e poi all’Amstel: le Ardenne sembrano essere le terre fatte su misura per uno che ha fatto pratica sulle tortuose colline d’oltremanica.
Secondo al Brabante, battuto allo sprint da Godon, uno parecchio veloce, dopo averlo provato a staccare su diversi muri e dopo essergli rimasto appeso, per qualche grazia ricevuta, sull’ultima collina e poi secondo all’Amstel Gold Race di pochi giorni fa. Secondo dietro Pogačar, primo degli umani, e infatti esultante, in un mese in cui gli è riuscito di sbloccarsi in Italia, vittoria a Larciano e poi tappa alla Coppi & Bartali.
Lo si attendeva in corse di più alto livello e ha risposto bene come secondo degli umani dietro un alieno e staccando un compagno di tante battaglie nelle categorie giovanili delle corse in Gran Bretagna, Tom Pidcock. Mica se lo aspettava, Ben: «Cosa dire della mia Amstel? Che è stata una corsa surreale». Niente male come inizio: ci vediamo nella prossima fuga, magari proprio sulle strade del Giro d’Italia.
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