Alla partenza di Sefro, Giulio Ciccone e Julian Alaphilippe hanno visto la bicicletta in maniera diversa dal solito. Che a un ciclista piaccia la bicicletta non è, poi, un mistero, che un ciclista, passando davanti a una bicicletta, possa dire “ma che bella” non è assurdo ma nemmeno così scontato. Sì, perché per lui pedalare è un lavoro e, quando diventa un lavoro, le cose possono cambiare. Invece no. Loro guardavano quella bici e commentavano, come fanno molti tifosi dietro le transenne. Passavano la mano sul manubrio, come fa qualunque ragazzo quando va a comprare la bicicletta nuova, quasi che toccarla permettesse di vederla meglio. La bicicletta non si guarda solo, si tocca anche. Quando vedi due professionisti farlo, come lo hanno fatto Ciccone e Alaphilippe qualcosa si capovolge.

“I muri rallentano i ciclisti e se vanno più lenti li vedi meglio, per questo la gente va sui muri”. Ce lo hanno detto mentre osservavamo quanto poco bastasse alla gente per saltare su una salita. Quanta poca salita servisse per fare ciclismo. Ovvero per fare grida, scritte sulla strada, birra e anche qualche spinta. E c’è chi dice che qualche ciclista, tempo fa, ebbe la lucidità per dire: “Grazie, oggi mi serviva”. I muri non sono piacevoli, non per i ciclisti almeno. Per la gente sì, non solo perché può succedere qualcosa, ma perché c’è lentezza, c’è modo di vedere meglio, nonostante tutti vogliono andare veloce, nonostante anche quegli applausi e quelle grida sono una spinta ad andare veloci. Una realtà capovolta.

Evenepoel di capovolgimenti ne sa qualcosa. Lui che ha attaccato e si è trovato in coda, lui che ha girato la testa e chiunque può immaginare cosa abbia pensato, cosa abbia detto. Lì vicino c’era una casa, c’era un balcone. Chi aspetta il ciclismo ha pazienza. Sa tenere gli occhi fissi verso un luogo per tanto tempo perché il gruppo che passa è un attimo e se ti distrai, se giri la testa, se perdi quell’attimo non ha più senso. Beh chi guardava da quel balcone, da quella casa, ha avuto qualche secondo in più. Chi guardava da quella casa, quasi fuori dal percorso, ha visto qualcosa in più. Ha visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Essere nel posto sbagliato, non è stato così sbagliato questa volta. Capovolti.

La fuga stessa per Warren Barguil è un capovolgimento. Perché è la sua realtà a cambiare attraverso la fuga e perché ce lo dice subito: “Non ho mai creduto di poter vincere un Tour de France”. Sì, perché oggi che Barguil è tornato a vincere si è tornati a parlare della sua generazione, dei corridori francesi che con lui hanno condiviso talento e fantasia. A molti fa piacere, a lui no. Lui prende ciò che accade per quello che è. Scattare è questo, scattare è prendere un momento e proiettarlo in avanti. Mentre tutti aspettano il momento giusto, chi scatta lo cerca.
A scattare si impara, perché potresti fare altre scelte. Chi scatta a cento chilometri dall’arrivo tendenzialmente viene ripreso: chi vince, spesso, va via all’ultimo. Barguil ieri ci aveva provato e aveva patito proprio la stessa sorte. Oggi la fuga non volevano proprio lasciarla andare via e proprio lui è tornato in fuga. Ha vinto. Si potrebbe dire molto, noi ci fermiamo qui, mentre Barguil va via e tutto ciò che è capovolto sembra perfettamente a proprio agio.