Alla ricerca di se stesso: intervista a Mattia Viel
La bicicletta a Mattia Viel procura un misto di sensazioni. Quando era bambino pedalare era qualcosa che lo avvicinava alla libertà, ma non proprio libertà, forse non è la parola esatta. Forse la sensazione che più si avvicina a quello stato dell'anima è catarsi, liberazione. «Pedalavo come un forsennato: sfogavo rabbia e frustrazione. Iniziai a correre a dieci anni e quello stesso anno persi mia madre; pensavo a lei in ogni momento, vincevo le gare e le dedicavo a lei; ogni gara e ogni allenamento per me erano il mezzo più semplice per evadere da un sentimento oppressivo che mi portavo dentro».
La bicicletta al centro della casa di Mattia Viel l'ha messa suo padre. «La domenica, quando andava a correre, lo aspettavo trepidante. Pensavo a quel mazzo di fiori che avrebbe portato a casa come premio. Lui è una figura centrale della mia vita, sempre presente, ma non una figura ingombrante, quanto fondamentale. Gli episodi della vita mi hanno fatto maturare in fretta, sono andato a correre all'estero che ero ancora un ragazzino (Chambéry CF, in Francia, e poi in Inghilterra con la Holdsworth, ndr), ma lui mi è sempre stato vicino».
Ha vinto tanto fino agli juniores, da professionista si è ritagliato uno spazio da uomo squadra - volate altrui - o spesso lo ritrovavi in fuga - vedi l'ultima Sanremo.
Andava forte anche su pista, dove da allievo si prese il lusso di battere un certo Ganna ai campionati nazionali; una promessa del ciclismo, diremmo enfatizzando, qualcosa in più, qualcosa in meno, difficile capire da quale parte mettersi su quella sottile linea, figurarsi a quell'età. «Perché non ho mai sfondato? Chi può dirlo. Sacrifici ne ho fatti e ne faccio, ma forse il mio approccio al ciclismo era differente. Ho sempre dedicato molto tempo agli studi e grazie a questo mestiere ho conosciuto altri valori, mi sono tolto altre soddisfazioni».
Ha iniziato a pedalare a dieci anni, ma non ha intenzione di smettere ora che ne deve compiere ventisette, dopo aver passato un inverno in cui pareva sul procinto di chiudere la sua avventura agonistica: l'Androni, a fine 2021, non gli ha rinnovato il contratto. «Ho avuto delle offerte, ma non mi soddisfacevano». Perché un conto e ripartire con un rimborso spese e una valigia piena di sogni, quando hai vent'anni, un altro è farlo quando l'attenzione si sposta su altre priorità. «E così sono stato in Sudafrica, dove vive la mia ragazza, e ho iniziato a pedalare fuoristrada, lontano da quei posti che abitualmente percorreresti da stradista, e quando sono tornato a casa mia a Torino ho aperto gli occhi: ma davvero è una vita che pedalo in mezzo al traffico, con i camion che mi sfiorano e gli autisti che suonano il clacson continuamente? Ho iniziato a godermi le pedalate, ho iniziato a essere più libero».
Togliendosi di dosso sensazioni soffocanti. «E ho visto che mi piaceva. Noi siamo fatti per pedalare in mezzo alla natura, per goderci un lungofiume, per fare una salita e vedere un animale che corre, non possiamo rischiare la vita per fare qualcosa che ci piace. E poi c'è talmente tanto caos nella nostra vita che almeno quando esco in bici voglio tornare a una sorta di normalità. Può sembrare scontata come cosa, ma per me non lo è, perché i miei gesti nel ciclismo erano sempre: attaccare il numero alla maglietta e correre, mentre ora mi sto accorgendo di tante cose diverse. Il gravel mi sta insegnando a essere più presente con me stesso e con quello che ci circonda: pedalo e mi godo un paesaggio. Pedali, ma in realtà viaggi: cosa vuoi chiedere di più?».
Pedalare aiuta a riflettere, forse è un fatto di chimica, non lo so. Fatto sta che a Viel viene in mente qualcosa. «Ci tengo a precisare: non sono il primo, nessuna idea rivoluzionaria, ma ho iniziato a creare un progetto intorno al gravel. Ho messo giù un piano cercando collaborazioni con sponsor tecnici, ho contattato aziende interessate, offrendo in cambio feedback, piani legati al marketing: una sorta di ambassador del gravel ma rimanendo competitivo disputando diverse gare. Inizierò a livello europeo e prima o poi mi sposterò anche in America».
E rimanere competitivi fa parte di questo percorso. «Ho portato la mia idea a diverse squadre Continental e la D'amico UM Tools ha sposato il mio progetto. Correrò con loro diverse prove del calendario italiano su strada, anche tra i professionisti, con la libertà però di portare avanti in parallelo la mia attività nel gravel». Una sorta di Lachlan Morton italiano. «Magari! Ci metterei la firma per fare quello che fa lui. Con tutte le differenze del caso: uno degli aspetti più interessanti legati a questa disciplina è che ognuno può sviluppare la sua filosofia in maniera totalmente differente da un altro». Perché ciò che conta è il messaggio. «Peculiare è trasmettere l'idea del fascino del pedalare fuoristrada. Coinvolgere i settori giovanili, quei genitori che vogliono far pedalare i figli ma hanno timore di quello che succede in strada. Oppure dare sbocco a un ex pro che non ha più la possibilità di correre. E puoi farlo in maniera competitiva oppure per goderti semplicemente una bella pedalata».
Mattia Viel ricerca se stesso. Una nuova vita, che non sarà troppo diversa da quella che aveva prima: al centro del suo mondo ci sarà, come gli è sempre accaduto, la bicicletta. «Con l'aiuto di altre persone sto organizzando anche un evento gravel nel canavese che dovrebbe tenersi il 9 ottobre. L'idea è sfruttare al meglio una zona dove la bicicletta è molto sentita, i percorsi si prestano, ma anche per valorizzare da un punto di vista culturale il territorio. Questa è poi una delle filosofie principali che ruotano attorno a questa disciplina e sarà uno degli elementi principali che alimenteranno il fuoco delle mie azioni».
Quando Mattia mi racconta che oltre a correre su strada e iniziare a correre nel gravel, durante il lockdown ha aperto insieme alla sua compagna un'attività legata al ciclismo («Che si occupa di riabilitazione post infortunio, esercizi posturali e programmi fitness, stretching e massaggio sportivo»), interrompo bruscamente la nostra chiacchierata definendolo: “Un vulcano di idee”. Mattia tira un sospiro, sorride – almeno credo, ma spesso si scrive così, o comunque è stata questa la sensazione da una parte all'altra del telefono – e afferma: «Ero! un vulcano idee, ora quel vulcano sta dormendo: è arrivato il momento di concretizzare».
È arrivato il momento di cercare se stessi. Sempre in bicicletta, come fa da quando aveva dieci anni e viveva quel misto di sensazioni.
La mia prima 5mila Marche
«Ciclismo». È la prima volta che rispondo così a un medico dello sport. Mi ha appena chiesto per quale sport sto facendo la visita medico-sportiva agonistica: evidentemente non ha notato il cappellino iridato con la scritta EDDY MERCKX che ho portato in testa fin dentro lo studio. Dopo avermi appiccicato elettrodi e fili su tutto il corpo, torace in particolare modo, inizia a farmi correre sul tapis roulant. Di recente ho letto che, agli albori della sua storia, il tapis roulant venne usato nelle prigioni come strumento di tortura, e avviso il dottore che per me sarà più o meno la stessa cosa. Da quando ho smesso col calcio e anche le partitelle tra amici si sono diradate, non corro sostanzialmente più. La mia unica attività sportiva è la bici.
Il dottore è soddisfatto del test, tutto in regola, idoneità conseguita. Salgo sulla city bike e torno a casa per la strada lunga: è poco che mi sono trasferito a Bologna e girare per una città ancora sconosciuta è un’esperienza unica. Passando su un cavalcavia, noto un murale firmato da un collettivo di donne peruviane. Che bello sarebbe, pedalare sulle Ande. È un breve tratto in salita, questo cavalcavia sui binari del treno, ma per superarlo un rider pieno di borse e zainetti deve spingere sui pedali con tutto se stesso. La salita non è sempre uguale per tutti.
L’idoneità agonistica è obbligatoria per la 5mile Marche: oltre 250 km sono uno sforzo enorme per amatori o dilettanti o cicloturisti. Oggi non solo faremo quella distanza, ma ci metteremo cinquemila metri di dislivello in mezzo: le salite hors categorie di Sassotetto e Monte San Vicino saranno le più dure. Se penso che partiremo a Porto Recanati, a due passi dal mare, e transiteremo ai 1.455 metri d’altitudine di una stazione sciistica, vado già in acido lattico. Dal buffet della fin troppo ospitale struttura in cui trascorro il week-end marchigiano, che culminerà domenica nella GF Nibali, ho sottratto un paio di vasetti di marmellata in più, qualche fetta biscottata, miele, succo di frutta. Non dovrebbe fare caldo, anzi, ma serviranno tantissimi zuccheri.
Spero non piova, non faccia brutto, non ci sia nebbia nemmeno lassù: vorrei riempirmi gli occhi col parco dei Monti Sibillini per alleviare la fatica. Sono pazzo? È la prima volta che attacco un qualsiasi numero alla bici e lo faccio per una gara di oltre duecentocinquanta chilometri. C’è quella telecronaca, «A molti corridori dopo duecentocinquanta chilometri si spegne la lampadina invece la sua luce irradia il circuito di Varese», che riascolto almeno una volta al mese perché è perfetta. Racconta un momento storico mentre accade e lo fa con grazia e precisione. Solo ieri notte - quando non si dorme, bisogna premere play sui video a cui si è più affezionati - ho realizzato che è la stessa distanza che mi toccherà oggi. Altro che lampadina, qua potrebbe saltare un intero impianto d’illuminazione.
Non devo dimenticare i tre punti di ristoro, Tolentino, Sassotetto e San Vicino. Non devo dimenticare di bere costantemente, anche a costo di fermarmi e ricaricare le borracce tramite fontanelle a bordo strada. Non devo mai andare troppo in su coi bpm (non ho la fascia cardio, come la controllo ’sta cosa?), mai sotto le sessanta/settanta pedalate al minuto (non ho il contapedalate, come la controllo ’sta cosa?). Non devo dimenticare di abbassare la luminosità del Garmin, che se si scarica nella prima metà di gara poi come ci torno a Porto Recanati?
Un’ultima considerazione, che sono quasi le sei del mattino e stanno aprendo il ritiro pettorali: avrei voluto un numero figo, il #100, il #91 di Rodman, il #71 con cui Colbrelli ha appena vinto la Roubaix, che ne so. Mi bastavano anche numeri sotto il 230 circa, così avrei guardato le ultime startlist di Giro o Tour e mi sarei immaginato di essere il ciclista corrispondente. Perlomeno, avrei desiderato almeno numeri che finiscono con zero o cinque, perché danno un’idea di rotondità, o numeri divisibili per tre (feticismo ereditato dal prof del liceo). Invece: 1057. Molto deluso, cerco qualcosa su questo inutile numero a quattro cifre e scopro che nel 1057 morì Macbeth, il re di Scozia su cui Shakespeare ha basato la famosa tragedia. Non è un’opera nuovissima ma non l’ho mai letta e non voglio spoiler. Nemmeno voglio paragonare la vita di un reale britannico dell’undicesimo secolo alla faticaccia ciclistica che mi aspetta. Ditemi solo: finisce bene Macbeth, vero?