Colin Nicolas Buckley ha compiuto cinquantatré anni nei giorni del Natale e da circa quaranta notti di Natale c’è la bicicletta nei suoi pensieri. Cambridge, dov’è nato, è una città di ciclisti, con al centro l’università, luogo di studio o di ricerca: a scuola smontava e rimontava biciclette da corsa, assieme ai compagni di classe, tuttavia, come ogni amore, c’è una data precisa in cui ci si incontra ed il sentimento si materializza. Per Colin è il 1984 e le coordinate sono quelle del Tour de France, la corsa che ancora oggi è la più bella del mondo nelle sue parole e nei suoi ricordi. Nella memoria quei giorni sono anche quelli del vento in faccia, della velocità in sella e della sua ebbrezza, del suo brivido tipico della giovane età. Ai banchi di scuola si sostituisce il mestiere di meccanico, i suoi attrezzi, la sua pazienza, il suo legame con il ridare vita ad un oggetto: «Se qualcosa non funziona, la mia idea è quella di capire il perchè e agire di conseguenza per sistemarla, perché “riparare” è un bellissimo predicato verbale. Ciò che è guasto è semplicemente fuori posto, fuori dall’ordine naturale delle cose e gli esseri umani, con il loro lavoro, possono ristabilire quest’ordine, in questo modo le cose tornano a funzionare e riacquisiscono la propria luce. Si tratta di una missione».

Non è un caso che le biciclette di Colin siano per la maggior parte datate, antiche, in acciaio, magari plasmate quarant’anni fa: attorno a loro si racchiudono le varie esperienze che ha raccolto in giro per il mondo e, poi, al suo arrivo in Italia, nel 1992. Parla perfettamente in italiano, si scorge l’inflessione britannica e con orgoglio ed un lieve tremore delle corde vocali afferma: «Molte persone mi cercano e se io cambio luogo, città o paese, loro viaggiano per portarmi nuove e vecchie biciclette. Viaggio con un bagaglio di esperienze che riapro non appena tocco una bicicletta». Colin Nicolas Buckley smette per un attimo di parlare e si affaccia alla vetrata che guarda via Gerolamo Tiraboschi, a Milano.

Cosimo Capobianco ha conosciuto Colin circa vent’anni fa, mentre lavorava nel settore librario, tra librerie e case editrici. In quel periodo Cosimo era in una libreria tra via Indipendenza e Piazza Vetra proprio a Milano, Colin, invece, aveva appena scoperto Granciclismo, la casa delle biciclette fra le più belle che c’erano, le Cinelli di Antonio Colombo. Una sede era a Cesena, un’altra proprio in Piazza Vetra: duecentocinquanta metri di negozio e vetrate e vetrine su tutte le tre facciate. Il design era innovativo, si potevano acquistare le prime borse provenienti da America e Giappone ed anche Colin nel 1993 aveva comprato qualche bicicletta da loro, spendendo gran parte dei propri risparmi. Colin e Cosimo si incrociavano tra la via e la piazza: tra chi cercava un libro e chi ammirava quell’universo a due ruote. Il caso volle che la libreria venne chiusa e Granciclismo dovette trasferirsi e finì proprio in quei locali, accanto al parco delle Basiliche di Milano, ancora tra vetri e vetrate. Forse è quello il momento in cui le strade di questi due uomini tornano ad incontrarsi: Cosimo non vorrebbe più «dipendere da nessuno» se non dalle persone che entrano nel negozio, sogna un locale pieno di bici e ciclismo perché è anche la sua passione. Di più: vorrebbe costruire qualcosa di nuovo, partendo dall’inizio e crescendolo come si crescerebbe una creatura. Quanto a Colin è sempre stato meccanico, non ha mai abbandonato le sue biciclette, e pare la persona giusta, al momento giusto. Anche Cosimo guarda fuori, verso via Gerolamo Tiraboschi: ad agosto è nata una società, il 12 settembre hanno preso possesso dei locali al numero 8 e da quel momento, piano piano, stanno mettendo assieme Coco Cycle. Sì, Coco come Colin e Cosimo.

Si tratta di un’officina di riparazioni in cui chiunque arrivi può domandare qualunque tipo di riparazione, per ristabilire quell’ordine e riportare quella luce di cui parlava Colin: «Il nostro- raccontano i due- vuole essere un lavoro onesto, spinto dalla passione. Il progetto è quello di offrire un servizio di un certo livello, atto a soddisfare le aspettative delle persone. Le domande sono semplici: perché si continua a cercare il nuovo, si vende e non si ripara più nulla? Perché la vecchia bicicletta di papà o di nonno viene definita cancello? Perché le botteghe dei genitori vengono abbandonate al loro destino e nessuno vuole più prendersene cura? Perché il mondo corre veloce, forse anche troppo veloce, si acquistano pezzi nuovi su Amazon, magari non si sa nemmeno come utilizzarli, si è disposti a pagare qualcuno per montarli, non per aggiustare e questo fa perdere l’anima agli oggetti». La realtà è che, non appena si scopre il restauro e la nuova vita che ne deriva, le persone restano entusiaste. Ogni tanto Colin prende un libro, smette di maneggiare ingranaggi e attrezzi e inizia a sfogliarlo, a mostrarlo, a raccontare quel che c’è scritto e da lì spera derivi la consapevolezza, in chi ascolta mentre aspetta la propria bici, dell’altra lezione che consegna il riparare, l’aggiustare: la possibilità di conservare la storia di una bicicletta: «Le persone hanno un tempo limitato sulla terra, se ne vanno e portano con loro tutto il vissuto. Penso a Coppi, a Maspes, a Gaiardoni, a Magni: quanto hanno vissuto e custodito? Io lo dico ai ciclisti: dovete scrivere libri perché non si può sprecare tutto ciò che provate sulla vostra pelle, è un patrimonio. Quando le persone scoprono degli scritti, si fermano, pensano, ascoltano, leggono. L’universo è immenso, eppure la bicicletta compie questo piccolo miracolo, avvicina, cancella anche le distanze interpersonali. Se restaurata, sistemata, preserva la memoria di ciò che scompare o potrebbe scomparire».

Per questo la maggior parte dello spazio in Coco Cycle è dedicata all’officina e le pareti sono attrezzate con accessori e ricambi: le bici nuove sono poche, solo alcune in vetrina. Lo spazio non è moltissimo, ma è un piccolo mondo in cui c’è tutto quel che serve per custodire una bicicletta. Sono partiti da zero ed il “piatto”, questa è la metafora culinaria utilizzata, non era già pronto da servire a tavola, bensì da costruire passo passo, come il locale, dandogli forma di giorno in giorno ed aggiungendo accessori, scelti e collocati personalmente. Il palazzo è antico, risale ai primi del 1900, ristrutturato solo ultimamente, molto luminoso, perfetto per un mezzo “verde”, legato alla natura, come la bicicletta: la pavimentazione è uniforme, consiste in un mosaico colorato, di quelli dei vecchi tempi, facile da pulire, il soffitto è alto.

Si stanno sbrigando le ultime pratiche burocratiche e l’insegna non c’è ancora, ma il messaggio a chi arriva lo trasmette l’accoglienza: «Ognuno si relaziona con la bicicletta in un modo personale ed è a maggior ragione per questo che ciascuno deve essere ascoltato e rispettato. A noi interessa l’individuo: nulla cambia che pedali contro il vento, correndo su strada, oppure che accompagni i bambini a scuola. La porta è aperta a tutti, cerchiamo di mettere a proprio agio perché nessuno deve avere timore qui dentro ed il rapporto che si può instaurare attraverso una riparazione è differente da quello che si crea con la vendita: in quest’ultimo caso, si parla solo di quel che si ha, della novità per l’appunto, nel caso di una riparazione, invece, il dialogo è a tutto tondo. Il cliente chiede quali prodotti utilizzare, cosa cambiare, se un copertone da strada piuttosto che un altro, nascono idee, ci si scambia suggerimenti, si pensa a come personalizzare quella bicicletta, magari con una sella particolare. Spesso il cliente ritorna e chiede ancora un parere: è il modo di rendere partecipi di quella storia, di quella piccola antichità. La cultura della bicicletta è anche questa e si diffonde proprio così, nello scambio di esperienze». Il rapporto e la conoscenza del mezzo variano a seconda del tipo di utilizzo: raccontano Colin e Cosimo che talvolta chi pedala per utilità, per spostamenti, di fatto quasi non conosce il mezzo, qualcuno ha confessato di non sapere che le ruote andassero gonfiate. Diverso è il caso di coloro che della bicicletta hanno fatto uno stile di vita, una delle tante letture della quotidianità: certamente l’approccio è cambiato, soprattutto da parte dei giovani.

Cosimo pensa a suo nipote: «Ha quattordici anni e vedo la sua generazione; pedalano poco, utilizzano la bici solo per necessità, noi la consumavamo da quanto la sperimentavamo. Sto pensando ai parchi pubblici, negli anni settanta, quell’innamoramento che pare andato perso. Qualcosa di simile mi pare di vederlo rispetto ai libri, alla lettura ed è una piccola malinconia, una forte nostalgia». Ogni tanto qualcuno cambia idea e quello che un tempo era considerato un “cancello” viene d’un tratto visto come un prezioso gioiello: è l’opera di un meccanico a cambiare la visione. Allora tutti se lo tengono stretto, non lo mollano più.

Colin, a Cambridge, lavorava in una piccola officina, erano i primi tempi ma una cosa la ricorda chiaramente ed è un’eco che persiste: la felicità non arrivava con lo stipendio, ma era una sorta di restituzione che si sviluppava quando qualcuno sorrideva contento vedendo la propria bici di nuovo in ordine. Ha imparato lì l’etica del lavoro: fare bene, a prescindere da tutto e tutti, perché è un dovere, perché, a sua volta, fa bene a chi di quel lavoro usufruisce. Lì fuori c’è sempre Milano, una città in cui per le biciclette, per i ciclisti si dovrebbe fare di più, ma i primi passi si stanno muovendo: «Parliamo delle migliorie alla ciclabilità, dei restringimenti di strade larghe e di una consapevolezza che è crescente rispetto alla necessità di proteggere i ciclisti e, magari, a diminuire le automobili, perché in sella si respira meglio, si viaggia meglio, si arriva anche prima, Tuttavia parliamo di una città che si blocca completamente ogni volta in cui piove, piena di sensi unici, con strade con pavè e qualche volta con asfalto non troppo curato, con i binari dei mezzi pubblici. A volte sembra quasi non ci sia il desiderio di aiutarti a pedalare, di permettertelo, a forza di frapporti ostacoli, laddove invece sono necessarie infrastrutture e talvolta anche multe: sì, i controlli sono fondamentali perché ciascuno rispetti la legge, perché si possa creare una sana convivenza».

Quando piove, Colin si veste, si copre, poi sale in bicicletta e pedala verso Coco Cycle: si bagna? Certo, ma dice sempre che qualche goccia d’acqua non è nulla rispetto al piacere di respirare l’aria fresca, di non chiudersi in un’automobile per minuti e minuti, talvolta ore. La sua felicità è condivisa, perché di storia in storia racconta anche questo a coloro che entrano nel locale e tutti quelli che provano iniziano a sentirsi bene, a non temere più qualche goccia d’acqua: può anche essere piacevole. Intanto Cosimo e Colin continuano a lavorare, ad aggiustare, a sistemare, a rimettere a posto, in ordine. Del resto ce l’hanno detto; riparare è un bellissimo predicato verbale.