Essendo giorno di riposo, ieri mattina niente sveglia. E magari, al primo occhio aperto, anziché forzare anche l’altro, si torna a dormire. Gli insani orari del Giro d’Italia, però, ti entrano sottopelle, cambiano il tuo ritmo circadiano. Quindi verso le nove di mattina ero in piedi e ansioso di pedalare per la prima volta sulle strade attorno Livigno.
Questo faticare vagabondando in prima persona, la mattina, è un modo come un altro per scacciare la malattia peggiore, la malinconia da pedale, e sfogare la staticità di ore e ore passate in sala stampa. Inforcata la bici, l’obiettivo era la doppietta Forcola di Livigno – passo del Bernina. Cielo terso e montagne imbiancate, temperatura altina, tantissime persone in bicicletta attirate dal Giro d’Italia: difficile immaginare uno scenario migliore. La strada verso Forcola e Bernina, però, è chiusa per neve. Ecco perché un paio di ragazzi della Tudor e tutta la Arkéa, all’ultima rotonda, hanno deciso per un’altra strada.
Non resta dunque che virare sul piano b: Eira, Foscagno, tornando indietro magari Mottolino, se proprio vogliamo esagerare. Al primo tornante del passo dell’Eira, i cui versanti appartengono nientemeno che al bacino idrografico del Danubio, capisco che le gambe non girano. Devo ingurgitare la mia salvezza sotto forma di orsetto gommoso, cioè qualche manciata di Haribo, per riprendermi. Mentre mastico l’ultima massa di zuccheri semplici, Jan Tratnik passa a mezzo metro dalla mia bici. Sta salendo con calma, tanto che io e un ragazzino polacco riusciamo a stargli a ruota. Per noi non è una passeggiata di salute, già così, poi vediamo Attila Valter sfrecciarci accanto.
Tratnik se ne disinteressa, io voglio provare a capire cosa significa stare dietro un professionista. Come ha detto Valter stesso quando si è visto sfrecciare Pogačar sul Foscagno: «Volevo vedere cosa significa stargli a ruota. Non sapevo se sarei riuscito a stargli a ruota manco per un minuto, sapevo mi avrebbe staccato, ma comunque volevo vedere. È stato qualcosa di assurdo».
Provo a seguirlo. Ha due polpacci grossi quanto un mio quadricipite, un’andatura compostissima e regolare. Gli sto a ruota a malapena per un paio di minuti, finché non decide di buttare giù due rapporti e mollarmi lì. Gli avrei voluto dire che ero lì con lui il giorno prima, all’arrivo, quando diceva di aver «provato grande dolore ovunque» dopo aver tentato di seguire Pogačar sul Foscagno. Lo stesso dolore, nelle gambe e all’apice dei polmoni, moltiplicato per mille perché io professionista non sono, l’ho provato io il giorno dopo, provando a seguire te, Attila.
Staccato dal campione nazionale ungherese, riprendo un attimo di fiato e torno sul mio vagone preferito, a ruota di Tratnik. L’Eira sta per finire e professionisti salgono e scendono tutti i minuti. C’è la Movistar schierata in due file da tre, con Milesi unico attardato. «Grande Nairino!» urla qualche tifoso. Quando arriva in cima, è atteso dallo scherno degli italiani della Bahrain, che fanno foto e bevono qualcosa. Franco Pellizotti passa una bibita a Zambanini: «Ahh come me lo godo, questo cochino a duemila metri» dice festante il giovane corridore del lago di Garda. Il più gentile e affabile di tutti è Antonio Tiberi, salutato dai tifosi come «il primo italiano in classifica generale».
Un altro pro si è già buttato a capofitto nella discesa verso Trepalle e l’attacco al Foscagno. Ha la divisa della Bardiani, ma non riuscirò mai a guardarlo in faccia, tanto va forte. Non forte in senso assoluto, sia chiaro, ma in relazione alle persone normali: avere il tempo di osservare, metro dopo metro, la perfezione del loro gesto atletico è un lusso notevole. Poco prima di staccarmi anche da questo treno, esausto, riesco a leggere il nome sul casco: è il valtellinese Alessio Martinelli, giovane interessante sebbene non parte del roster al Giro.
Dopo tutti questi fuorigiri, completare il Foscagno e ripetere l’Eira dal versante opposto per tornare a Livigno è un calvario. Vado regolare, e piano. Anche se mi passasse Contador, penso, non devo cedere alla tentazione di provare a seguirlo. Per fortuna nessuno si palesa, ma quindi il Mottolino? Non lo facciamo? Certo che lo facciamo, e con me tanti amatori. Quelle rampe al 20% bastano una volta sola: nessun professionista avvistato.
Si è fatto tardi e ho un appuntamento per pranzo, devo rientrare. Iniziata piano piano la discesa dall’Eira verso Livigno, saluto Larry Warbasse della Decathlon e mi accorgo di avere Ruben Fernandez della Cofidis a ruota. Gli faccio presente che ha battezzato un pessimo discesista e con un sorriso mi passa salutando. A metà discesa, qualche ciuffetto sbuca da un casco rosa: Tadej Pogačar sta risalendo l’Eira circondato da compagni di squadra e tifosi.
Se ho raccontato tutti questi piccoli eventi, è per un unico motivo: è ciò che è successo non solo a me, ma a chiunque abbia pedalato a Livigno ieri, o nelle varie località dei giorni di riposo durante gli scorsi Giri d’Italia. È un’esperienza comune a tanti quella di – in giorni particolarmente fortunati – ritrovarsi a pedalare tra i campioni, condividere la strada coi professionisti. E questo è uno dei pochissimi sport in cui si può ancora vivere un sogno del genere. Uno dei pochissimi sport in cui è possibile che, arrivato alla fine di una salita, un ragazzino polacco chieda a un signor professionista, vincitore di una Omloop e di una tappa al Giro, dove vada ora, e questo risponda: «Non lo so, ma se vuoi andiamo insieme».