«Durante la mia riabilitazione ho visto bambini lottare per alzare un braccio e lo facevano da quando erano nati. Ecco, cose di questo tipo ti aprono gli occhi». Era passato poco più di un anno dal 22 gennaio 2016, quando Adriano Malori raccontò così a “La Gazzetta dello Sport”. Era passato poco più di un anno da quel messaggio: «La caduta è grave, Adriano Malori è grave».
Uno dei tanti messaggi scambiati in una serata di lavoro mentre qui era ancora inverno e, a dodicimila chilometri di distanza, in Argentina, al Tour de San Juan, c’era un sole che spaccava le pietre. Ma questo non importa. Non sarebbe cambiato nulla, del resto cosa importano le stagioni quando ti portano via? È sempre un brutto giorno per andare via. È sempre inverno quando ti portano via. Ancora peggio quando quel giorno d’estate era proprio quello in cui volevi partire, volevi andare lontano, molto lontano e avevi già preparato tutto. Eri andato a parlare con Francisco Ventoso e glielo avevi detto. Gli avevi detto che quel finale ti piaceva, che avresti provato a sparigliare le carte. Chissà, magari, presagisci lo strappo, qualche volta. Forse ti senti solo più strano, più triste o più felice, eppure dovrebbe essere un giorno qualunque. Forse, quella voglia di fuggire è desiderio di restare. Di essere qualche metro più in là. Spasmo inquieto come è inquieto il giorno in cui ti portano via.
Adriano Malori era in testa al gruppo quel giorno, quell’ora, quel minuto, quel secondo. Lui che forse in qualche modo crede nel destino ma non lo sopporta: «Non ho mai accettato l’idea che sia il destino a sorprenderci e a decidere per noi. No, non è possibile». Era in testa al gruppo e tirava come sa tirare il gruppo uno specialista contro il tempo. Chiedetelo a uno scalatore che per tenergli la ruota deve masticare vento e acido lattico. Ve lo racconterà lui come ci si sente lì dietro. Cade, Malori. Cade e cade dalla testa del gruppo, quando la velocità è vettore innescato, moto di reazione che trascina tutto ciò che prima spingeva. Cade Malori e cade buona parte del gruppo. Le biciclette si agganciano e si abbattono come pedine del domino. Qualcuno scriveva che un ciclista sa bene che la morte può capitare ma non ci pensa. Corre come se quel rischio non ci fosse. Sono degli illusionisti i ciclisti, degli illusionisti che si illudono di credere alla loro illusione. Per questo si rialzano subito tutti e sembrano dare per scontato che così debba sempre accadere. Quel giorno no, quel giorno Malori non si rialza, è immobile, non reagisce agli stimoli. È il giorno in cui ti portano via.
L’afa di Buenos Aires è soffocante quanto la sensazione di non avere via d’uscita. Malori è in uno stato di coma indotto, per salvaguardarne le funzioni vitali, si sa poco delle sue condizioni di salute. Il danno neurologico sembra grave ma non c’è nulla di certo. Alla famiglia si parla di prognosi in queste situazioni: un modo come un altro per dire che tutto, persino la migliore scienza, è al servizio del tempo e non si ammettono deroghe. Poi c’è il risveglio, c’è il momento in cui sai di essere ancora tu, in cui capisci di esserci ancora. Adriano Malori fatica a trovare la coordinazione per parlare ma qualcosa riesce a dire. Per gli altri è un sospiro di sollievo, per gli altri è la consapevolezza che non sei andato via del tutto e il resto lo si può affrontare. Lo sconforto arriva dopo, quando il sollievo lascia spazio alle parole dei medici, alla realtà, ed essere qui non basta più. C’è il classico odore di disinfettanti degli ospedali, a Pamplona. C’è quando Malori si arrabbia con quel diavolo di destino e gli dice che non c’è, che non esiste, che lui tornerà in sella alla sua bici. Ci sono i camici bianchi dei medici, costretti a rimangiarsi tante parole. Se non vai troppo via, se non ti portano troppo lontano, puoi tornare. Puoi tornare a decidere tu dove andare.
Adriano Malori sorprende tutti per la velocità con cui torna in corsa. Non va piano, tutt’altro. Ma ognuno è abituato ad una propria velocità, ognuno ha inciso nelle proprie viscere il ricordo di ciò che gli è stato consegnato e di ciò che si è preso anche quando faceva talmente male che avrebbe voluto lasciare. Adriano Malori se ne accorge. Non è più lo stesso, non è più la stessa cosa. La sua rivincita è stata tornare, non accettare nulla di tutto ciò che gli veniva detto. Ora è diverso, ora deve dirsi la verità. I giorni in cui ci portano via ma restiamo qui, sono i giorni in cui cambia tutto. I giorni in cui non ti arrabbi più per un meccanico che ti ha messo la sella quei cinque millimetri troppo in alto.
Sono i giorni in cui immagini come avrebbe potuto essere non poter più cogliere una rosa e regalarla a qualcuno, salire in bicicletta e stupirti perché quella casa aveva un colore diverso una settimana prima. Malori lo annuncia in una conferenza stampa affollata il 10 luglio del 2017: non sarà più un ciclista, intraprenderà una nuova carriera come preparatore atletico e pedalerà per guardare quanto può essere bella la strada davanti agli occhi. Ha smascherato il destino, lo ha sorpreso, ha deciso che solo lui avrebbe potuto scegliere dove andare e come farlo. Perché poi non è importante nemmeno stabilire se il destino esista oppure no. Per essere uomini o donne non c’è altra possibilità che avere coraggio. Ed essere umani è, prima di tutto, una scelta di coraggio. Anche nel giorno in cui ti portano via.
Foto: KT/BettiniPhoto©2017