Era il 2007 e Giovanni Visconti era a Stoccarda con la nazionale italiana di Franco Ballerini. In quel gruppo, che pochi giorni dopo avrebbe vinto il Mondiale, Giovanni era riserva assieme a Vincenzo Nibali. Ad un certo punto Danilo Di Luca lascia il ritiro. Nella testa del siciliano scatta qualcosa: «Volevo correre ed in quel momento ero veramente convinto che il “Ballero” mi avrebbe chiesto di entrare in squadra». Franco Ballerini la pensa diversamente e quella sera telefonò a Matteo Tosatto. Il “Toso” sta guidando verso l’Oktoberfest ma al richiamo della Nazionale non può che rispondere presente. Visconti e Nibali non se l’aspettano. «Sono abbastanza permaloso, “musone” direi. Negli anni ho migliorato questo aspetto ma questo continuo rimuginare mi ha molto condizionato durante la mia carriera. Quella sera ho reagito male ed il giorno dopo, in allenamento, non andavo proprio. Stavo in fondo al gruppetto dei miei compagni, con la testa bassa. Come un cane bastonato. Non parlavo più con nessuno, non salutavo nemmeno Franco. Pensa che io e Franco eravamo come fratelli: da bambino, a casa sua, mi aveva regalato il casco e gli occhiali della Roubaix. Quello, però, per me era un affronto. Non riuscivo a digerirlo».
Franco Ballerini si accorge di questo stato d’animo di Giovanni e gli si affianca in allenamento. «Visco, stai rompendo. Ora basta. Levati sto muso e vai davanti a menare. Vuoi la verità? Se non avesse corso Tosatto, avrei fatto correre Nibali. Quindi evita queste scene». La lezione è pesante, Giovanni Visconti racconta di avere i brividi ancora adesso a pensarci, ma allo stesso tempo in quel giorno c’è un bagaglio da custodire. «L’umiltà. Le batoste servono per questo, ti fanno tornare con i piedi per terra. Quando sei giovane devi dimostrare e devi farlo con umiltà. Il tuo tempo arriverà. Prima però c’è bisogno di pazienza e voglia di imparare: la fame di apprendere. Ho vissuto tre generazioni del ciclismo e quando vedevo correre Boonen, quando gli correvo accanto, ero felice per il solo fatto di essere al suo fianco».
Ora, forse, il ciclismo, corrisponde un poco meno a Visconti sebbene Visconti corrisponda perfettamente al ciclismo. Sono cambiate tante cose, forse troppe. «Qui, in Bardiani, non manca nulla e non è assolutamente scontato. Scherzando dico sempre che il primo che si lamenta prende due schiaffi. Voglio essere sincero: sento di poter ancora far bene, sento di poter ancora vincere. Non sarei qui altrimenti. L’altra missione è quella di stare accanto ai giovani, di aiutarli. Ci sono tanti giovani molto promettenti in Bardiani. Credo che la mia esperienza potrà aiutarli. Certo, dovranno ascoltarmi e con i giovani di oggi non è sempre facile».
L’analisi va in profondità e Visconti tocca due punti importanti: la mentalità dei giovani e quella del mondo che li circonda. «Non è solo colpa loro, ci mancherebbe. Secondo me negli ultimi anni sono saltati alcuni passaggi. Tanti ragazzi quando arrivano al professionismo si sentono già ciclisti navigati. Credono di non avere nulla da imparare, non ti ascoltano. Sanno che io metto a disposizione tutto quello che so, l’esperienza serve a questo, altrimenti sarebbe inutile. Però devono avere la curiosità di venirmelo a chiedere e l’umiltà per provare ad ascoltare. In parte sono io a dovermi adattare a certe cose che sono cambiate nel tempo, in parte loro a dover capire che il ciclismo non è tutto qui. C’è una storia del ciclismo, c’è un passato. Perché non vogliamo riconoscerlo?». La storia di cui parla Giovanni è una storia radicata nella pelle, una storia di vento, decisioni ed anche errori. Una storia di sensazioni. «Il tuo corpo comunica. Ci sarà un motivo per cui ti senti stanco piuttosto che carico. Non dico di ascoltare solo le sensazioni, bandendo la tecnologia. Dico di abbinare le due cose. Se un giorno non stai bene, è meglio che non ti alleni. Che fai qualche chilometro in meno, altrimenti è controproducente. Non muore nessuno, non cambia nulla. Sai cosa accade in realtà?».
Il nostro sguardo incrocia quello di Giovanni e lui ricomincia a parlare. «I ragazzi hanno paura di non seguire alla lettera ogni minimo consiglio dei preparatori. Devono avere tutto scritto, in ogni dettaglio. Non è più ciclismo questo, sono telecomandati. Io lo dico sempre: “Ma il preparatore vi restituisce i soldi se non raggiungete i risultati che volete?”. Discorso analogo vale per i procuratori. Siamo noi a pagarli e loro sono “al nostro servizio”. Possono indicarci una via, ma quello che è meglio per il nostro fisico dobbiamo iniziare a saperlo noi. Un domani vorrei fare il preparatore per provare a cambiare questa realtà. Sia chiaro, non tutti i preparatori ragionano così ma alcuni sì. E i ragazzi di conseguenza hanno timore a fare un giro più tranquillo e a fermarsi a prendere un cappuccino prima di tornare a casa. Se saltano un passaggio sulla tabella, vanno in panico. I ritiri dovrebbero servire anche per fare bagarre, per fare gruppo, per stare con i compagni. Alcuni preparatori assegnano il loro lavoro da fare durante i ritiri. Non esiste. Sai cosa è accaduto? Nel ciclismo, con il World Tour che era un bene all’inizio, ora forse meno, è arrivata tanta gente che lavora esclusivamente per lo stipendio. Senza passione».
Senza peli sulla lingua, argomento dopo argomento. Giovanni Visconti lo dice chiaramente: «Io sono fatto così. Magari risulto antipatico, ma mi sento libero. Forse alcuni preferiscono i mezzi discorsi. Io credo che la chiarezza sia un valore». Certi discorsi non sono casuali, provengono da ciò che hai dentro, dalle difficoltà che hai vissuto, dai mostri che hai vissuto.
Marco Pastonesi, quando Giovanni Visconti vinse sul Galibier al Giro d’Italia 2013, scrisse che Giovanni aveva vinto sul mostro perché il mostro lo aveva dentro. Ora Giovanni può parlare di quel mostro. «Ho sofferto di attacchi di panico. Un’esperienza bruttissima da cui non riuscivo a liberarmi. Era quello il mostro che avevo dentro. L’anno prima mi ritirai ed in ambulanza mi dovettero tenere l’ossigeno perché non riuscivo più a respirare. Anche nel giorno in cui ho vinto ho avuto un attacco di panico. Quando il tuo malessere viene da qualcosa di mentale, di psicologico è tutto più complesso. Fai fatica anche a spiegarlo e in pochi lo capiscono. Però, vedi come funziona la testa? Dopo quella vittoria mi sono sbloccato. Due giorni dopo sono tornato a vincere a Vicenza, forse la vittoria più bella di tutta la carriera. Non sai quanti affrontano periodi simili. Quando ci sei dentro è bruttissimo».
Sono quegli stessi mostri a restituirti empatia, capacità di comprensione e di unione. A Giovanni Visconti è da tutti riconosciuta la capacità di fare gruppo e quella capacità è annodata a doppio filo con queste vicende. «Ti rendi conto di tante cose. Del rispetto dovuto ai collaboratori, allo staff, di quanto ogni piccolo gesto li renda orgogliosi, cementi il rapporto e permetta a tutti di stare meglio. Basta un semplice grazie per ciò che fanno per noi. Basta un vassoio con quattro pasticcini ed un caffè. Certe volte una birra ad un meccanico mentre sistema le biciclette. La differenza passa per questi gesti».
Qui si entra in un altro campo e Giovanni Visconti è deciso. «Ad alcuni campioni manca la riconoscenza. C’è troppo egoismo in certe situazioni. Tu come campione hai gloria, soldi, fama. Agli altri cosa resta? Se tu arrivi dove arrivi è anche merito della squadra. Nella vita, prima che nel ciclismo, bisogna riconoscere chi ci aiuta e ringraziarlo. A me forse sono mancate altre cose ma le squadre le ho sempre unite. Forse per le mie origini. Io vengo dal basso, in tutti i sensi. Dalla Sicilia, da Palermo. I viaggi nascosto in macchina li ho fatti davvero, ho conosciuto il nulla e ci ho combattuto per provare ad essere quello che vedi oggi».
Cos’è Palermo per Giovanni Visconti in un pomeriggio di gennaio a Benidorm? «Sono io, è tutto quello che vedi in me. Nel mio modo di parlare, di fare. C’è sempre quella fame che mi monta dentro, quel desiderio di andare a lottare per prendermi qualcosa che ancora non mi sono preso. Questa cosa la conosci se cresci a Palermo, se provi ad emergere da Palermo. Per me Palermo è luogo di allenamento, di sacrifici, di rinunce. Per me Palermo è salita, è quella pasta che mi portavo a scuola, quella che mangiavo a ricreazione mentre i miei compagni uscivano a mangiare le pizzette. Lo facevo per uscire in bicicletta prima che facesse buio. Non conosco nient’altro di Palermo. Oggi per me la casa è in Toscana. Quando vado in Sicilia, dopo due, tre settimane, sento desiderio di tornare a casa. La Sicilia è stupenda, meriterebbe molto di più. Dalla Sicilia viene tutta la forza che ho avuto per costruirmi quello che mi sono costruito. La mia casa in Toscana ha fondamenta in Sicilia. Io sono un siculo-toscano. Palermo è stato il mio sacrificio».
Casa vuol dire famiglia e famiglia per Giovanni Visconti vuol dire figli. Quando pensa a casa, pensa a suo figlio. «Forse perché mi vedeva correre, da piccolo, ha iniziato a praticare ciclismo. Vedevo che non gli piaceva e quando ha smesso, ti dico la verità, sono stato contento. Quando ci sentiamo al telefono parliamo poco di ciclismo, parliamo di altro. Credo che lui vorrebbe smettessi. Ma è anche giusto, ha undici anni e desidera avere il papà vicino. Non me lo ha mai chiesto e credo non me lo chiederà mai ma non smetterei nemmeno se me lo chiedesse. Non per un capriccio. Non smetterei per il suo bene, per il suo futuro. La mia è stata una carriera da onesto lavoratore ma non ho avuto guadagni che mi consentano di mantenermi senza lavorare. Io continuerò fino a quando sarò in grado di fare bene, fino a quando mi sentirò bene».
Qui il discorso ritorna su una vena più intima e Visconti racconta delle sue chiacchierate col figlio. «Cerco di educarlo al valore del denaro. Gli dico sempre che per guadagnare si fa fatica, tanta, e molte persone lavorano tutto il giorno per guadagnare ben poco. Qualche anno fa, quando tutti si trasferivano a Montecarlo, sono andato lì con moglie e figli a fare un giro anche io. Come sono arrivato e ho visto la situazione in cui avrei dovuto vivere ho guardato mia moglie e le ho detto: “Via, andiamo subito via da qui”. Avrei dovuto vivere in un appartamento di cinquanta metri quadri, pagando fior di affitto, in mezzo alla finzione più totale. Non fa per me. Ho fatto i bagagli e me ne sono tornato a casa».
Fuori ormai è buio pesto, nonostante siano appena le otto. Giovanni Visconti sorride, sistema la felpa e riprende a parlare. «Ho trentotto anni e sono ancora qui. Sto facendo ancora il lavoro che ho scelto da ragazzino e lo sto facendo mettendoci tutto quello che ho. Ho fatto una vita sana, integra, consapevole. Le persone mi dicono che sembro più giovane, che in corsa sembro ancora un ragazzino e questo mi riempie di orgoglio. Certo, sono stato deluso. Ognuno di noi si fa male con la vita. Capita a tutti. Anche da questo versante, però, posso dirmi fortunato. Non erano delusioni troppo forti, troppo importanti, troppo pesanti. Visco è in sella, è questo che conta».
Foto: Paolo Penni Martelli