Appena rientrata a casa, dopo il ritiro di quindici giorni al Teide, accendendo le luci, Elisa Longo Borghini rivolge l’attenzione al calendario: siamo agli inizi di febbraio, ma la pagina esposta è ancora quella di dicembre. Sì, tra una cosa e l’altra, l’ultima volta che è stata a casa era proprio il 27 dicembre. Accanto alla porta, c’è un pupazzo raffigurante un alpaca, ancora addobbato con un cappello di Natale: «L’ho subito tolto e ho girato le pagine del calendario, quasi per aggiornare la casa al periodo, a me. Per una ciclista è la normalità, eppure fa strano appena rientri. Questa casa e questo paese, Ornavasso, restano la mia boccata d’ossigeno, un posto a cui appartengo. Quando sono in viaggio e mi trovo in luoghi molto belli, spesso, provo a chiedermi se mi piacerebbe cambiare città, appartenere ad un altro paese, magari, in astratto, migliore. Sarà che qui sono nata, ma ogni volta la risposta è negativa». E anche quando, scherzando, le dicono che sembra abitare fuori dal mondo, lei, ridendo, risponde: «È la mia città».

A casa non è restata molto, in realtà, perché, proprio lunedì, è ripartita per gli Emirati Arabi, per la prima gara della stagione che sarà anche la prima edizione dell’UAE Tour femminile. Le valigie, mentre parliamo, sono già pronte, le ha preparate appena a casa. Da queste prime gare non si aspetta molto, vuole solo capire come sta e come stanno le avversarie. Dice che è lo sguardo il modo migliore per capirlo: «Al netto della pedalata, quando non stai bene, sei anche più impacciata nel muoverti in gruppo, nel fare cose semplici. Perdi la lucidità che rende tutto normale. Puoi cercare di nasconderti e nasconderlo, ma le avversarie sanno cosa guardare». A Longo Borghini, poi, muoversi in gruppo piace e l’anno scorso confessa di essersi divertita a tirare le volate a Elisa Balsamo. Sì, usa proprio questa parola: la diverte trovare il varco giusto, limare, guadagnare posizioni, intuire le mosse dei treni rivali: «Non ho l’abilità di una velocista, ma mi caricava questo ruolo. Solo la prima volta ho avuto paura di sbagliare tutto, poi Balsamo ha vinto e io ho pensato che avrei voluto un’altra volta per riprovarci». Nel 2023 ci sarà Ilaria Sanguineti a ricoprire questo incarico, ma è stata un’esperienza. Restano le sensazioni.
Come quelle particolari che ha provato quando ha visto Anna van der Breggen all’ultima gara e quando la vede in ammiraglia. Dice che il suo percorso e quello di van der Breggen sono stati abbastanza paralleli e sapere che lei è ancora in gruppo e l’olandese non più l’ha fatta pensare. Estremamente fredda in corsa, quanto genuina fuori: «È una di quelle persone da guardare quando si ha la tendenza a sollevarsi troppo da terra, perché non è mai cambiata, anche se per tutti è un simbolo del ciclismo. La sera prima della tappa di San Marco la Catola, al Giro d’Italia 2020, ci siamo scritte: “Domani bisogna fare corsa dura”. Io ho vinto la tappa e lei quel Giro». Sorride, anzi, ride di gusto parlando di numeri: «Ho un legame particolare con il terzo posto. Se non vinco e sono in forma, sono puntualmente terza. Va bene, non mi lamento, ma confesso che, qualche volta, accorgendomi di essere terza, ho pensato che sarebbe bello variare. Ogni tanto, almeno. Non so, un secondo posto se proprio non riesco a vincere».

In quel gruppo che si trova spesso a scrutare attentamente, c’è anche Gaia Realini, sua compagna di squadra. Se dovesse scommettere su qualcuno, scommetterebbe su di lei e «non lo dico perché è in Trek, è una forte scalatrice e non ha molte pressioni. Non fosse stata in squadra con me, l’avrei segnata fra le atlete da attenzionare». Qualche attimo di silenzio e, poi, una parentesi colloquiale, un inciso, senza apparenti motivi, quasi una necessità: «Sai che della bicicletta mi piace proprio tutto. Quando vado veloce, poi, provo una sensazione incredibile. Sarà l’adrenalina, però non ho mai provato qualcosa di simile. Penso che, fuori da questo mondo, non ci sia nemmeno qualcosa di simile».
In un armadio, a casa dei genitori, ha ancora custodita la prima maglia azzurra, quella di un ritiro, quando aveva quindici anni: «Era solo una maglietta, ma io non la vedevo come una maglietta. Fra tutte le ragazze che avevano provato ad essere lì, io c’ero. Rappresentavo l’Italia. Quell’Italia nei cui confronti sono molto critica, perché non è come la vorrei, come potrebbe essere. Però sono profondamente italiana, anche nelle piccole cose e lo rivendico. Racconto l’Italia quando parlo con colleghe di altri paesi». Già, a quell’azzurro, però, è legata anche una delusione, probabilmente la più grossa: la mancata convocazione all’Olimpiade del 2012. Quella che «non dimenticherò mai».
«Sia chiaro: le scelte tecniche avevano tutta la loro coerenza, io, però, quel posto lo meritavo. Non era un capriccio. I risultati parlavano per me. L’ho saputo al Giro d’Italia, ho faticato a guardare quei Giochi Olimpici. Su quel divano, mi dicevo: “Nel 2016 non darò a nessuno la possibilità di non convocarmi. Farò talmente bene che mi dovranno portare per forza”». Ci sono stati mesi in cui non ha pensato a quei quattro anni che mancavano alla prossima Olimpiade e questo l’ha aiutata ad aspettare. Fino al giorno in cui la convocazione è arrivata: «Cos’ho provato? Sì, ero felice per quell’Olimpiade, ma il 2012 non riesco a dimenticarlo. Quando ti tolgono qualcosa che senti di meritare, non puoi sostituirlo con altro come nulla fosse. Non te lo restituisce nessuno».
In quei giorni a casa ha pedalato, è andata in posti a cui è legata, ma, purtroppo, ha provato per l’ennesima volta una sensazione brutta, che le nostre strade restituiscono spesso: «Parlo degli autoveicoli che sfiorano la bicicletta e sembra ti tocchino. Parlo di quando ti senti in pericolo mentre fai il tuo lavoro. Sono bastati due giorni perché capitasse di nuovo». Longo Borghini si chiede quando qualcosa cambierà e, purtroppo, si trova a constatare che servirà molto tempo, forse troppo tempo. Spiega che l’unico modo è quello di parlare ai bambini perché in futuro le strade saranno loro e spetterà a loro il compito di renderle diverse.
«Alessandro De Marchi ha dichiarato che chi guida non si rende spesso conto di avere fra le mani un mezzo che è simile a una pistola carica. Di più: non si rende conto che la strada è un luogo di convivenza, di condivisione. Questo è un qualcosa su cui dobbiamo riflettere tutti, perché anche noi ciclisti dobbiamo incrementare l’attenzione, non voglio nascondermi. Il fatto è che un pedone o un ciclista restano comunque parte debole, fragile. Parte da tutelare». Parlarne, sensibilizzare, può aiutare, poi c’è la responsabilità individuale.
Anche nel ciclismo qualcosa andrebbe cambiato, ci dice Longo Borghini. Pensa a un fatto in particolare, a quella dizione: “ciclismo femminile”: «Siamo cicliste, siamo sportive. Siamo persone che lavorano con quella bicicletta, che fanno sacrifici su quella bicicletta. Perché continuiamo a parlare di “ciclismo femminile” come fosse qualcosa a parte? Le parole fanno parte della realtà e i nomi che diamo al circostante spesso rispecchiano i nostri atteggiamenti. Adesso le cose sono cambiate, ma, quando è nata la squadra femminile di Trek Segafredo, ricordo come capitava che ci guardassero i professionisti. Sembravamo quasi un mondo a parte, qualcosa con cui capire come relazionarsi. Credo il lessico abbia avuto un ruolo in questo. Nello sci, ci sono solo sciatori e sciatrici. Perché non impariamo?».
Imparare, ovvero chiudere il diario, e ripartire. Ci sarà modo di tornare ad ascoltare e a scrivere.
Buon viaggio, Elisa!