La Strade Bianche disputata settimana scorsa ci dà l’opportunità per un paio di riflessioni. Stavolta non mi vorrei di nuovo soffermare, per l’ennesima volta, sull’onnipotenza di Tadej Pogačar, quanto piuttosto sulla sudditanza degli avversari (un lapsus: inizialmente avevo scritto “dei suoi compagni di squadra”).
Vero: se uno è più forte è più forte, non è arte, anche se…, ma è sport, agonismo, ci sono numeri che tendono a rimarcare la sua grandezza e Tadej Pogačar è ormai unità di misura dei più grandi di sempre con buona pace di chi fa fatica ad accettarlo. Il ciclismo è uno sport di gambe in cui la testa serve a spingere per elevare lo sforzo e superare alcuni limiti che, fisiologicamente o anche inconsciamente, ci imponiamo. C’è da dire, però, che chi dovrebbe provare a sconfiggerlo è, mentalmente, poca roba – non parlo degli assenti, non di tutti, diciamo – e la competizione sta andando a farsi benedire anche a causa di atteggiamenti da vogliamoci tutti bene che hanno un po’ annacquato l’agonismo.
Spesso si scopre come siano amici fra di loro, si mandano messaggini durante l’inverno e la stagione, addirittura dichiarano di essere uno il mito dell’altro, un esempio massimo da seguire. Io che, a volte, mi sento un cinico bastardo (scusate il termine, ma non saprei come meglio descrivere questo pensiero, tuttavia: pronti alla considerazione nostalgica del secolo?) mi chiedo: dove sei finita sana, cattiva (agonisticamente parlando) rivalità? Avrei preferito vivere, in questa epoca meravigliosa di sfide tra alcuni dei più grandi corridori di sempre, sfide anche verbali, dialettiche, corridori che si stanno sulle palle in corsa e fuori, insomma un po’ di proverbiale ciccia, che, fra strette di mano, abbracci, attese, ringraziamenti, fra un po’ baci con la lingua e altre effusioni, si fatica a trovare.
Ci sono stati momenti in cui i belgi si facevano la guerra tra di loro e non entro nel discorso dei dualismi del ciclismo italiano dagli anni 80 a metà dei duemila che già la retorica nostalgica mi sta uscendo dalle orecchie. Avremmo bisogno di sale, aglio, olio, pepe e peperoncino, per magari ogni tanto incrinare la convinzione di chi, in questo momento, è già più forte di diverse spanne. Vero anche che Pidcock in parte c’ha provato, dichiarando che avrebbe fatto di tutto per stare con lo sloveno, e provando a trasformare le parole in fatti.
La seconda considerazione post Strade Bianche riguarda l’eccessivo esaltare (ci sono anche anche io, nel post gara, in questo giochetto) lacrime e sangue, in un ciclismo che, più che sembrare postmoderno, cerca una retorica antica per provare ancora a fare breccia nel cuore degli appassionati. E dunque ecco come si rimarca corridori arrivati al traguardo ricoperti di sangue, si fanno passare i bollettini delle squadre sui feriti come qualcosa che dovrebbe fare bene a questo sport, esaltandone una presunta spettacolarità e superiorità nei confronti di altre discipline (la solita dicotomia calcio-ciclismo, per esempio).
Nel momento in cui scrivo si stanno correndo, ma sono agli sgoccioli, Parigi-Nizza e Tirreno-Adriatico e visto che mancano ancora delle tappe si rischia di essere molto deboli nell’analisi quindi mi limiterò a elencare i vincitori delle tappe con brevi considerazioni: Milan e Merlier vincono in volata, dominandole, praticamente senza avversari in attesa di vederli sfidarsi di nuovo. Sono loro i migliori velocisti al mondo al momento? Sì! è l’unica risposta valida al momento e sono anche accompagnati dai pacchetti da volata di maggiore livello.
Ganna dà spettacolo nella crono alla Tirreno, la Visma, invece, si prende quella a squadre della Parigi Nizza. La domanda sorge spontanea: chi avrebbe vinto se si fossero sfidati il Ganna formato 10 marzo al Lido e la Visma intera alla Parigi-Nizza?
Vingegaard mostra il fianco in Francia ed è forse la notizia più interessante – vedremo, e infatti per questo parlo di debolezza nell’analisi – se mi smentirà a riflessione già uscita. È parso subito chiaro che, nel momento dell’attacco, il danese fosse differente da quello delle ultime stagioni. Ha attaccato e quando si è seduto è parso, anche visivamente, meno straripante del solito, meno macinatore di watt e distacchi, meno annichilitore di speranze altrui. Il vantaggio sugli avversari non prendeva mai una misura tale da metterlo al sicuro fino all’arrivo. Anzi, sul traguardo viene bruciato da Almeida. Certo, è stata una giornata difficile, con pioggia, neve, grandine, poi sole, tappa interrotta per quasi un’ora e perciò la si potrebbe inserire alla voce eccezione. Oppure è il primo segno di qualcos’altro? Chi ha buona memoria, tuttavia, ricorderà come alla Parigi Nizza di due stagioni fa in salita fu staccato, ok, da Pogačar, ma anche da Gaudu.
Alla Tirreno-Adriatico, lo stesso giorno, medesimo scenario: pioggia per tutta la tappa. Cadute (coinvolto anche Milan) e finale con sprint di un gruppo non troppo numeroso e vittoria, bellissima, di Andrea Vendrame. Forse lo scrissi già, ma ho sempre avuto un debole per il corridore veneto, che ha avuto un passato turbolento caratterizzato da un grave incidente in allenamento da Under 23 che rischiò di fargli chiudere lì la carriera e poteva avere anche conseguenze peggiori. Di quell’incidente restano ancora i segni sul volto. Il debole per lui deriva soprattutto per quel capolavoro realizzato nel 2019 quando, in maglia Androni, vinse una delle corse più belle del calendario: il Tro-Bro Léon.