Aveva 16 anni Umberto Poli. Aveva sete, fame di cibo dolce e una gola continua di bevande zuccherate. Era pieno di dolori e si sentiva sempre stanco. «Passavo la notte a fare la pipì e non capivo, anche perché all’epoca ero un ragazzino e non avevo mai sentito parlare di questa malattia» ci racconta con pragmatica naturalezza.
Un giorno cambiò tutto. «Categoria Allievi. Ultima gara della stagione: il 7 ottobre del 2012». Manda a memoria quella data. Erano settimane che sentiva che c’era qualcosa che non andava, in allenamento si staccava dai suoi compagni, si sentiva svuotato di ogni energia e si doveva continuamente fermare: dava la colpa al fatto di essere a fine stagione. «Devo staccare e ripartire, ripetevo tra me» e invece. «Vado in fuga, come sempre, e succede una cosa strana che non dovrebbe mai accadere: mi stacco e mi ritiro quasi subito».
Svuotato da tutte le energie, Umberto, a fine gara, è intento ad ascoltare il suo allenatore. «Guarda che non è mica normale sta cosa, devi andare a farti vedere». Torna a casa, mangia, inizia a sentire forti dolori alla schiena, allo stomaco e decide di farsi portare in ospedale da sua madre. «Mi misurano la glicemia: la macchinetta sembrava rotta. In realtà non misurava oltre cinquecento come valore massimo e decidono di farmi un prelievo. Codice rosso, ricoverato d’urgenza e trasportato dall’ospedale di Bovolone a quello di Legnago. “Hai il diabete di tipo 1” mi dicono. Realizzo un po’ alla volta che dovrò farmi iniezioni di insulina per tutta la vita».
Scoraggiarsi non fa parte del bagaglio tecnico di chi ogni giorno dopo scuola si allenava in bicicletta. «Ho iniziato a correre in bici a 6 anni con la GS Look Bovolone, poi ho smesso e ho ripreso qualche anno dopo» e poi c’era quella strada da inseguire: l’anno dopo sarebbe passato nella categoria junior – un salto importante verso il sogno di diventare un corridore professionista.
«Immaginatevi il ritornello dei dottori: “non se ne parla nemmeno, non puoi mica pensare di fare il corridore”. Un muro da affrontare, ma a volte quei muri vanno superati. Bisogna trovare il giusto equilibrio e io l’ho fatto. Oppure immaginatevi la difficoltà nel trovare una squadra disposta a prendersi la responsabilità di avere un corridore diabetico tra le proprie fila». Missione impossibile, una parete verticale da scalare o dalla quale calarsi. Usate l’immagine che preferite.
Umberto Poli, tuttavia, la stagione successiva va a correre con la FDB. «Sono stato fortunato» una parola che ricorre spesso nell’intervista, perché Poli coglie al volo l’attimo, trasforma un problema in un’occasione, una ferita in uno spunto per emergere. Prende la malattia e ne ribalta il suo significato. «Ero preoccupato: mi sono ritrovato dall’essere un qualsiasi spensierato adolescente che ha l’unico problema nel come divertirsi, a vivere questa situazione. La squadra di Remo Cordioli, però, mi ha aspettato, ha atteso che mi dessero il permesso di correre. E dopo un po’ che avevo ripreso l’attività ecco che mi contatta Vassili Davidenko, il mio attuale Direttore Sportivo alla Novo Nordisk per andare a fare uno stage con loro negli Stati Uniti».
La proposta è allettante, anche se Umberto vive un paradosso: nonostante il diabete, viene chiamato a fare sul serio dall’altra parte del mondo. Confuso, ma deciso, accetta. «Ovviamente ho detto sì. All’inizio ero contento, ma la realtà fu ben diversa». Gli Stati Uniti non si rivelano come l’America narrata, cercata e poi trovata, ben descritta spesso nella letteratura. «Vivevo in una casetta, come quelle dei dilettanti in Italia. Ma mi sembrava che si facessero le cose in maniera meno seria che da noi. Si correvano Criterium, una sorta di circuiti dentro le città, gare da un paio di ore. Ero un po’ deluso. Poi tornai a casa e seguendo vari consigli, trai i quali quelli di Elia Viviani, cambiai il mio atteggiamento. La mentalità fa tutto in questo sport e me ne sono accorto subito: ho svoltato, mi sono presentato più propositivo, con un altro modo di intendere la realtà che mi circondava e infatti riuscì ad affermarmi e a firmare un contratto con la Novo Nordisk che mi porta a essere qui, ancora oggi, con loro».
E la sua scelta di continuare con il ciclismo è come un motore che lo spinge a salire velocemente in vetta, una propulsione che lo fa maturare. «Quando sei ragazzo e fai corse di cinquanta, sessanta chilometri, sai che devi mangiare, ma non è che stai proprio attento a quando e come. Se hai fame, mangi: finisce lì. Perché sei ancora giovane e devi fare esperienza. Io invece col diabete ho dovuto bruciare le tappe: ho dovuto subito capire come gestire l’alimentazione. Questo mi ha dato una mano prima degli altri miei compagni. Grazie a questa malattia ho imparato a conoscere meglio il mio corpo. I primi periodi erano un po’ al buio perché fai delle prove con quello che assumi, provi una barretta, ne provi un’altra. E poi lentamente ogni anno capisci sempre meglio di cosa ha bisogno il tuo corpo. Con la squadra (la Novo Nordisk ha al suo interno solo corridori diabetici N.d.A.) abbiamo studiato sempre di più come va alimentato il nostro corpo, come il diabete risponde alle assunzioni di zucchero, agli sbalzi della temperatura, persino alle emozioni. Perché anche quelle influiscono. Prendi l’adrenalina: ti alza la glicemia e quindi devi imparare a gestirti mentalmente, devi imparare a gestire la tensione prima di una gara».
E avere il diabete facendo il ciclista di mestiere per Umberto Poli è un connubio che va avanti in modo naturale. «L’unica cosa che mi pesa della mia malattia è la siringa di insulina prima di mangiare, perché per il resto in bici non dà nessun handicap. Anzi sono convinto sia un vantaggio: perché ciò che impariamo noi lo applichiamo in più e in meglio rispetto ad altri corridori. Perché sono conoscenze del proprio corpo che loro non hanno. Questo stato lo definirei: la conoscenza totale del proprio corpo. Come reagisci a ogni cosa che buttiamo dentro, come reagisce a livello di zuccheri nel sangue: non è una cosa da sottovalutare quando lavori tutto il giorno con il tuo corpo».
Il ciclismo che retoricamente è scuola di vita. Anzi ancora di più: per Umberto Poli prende una forma allegorica. Ci racconta di come debba tutto a lui. “al Ciclismo”. Di come gli abbia insegnato a diventare più grande più in fretta, rispetto a quelli della sua età. Ci dice di aver fatto tanti sbagli che lo hanno fatto crescere, di come grazie a lui ha visto il mondo con gli occhi privilegiati di un corridore, ha conosciuto persone di ogni genere e affrontato culture diverse. «E questo è il massimo dell’insegnamento che posso ritrovare nella vita che ho condotto fino a oggi. È un valore aggiunto. Mi ha fatto distinguere le persone: approfittatori e coerenti, egoisti e altruisti. Mi ha insegnato a non mollare mai, a lavorare più degli altri per arrivare al risultato. A diventare tenace, mi ha abituato al sacrificio, a non avere vacanze a Natale, a pedalare sotto il sole, sotto la neve, con il caldo e con il freddo. A crederci, a fare doppi allenamenti. A soffrire, soffrire e soffrire». E lo fa, Umberto Poli, mica perché è matto – forse un po’ lo è, come tutti i ciclisti. Lo fa perché gli piace, lo fa perché gli insegna ad affrontare le situazioni più controverse.
«Gli sportivi sono testardi. Quando ci impuntiamo su una cosa noi andiamo dritti per la nostra strada e portiamo avanti il risultato che vogliamo ottenere». Tenacia, resistenza. Alzare l’asticella della soglia del dolore, del proprio livello mentale. «Lo sport è una questione di testa ancora più che fisica. Mi ha rinforzato come uomo e ogni giorno, a ogni allenamento, ha qualcosa da insegnarmi». Ha 24 anni, oggi, Umberto Poli. E pensare che gli avevano detto di smettere.
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