A prima vista Esteban Chaves sembra un pulcino bagnato. Stambecco, è l’ultimo baluardo di una razza in via d’estinzione, un sopravvissuto al primo vagito, un veterano con cicatrici in tutto il corpo. Corre con un braccio malconcio e a causa di un grave incidente ha rischiato di perderne la mobilità.
Nella sua prima corsa in Europa, Esteban Chaves andò subito in fuga: pensava che la vita girasse come in Colombia, aguardiente e guacamole, e invece prese tanto di quel freddo e di quella pioggia da non capirci più niente. Il gruppo lo raggiunse vicino al traguardo e lo staccò; lui si fermò sul ciglio della strada e si misero di impegno per convincerlo a concludere la gara. Arrivò in lacrime e in stato di ipotermia. I genitori, sempre al suo fianco, insistettero a lungo per farlo salire nuovamente su una bicicletta.
Il padre racconta che per stargli vicino durante la sua carriera ha praticamente lasciato perdere quello che aveva creato – un’azienda che produceva mobili in legno – «per Esteban ho messo da parte le mie ambizioni». E a cosa servono i desideri di un padre se non sfociano negli occhi felici di un figlio?
Più volte, Jairo, questo il nome del padre, ha spinto affinché Esteban, valido ma meno talentuoso di molti suoi coetanei, potesse correre fuori dalla Colombia.
Forse meno talentuoso non è la parola più giusta: Chaves di qualità ne ha sempre avute, ma faticava ad esprimerle, un pulcino bagnato, si è detto, un anatroccolo a volte brutto, quasi sgraziato che col tempo si è trasformato in un colibrì.
E allora finalmente eccolo arrivare in Europa, a poco più di vent’anni conquista il Tour de l’Avenir, ma poi…
Si racconta spesso di come la sfortuna si accanisca con insistenza nei confronti di poeti, geni, artisti, ribelli… e piccoli scalatori. Al Laigueglia del 2013 Chaves va a terra, perde i sensi, si sbriciola un braccio, si fracassa quel corpicino così abile ad andare in salita da renderlo una mina vagante in ogni corsa a cui prendeva il via. Lo ricoverano d’urgenza e finisce per smarrirsi. Raccontano di come chiamasse suo padre diverse volte al giorno raccontandogli l’episodio della caduta quasi come in uno stato catatonico.
Poi la lunga riabilitazione, l’aiuto della famiglia, persino qualche bugia raccontata dai medici sul suo stato di salute. Una qualsiasi persona non avrebbe mai potuto tornare a fare una vita normale dopo quello che gli era successo, figuriamoci a correre in bicicletta.
Il ragazzo di Bogotà, invece, spinto e spronato dagli insegnamenti di una famiglia sempre al suo fianco, prende fiato, risorge piano piano, torna a far funzionare quell’arto nonostante i dubbi, nonostante avessero usato i nervi del piede per ricostruirgli il braccio.
In Colombia la chiamano berraquera e ha diversi significati. In questo caso è quel particolare modo di essere che tradurremmo con ostinato, tenace. E che cos’è un ciclista colombiano se non un duro?
Chaves, così piccolo che potresti infilarlo in una bottiglia, risale in bici con l’aiuto del padre, stavolta non è l’ipotermia, ma la paura di non riuscire a realizzare il suo sogno, andare avanti ripagando la fiducia che la famiglia poneva in lui. Tre anni dopo, è il 2016, sfiora il successo al Giro – solo Nibali, a proposito di tenacia, lo superò – e finisce sul podio della Vuelta.
Al Giro di Lombardia di quella stagione non parte come favorito, ma chilometro dopo chilometro riassapora quelle sensazioni vincenti che hanno reso quel minuscolo cuor di leone uno spauracchio in salita. Resiste agli attacchi dei migliori fino a quando è lui, sul traguardo di Bergamo, il migliore. Non ce ne voglia Diego Rosa, secondo per un’incollatura, se quel giorno abbiamo esultato con Chaves: primo colombiano della storia a vincere una Monumento. Non ce ne voglia nemmeno Rigoberto Urán, idolo di una generazione di corridori del suo paese, che deve, per l’ennesima volta, rimandare l’appuntamento con il-successo-che-ti-cambia-la-vita.
C’è una frase che riassume bene quello che è Esteban Chaves, le parole sono di Alex Edmonson, suo compagno di squadra: «Mai visto uno più in gamba di lui: anche quando pensi che si stia per spezzare, lui resta tutto intero. Non ho parole per descriverlo».
Nemmeno noi, anche se ci abbiamo provato. Lui ci riesce meglio, saltellando in bicicletta.
Foto: Aivlis