La telefonata con Marta Cavalli era in corso da circa mezz’ora. La linea telefonica, nelle gallerie attraversate dal treno che la riportava a casa da Napoli, veniva spesso interrotta. Così le parole si inseguivano fra pause e ripetizioni. Ho atteso qualche minuto, giusto il tempo di arrivare alla prima fermata e come ho intuito che, almeno per qualche istante, la linea sarebbe stata buona le ho chiesto quello che meditavo da qualche giorno: «Marta cosa significa per te farsi ricordare? Come fai a farti ricordare?». Proprio così.

Per come la intendiamo noi, la preparazione di un’intervista è un insieme di atti estremamente delicati, in certi momenti anche invasivi. Cerchi notizie sulla vita dell’intervistato, ovunque. Passi in rassegna vecchi articoli di giornale, social, dichiarazioni rilasciate alla televisione. Vai a letto la sera con la cuffia nelle orecchie mentre risenti cronache di vecchie tappe o frammenti di dialoghi intercettati dai microfoni. Magari ti addormenti anche con quelle voci in sottofondo. Ti svegli la mattina e, al tavolo della colazione, cerchi foto, immagini, video di corsa in cui osservare ogni minimo dettaglio. Dal modo di pedalare allo sguardo. Dalla mimica dopo una vittoria alla delusione e agli occhi lucidi dopo una sconfitta. Insomma, entri nella vita di un’altra persona che, magari, non ti conosce nemmeno. Lo fai perché tu vuoi conoscerla, tu hai bisogno come il pane di conoscerla. Per l’intervista, certo. Ma non solo. Hai bisogno di conoscerla perché non c’è nulla di più brutto che spegnere il registratore dopo una chiacchierata e sentire che non ti è rimasto nulla. Sentire che in te non è cambiato nulla. Che è come se fossi stato davanti al computer o ad un muro. Tu eri con un’altra persona, tu hai raccontato e ti sei fatto raccontare, qualche modifica in te deve essere avvenuta. Devi avere sentito qualcosa, altrimenti che senso ha?

Così mi sono ricordato di quella didascalia ad una foto che Marta Cavalli aveva dedicato al ricordo. Ho pensato che sarebbe stato bizzarro chiedere ad una ciclista qualcosa di simile. Poi ho anche pensato che forse proprio per questo sarebbe stato interessante. Perché nessuno lo chiede ma, forse, in tanti se lo chiedono. Si chiedono chi sono queste ragazze una volta scese dalla sella. Ed è bello così, è giusto così. Marta ci ha pensato qualche secondo, dubbiosa, sicuramente stupita. Poi ha iniziato a parlare.

«Credo che per una ragazza con il mio carattere sia molto più difficile farsi ricordare. Lo sai, no? La società oggi tende molto a ricordarsi dei gesti appariscenti, delle battute ironiche, degli estroversi. Più volte mi sono chiesta quale sia il posto degli introversi nei ricordi. Sì, perché anche noi abbiamo un mondo dentro di cui vorremmo gli altri si ricordassero. Io vorrei essere ricordata, eccome se vorrei. So che dovrò fare molta più fatica perché non parlo molto, per i miei silenzi, perché sono timida. Ma so anche che questa fatica intendo farla tutta. Se sei come me devi dare ancora di più, devi fare ancora di più, devi essere ancora più precisa e meticolosa per essere ricordata. Ce la farai. Facendo così ci riuscirai. Vorrei che si ricordassero di Marta come di una ragazza che fa tutto quello che può al meglio, come di una professionista seria, come di una ciclista che ama il suo lavoro. Lo vorrei tanto e credo succederà».
È passato un anno, forse poco meno. Eppure, quando si parla di ricordi, a noi torna in mente quella telefonata. Ci sarà un motivo, non credete?

Foto: Bettini