Giada Silo era, per la prima volta, in sella ad una bicicletta da corsa e stava varcando l’ingresso del velodromo di Sossano, in provincia di Vicenza, non lontano da casa. L’aveva accompagnata suo padre, lei aveva poco più di dieci anni: ricorda perfettamente com’era vestita, ricorda molte altre cose, soprattutto ricorda che quel giorno tornò a casa dal velodromo con un borsone da ciclismo e la sua prima bicicletta. Aveva scelto ed era felice ed arrabbiata, quella rabbia che viene dall’orgoglio e dal sentirsi discriminate. Era l’unica ragazza della categoria giovanissimi e l’allenatore, non appena aveva iniziato a pedalare nel velodromo, si era rivolto ai ragazzi che già si stavano allenando, chiedendo di fermarsi, in quanto per Giada era la prima volta ed aveva bisogno di essere sola per impratichirsi. Una voce come un pugno allo stomaco da parte di uno di quei ragazzini: «Sì, sì fermiamoci, è una femmina. Solo per quello». Giada Silo ha sentito e nella sua mente stava gridando, anche se il velodromo continuava ad essere stranamente silenzioso: «Adesso vi faccio vedere io».

Il 26 settembre 2024, lontano, a Zurigo, in un giorno di pioggia e freddo, quella voce gridava ancora, più forte di prima. Giada Silo era franata a terra, a duecento metri dal traguardo, durante la volata con Célia Gery che avrebbe potuto consegnarle il quinto posto: i crampi l’avevano bloccata e disarcionata. Aveva male alle gambe, un dolore forte che le impediva di muoversi e, mentre piangeva, urlava dal dolore. Lì vicino c’era il medico, a tranquillizzarla e ad accompagnarla accanto alle transenne per consentirle di riprendere fiato. Sotto la pioggia, col volto segnato dall’acqua e dal freddo, Marta Bastianelli porge una mano da quelle transenne, le accarezza il volto, poi indica il traguardo.

«Mi ha detto: Vedi la linea d’arrivo? Là, è là in fondo. Non manca nulla, Giada. Devi arrivare a quella linea. Se non hai troppo male devi andare avanti, mancano duecento metri. Finisci la tua gara, te lo meriti. Al pulmann ho cercato Paolo Sangalli, il C.T. ed ho chiesto scusa perché sapevo quanto ci tenesse a leggere il nome di una ragazza italiana tra le prime. Mi ha risposto che avevo fatto tutto ciò che potevo fare e che quei duecento metri non possono cancellare nulla». Il suo grido d’orgoglio l’ha portata a vincere la gara di San Daniele del Friuli, dopo il Mondiale, nonostante il dolore non fosse ancora passato del tutto e pedalare fosse più difficile.

L’ha fatto perché voleva togliersi qualche sassolino dalla scarpa e perché voleva ribadire un concetto a cui tiene da quel giorno di sette anni fa al velodromo: «Tu sei questo, basta». L’ha fatto anche perché ricorda bene la prima maglia azzurra che ha vestito al Tour d’Occitania: l’ha ritirata in un magazzino della nazionale e, durante il viaggio, non vedeva l’ora di arrivare in Francia per vestirla, per andare davanti ad uno specchio e vedersi vestita così. Pensava fosse una prima volta, in realtà le accade sempre. La prestazione del Campionato del Mondo, in questo senso, l’ha resa più forte: junior primo anno, avendo corso solo un paio di volte, tra cui a Cittiglio, con tutte le atlete più forti, soprattutto con le straniere, non sapeva bene come muoversi e non era neppure certa di riuscire a mettere in pratica le indicazioni di Sangalli. Ci è riuscita, nonostante fossero passati mesi: era alla ruota di Gery e Gery è senza dubbio una delle giovani più quotate a livello internazionale. In questo modo, Silo si è ricreduta sulle proprie potenzialità e, alla fine di tutto, da quel giorno è uscita più forte. «Ho un lato insicuro abbastanza pronunciato, non credo quasi mai ai complimenti che mi vengono fatti, spesso penso mi stiano prendendo in giro, che non sia vero. Mi rivedo in televisione, per capire meglio se e dove sbaglio, ma voglio essere sola, mi infastidisce se altri mi osservano, non mi piace la visibilità. Anche questo rientra nell’insicurezza. I risultati sono l’ancora a cui mi aggrappo per credere in me stessa».

Il padre di Giada Silo è sempre stato un amatore, per questo l’accompagnò al velodromo quel giorno, per questo ha pedalato da casa sino in Piemonte per andare a vederla alle gare. Lei, invece, faceva atletica, le piacevano le campestri, il mezzofondo e ancora oggi, ogni tanto, le telefona il suo allenatore del tempo chiedendole di partecipare a qualche gara, perché se la cavava bene: rinuncia sempre, come ha rinunciato all’atletica da esordiente, quando non riusciva più a coniugare i due sport. Al Mondiale c’erano anche le sue due sorelle, una maggiore ed una minore, «più il ciclismo diventa importante per me, più loro mi sono accanto». Ha sempre avuto un carattere deciso in sella: sin da giovanissima cercava strade con salite per allenarsi perché «senza almeno una salita che senso ha andare in bicicletta?». La fatica è il suo antidoto alla noia, a costo di farne tanta, troppa, e magari non raggiungere il risultato: «Non riesco ad essere attendista, a non fare nulla, anche se questo dovesse portare alla vittoria, devo sentirmi parte della corsa, devo agire». Se il ciclismo l’ha cambiata nel carattere, questo è avvenuto nella vita quotidiana, dove le tante batoste che ha preso l’hanno resa più forte, disposta a non cedere di fronte alle difficoltà, a proseguire per la propria strada. Nel ciclismo ha pensato di smettere solo una volta, da allieva quando, nonostante l’impegno, i risultati non arrivavano ed aveva la sensazione di perdere tempo: il passaggio in Breganze Millenium le ha permesso di valorizzare la propria persona ancor prima che l’atleta: «Davide Casarotto mi aveva cercata già tempo prima. Con lui ho dato solidità ai miei punti forti ed ho potuto lavorare sugli aspetti più fragili. Ho trovato una casa, una famiglia, perché qualunque problema abbia so che Davide c’è, per una parola o un consiglio».

Studia Biotecnologie Sanitarie, è al quarto anno e da tempo ha smesso di spiegare tutti i sacrifici che comporta la vita da atleta, perché è convinta che non si possa capire senza averla provata: «A volte, alcuni miei coetanei mi chiedono di uscire a pranzo il sabato: se gareggio la domenica, devo rifiutare. Replicano spesso che, se la gara è la domenica, non vedono il problema di un pranzo il sabato. Spiegare tutto non ha senso. Ora che le cose sono diventate più importanti qualcosa è cambiato, all’inizio faticavo anche a spiegare la necessità delle interrogazioni programmate che, per molti, erano una sorta di privilegio. Non sono un favore, è un aiuto agli studenti atleti perché non si può fare altrimenti». Giada Silo non si accontenta della propria esperienza, nonostante sia molto giovane cerca di motivare ogni ragionamento scandagliandolo, studia quel che succede e ne matura una convinzione, su cui, poi, riflette: «Per avere la tessera di studente atleta vengono prefissati dei risultati da raggiungere: per esempio arrivare nelle prime cinque ai Campionati Italiani oppure nelle prime tre ai Campionati Regionali. Da un lato capisco la ratio, dall’altro se una ragazza non raggiungesse questi risultati? L’impegno sarebbe uguale, in ogni caso. Non si può badare solo al risultato perché non racconta lo sforzo di chi sceglie questa strada. A me è capitato e capita tuttora: quando hai tre verifiche da svolgere in poche settimane e ti dicono che non puoi saltarle e farle successivamente, ma devi comunque farle, piuttosto prendere un brutto voto e poi recuperare in un secondo momento. Ci rendiamo conto che il peso a livello di studio è completamente differente? Questo non considerando il fatto psicologico del dover rimediare ad una situazione negativa».

Si ispira ad Elisa Longo Borghini e a Tadej Pogačar, perchè «è il re delle salite», mantiene i piedi per terra e pensa spesso alle difficoltà del ciclismo femminile, pur se negli ultimi anni le cose sono migliorate: «Il ciclismo femminile in generale ma, a mio avviso, soprattutto quello italiano: a me sembra che non siamo prese molto in considerazione e si vede, ad esempio, dai passaggi nello World Tour delle atlete azzurre: una o due all’anno, talvolta nessuna. Io credo che il ciclismo italiano femminile valga e valga molto: servono più possibilità per dimostrarlo». Vorrebbe migliorare nelle volate e, un domani, sogna il Fiandre visto che per vincerlo bisogna essere dei fuoriclasse. Soprattutto vorrebbe che la prossima stagione fosse bellissima perché quella trascorsa è stata così: «Però non amo fare confronti, raffronti, perché ogni stagione è diversa ed è un conto a parte. Non lo voglio per non subirne la pressione, per continuare a lavorare senza sedermi o senza illudermi. Non lo voglio perché la stagione passata è, per l’appunto, passato, ora si ricomincia daccapo».