«Gaiole ha tanti pregi, ma anche un limite: il telefono prende male. Che è un limite ma pure una risorsa».
Giancarlo Brocci risponde così alla nostra telefonata nella serata della tappa dello sterrato, del suo sterrato. Basta questo aneddoto per descrivere Brocci, anima e ideatore dell’Eroica.
Lui, testa bassa, come si direbbe in gergo ciclistico, inizia subito a parlare. «Intanto, forse, abbiamo capito che lo sterrato è un valore. Per molto tempo non lo si era considerato così, ogni tornata elettorale era quella giusta per promettere di asfaltare strade polverose. Più in generale credo sia anche un fatto di mentalità: se qualcuno viene a chiedermi una mia bicicletta per correre L’Eroica, gliela cedo volentieri. Torna impolverata, sporca? Certo, qual è il problema? Le cose vanno adoperate e nell’uso si sporcano o si rompono. Mi sembra così normale, così bello».
Quel “forse” porta la mente di Brocci indietro di undici anni, al Giro del 2010, a Gianni Mura.
«Era ospite fisso del Processo alla tappa, poi accendeva il sigaro ed iniziava a scrivere. Quella sera, a Montalcino, dopo la vittoria di Evans, mi disse: “Avevi ragione, Giancarlo. Il ciclismo ha bisogno di tornare al passato per guardare al futuro”. La redazione di Repubblica gli aveva appena chiesto di raddoppiare le battute del pezzo. Alle persone questo ciclismo piace. Sapete a chi non piace? Ai maniaci della programmazione, dei watt, delle tabelle e dei numeri. A loro non piace e non piacerà mai, perché questo ciclismo le costringe a cambiare. Ma il vecchio ciclismo continuerà ad esistere e ad entusiasmare, non possono farci nulla, se non accettarlo».
Così Brocci è rammaricato per l’esito della tappa di ieri. «Il rispetto va in maniera indiscriminata a tutti, però la mia sincerità mi impone di dire che me l’ero immaginata diversa. Per questo mi sono emozionato di più domenica, coi giovani che hanno corso l’Eroica juniores. Perché lì non ci sono stati calcoli, lì si è dato tutto ciò che si aveva con la voglia di arrivare al traguardo, di vincere o anche solo di concludere. Si tratta di rispetto di quello che è il ciclismo, della fatica. Quando ti disinteressi della fuga e la lasci naufragare a minuti e minuti, forse non stai dando alla strada il rispetto che merita».
Il primo ricordo che Brocci ha del Giro lo riporta agli anni di Vittorio Adorni ed alla sua attesa di ragazzo per sentire alla radio le prime notizie riguardanti la tappa del giorno. Sostiene che, negli anni, il Giro lo ha deluso, ma allo stesso tempo confessa di non aver mai smesso di seguirlo. Per questo ieri era a Montalcino. «Perché c’è la fatica e, dove c’è fatica, c’è la parte buona dell’uomo. Noi, adesso, tendiamo ad anestetizzarla in ogni modo: non conosciamo più il vero senso della fame, della sete, della stanchezza. Questi giovani hanno scelto la fatica in un mondo che fa di tutto per cancellarla. Qualcosa vorrà pur dire».
E parlando di sterrati, di campi e di Giro, si parla di Alfredo Martini. «Mi diceva: “Noi uscivamo al mattino presto a pedalare e nei campi c’erano i contadini. Facevamo molti chilometri, poi tornavamo, e nei campi c’erano ancora i contadini. Noi eravamo fortunati, almeno eravamo riusciti a fermarci in trattoria a mangiare. Loro no”. Capisci? Si sentivano fortunati per poter fare tutta quella fatica».