La prima domanda non può che essere «come stai?», perché è così che si fa quando si telefona a qualcuno e perché l’ultima intervista con Marta Cavalli risale a molti, forse troppi, giorni fa. Ma le abitudini non sono cambiate: la sincerità, prima di tutto: «Bene, ma, forse, non è nemmeno questa la cosa più importante da dire dopo tutto questo tempo. Confesso, piuttosto, di aver imparato tanto su di me. Diversi errori nel mio passato mi hanno impedito di amare e continuare ad amare il lavoro dei miei sogni. Forse perché l’ho amato troppo ed in un modo sbagliato. Il ciclismo non era solo il mio lavoro, era la mia vita: facevo tutto, sempre e solo, per vincere, per tornare dove la gente mi diceva che avrei potuto essere. Ogni istante della mia vita era legato al ciclismo: l’allenamento, l’alimentazione, la preparazione mentale. Sono crollata. Ad un certo punto non uscivo di casa in certi orari per non incontrare ciclisti, non guardavo i giornali per non leggere del ciclismo e, se, per caso, dalla cucina, sentivo la pubblicità di qualcosa legato alla bicicletta, avevo il rigetto. Ho disconesso tutti i miei social. Lo scorso luglio, dopo l’incidente che mi ha coinvolta, ho lasciato la bicicletta distrutta in garage e non volevo più andarci per non vederla. In quei giorni, avevo già gli scarpini sganciati ed un piede giù dalla sella. Sì, ho pensato di smettere e non ho alcun timore a dirlo: la situazione non era più sostenibile».
Il ghiaccio, probabilmente, si rompe proprio dopo queste parole, di nuovo, dopo mesi, proprio come quando si racconta qualcosa di duro, di difficile e si lascia andare ogni paura nel far uscire le parole. Inutile nascondersi dietro un dito, avevamo intuito, come tutti, la pesantezza del momento, ma un conto è pensare, credere, altro è sapere, ascoltare. L’intervista diviene, a dire il vero, un flusso di coscienza. «Se non è accaduto è perché sono cambiata. Ho compreso che il mio benessere deve essere prioritario, poi viene l’atleta e la soddisfazione individuale e della squadra per l’operato come ciclista. Si tratta di una forma di egoismo? Può essere, ma è necessaria. Mi sono resa conto che, da quando sono una ciclista, non ho mai avuto passatempi fuori dal ciclismo. Forse nessuno me lo ha mai chiesto, tuttavia, se l’avessero fatto non avrei saputo rispondere. Allo stesso modo, non avrei saputo dire la data dell’ultimo aperitivo con amici. Non è bello, non è ciò a cui auspicare, anche in cambio delle vittorie. Gli aperitivi non saranno mai la mia quotidianità, però, oggi, non fuggo e, se lo desidero, mi concedo anche questo sfizio. Non sarà, di certo, un aperitivo a precludermi un risultato: non ha questo potere. L’esasperazione, invece, sì. Può precludere un risultato, può precludere una carriera. Il benessere della mente precede quello del corpo e lo influenza».
Torniamo indietro, per un istante. Torniamo a quell’incidente ed alle sue conseguenze, tra cui un ginocchio particolarmente gonfio, che non permettono a Marta Cavalli di fare nulla, se non di vivere una forma d’ozio che non aveva praticamente mai vissuto in quanto, per indole, le è sempre stato impossibile restare con le mani in mano, in un costante bisogno di fare, inventare, progettare. In quel momento, gli stimoli per rialzarsi e salire in bici non c’erano più, ma una domanda la assillava: «E adesso? Cosa farai? Non sarai più una ciclista, dovrai tornare nella società e collocarti in un altro ruolo. Quale?». Confida Marta Cavalli che la fiducia nel fatto che quella risposta sarebbe arrivata non è mai mancata e, anzi, di risposte, nella mente, se ne sono affollate diverse. Era pronta ad accoglierle, con l’idea di stare bene, di stare solamente bene. «Non appena ho ripreso a pedalare con Mirco, il mio compagno, abbiamo assemblato assieme la mia bicicletta. “Tu hai ancora una fiamma negli occhi quando hai a che fare con la bicicletta, Marta. Sei forte. Perché vuoi precluderti tutto?”: questa era la sua domanda. E la mia risposta era sempre: “Sono stanca, troppo stanca per continuare”. Eppure, nelle uscite casuali, senza tabelle, a tratti ignoranti, mi divertivo. Ho pensato così che avrei potuto fare sport unicamente per passione, come tante persone».
All’ultimo momento, prima che i giochi fossero chiusi, e quindi che venisse messo un punto alla carriera di Cavalli, è giunto il contatto con il Team Picnic PostNl, la seconda opportunità che non stava attendendo e che, tuttavia, si è aggiunta agli spunti dati dalle persone a lei attorno: una nuova squadra, tanta serenità, soprattutto nessuna tempistica e nessun obiettivo prefissato, solo il desiderio di riprendere e riprovarci. «Ho accettato perché non avevo niente da perdere. Anzi, non ho niente da perdere. Però, almeno inizialmente, l’ho fatto con “il piede sollevato dall’acceleratore”, quasi a volermi assicurare di poter tornare indietro, per questo sono rimasta in silenzio, non l’ho detto a nessuno. Era una sorta di protezione. Ho detto che ho una visione differente di questo lavoro, ed è vero, però non sono un’illusa. So bene che alcune difficoltà si riproporranno, forse anche lo spettro di quella che ero prima, ma sono fiduciosa nel fatto di essere una persona diversa e di essere in grado di porre in campo un atteggiamento opposto. Non è una ripartenza, perché ripartire significa che delle partenze ci sono già state. Piuttosto è una costruzione differente e quando si costruisce si parte dalle basi e tutto è nuovo».
Il nuovo capitolo in Picnic PostNl è caratterizzato da un approccio differente anche da parte del team: sono cambiate le persone, i meccanismi, le nazionalità delle atlete, le abitudini ed anche la stessa matrice della squadra, non più francese ma olandese. Marta Cavalli distingue due fronti: quello tecnico, estremamente articolato e complesso, con una miriade di aspetti e sfaccettature e con uno staff che si dedica a qualunque dettaglio, dal nutrizionista, all’esperto di analisi dati, ad una fitta rete di comunicazione, e quello umano, in grado di distaccarsi dalla freddezza dei numeri e di creare un rapporto e accompagnare l’inserimento di qualunque nuova atleta: «L’allenamento, per me, è di nuovo un modo per divertirsi, sorridere. La sera c’è anche il tempo di giocare con le compagne. In questo modo, riesco a concepire ogni uscita in bici come una via per migliorarmi, senza la sensazione di essere sotto giudizio, sotto valutazione costante: è anche quella a frenare un atleta. Senza alcuna preparazione, dopo un anno di stop, mi sono messa nelle mani dello staff. L’ho proprio detto: “Mi fido di voi”. E dopo l’insoddisfazione, è arrivata l’innovazione e la voglia di scoprire».
Il bisogno, qualcosa che ha anche a che fare con un sogno, ma uno di quelli semplici, genuini, è di essere nuovamente in gara, con quella spensieratezza agonistica che fa dire “vado, me la rischio”: «In realtà, si accompagna anche ad un leggero timore, ad una leggera ansia. Sai il detto “tolto il dente, tolto il pensiero”? Ecco, non vedo l’ora che la corsa esploda, in una situazione di gara complicata, per scoprire come reagirò, magari per essere lì davanti e capire cosa proverò. Per me è una sorta di pensiero ricorrente». La brutta caduta al Tour de France 2022, afferma, è stato l’inizio di questo periodo buio, ma ora è alle spalle: «Non tutto il male viene per nuocere, penso sia vero e credo anche sia un augurio da ricordare. Quell’incidente ha poi innescato tutta una serie di conseguenze, con il punto peggiore nell’estate del 2024, ma le cose passano, alcune in tempi brevi, altre in tempi più lunghi. Fintanto che le viviamo dobbiamo provare a utilizzarle per crescere e avere pazienza, come devono avere pazienza le persone a noi vicine. Voglio dire una cosa: non ho una persona in particolare da ringraziare nel mondo del ciclismo, ne ho tante e sono coloro che fanno parte della mia “community”. Quelle che mi hanno aspettato in questo anno, senza, però, aspettarsi nulla. Alcune nemmeno le conosco dal vivo, forse nemmeno le conoscerò mai, però so che ci sono. Confesso che non è stato facile per me interrompere in anticipo il rapporto con FDJ-Suez, era una situazione delicata ed a me piace la correttezza. Quando l’ho annunciato, mi sono subito chiesta come l’avrebbe presa il mondo che mi seguiva. Bene, a loro non sono servite spiegazioni e questo mi ha resa più forte. Lo sport è necessario anche, forse soprattutto, per veicolare messaggi ed io sono contenta che il mio messaggio sia stato quello di rimettere al centro la propria persona e di smettere di essere un robot».
Si sente fuori dalla “tavola rotonda” delle atlete che si giocheranno le classiche e le grandi corse a tappe, anzi, sottolinea che questi due anni lontana dal suo mondo l’hanno portata a perdere di vista molte dinamiche, per cui non sarebbe in grado di fare un pronostico: certamente è interessata al ritorno di Anna van der Breggen, si chiede come si comporteranno Lotte Kopecky e Demi Vollering, ora in due squadre differenti, e osserva con curiosità i diversi giovani talenti che stanno emergendo. Ora è sicura che continuare sia stata la scelta migliore, perché il suo percorso nel ciclismo l’ha costruito con fatica e sacrifici e quel finale non sarebbe stato il finale adatto, troppo brusco, troppo secco, non deciso, ma subito. «In passato ho vinto tanto, è vero, e le persone spesso non sono comprensive e non hanno mezze misure. Non hanno pazienza ed è difficile far fronte a questa richiesta di “tutto e subito”. Io non so se e quanto vincerò ancora, ma, se arriveranno, saranno vittorie completamente diverse, non paragonabili. Per questo il mio passato non mi pesa. Perché Marta è un’altra Marta. Non c’è più quel rumore assordante nelle orecchie, con tutte le pressioni e le aspettative, quando salgo in bicicletta le priorità sono completamente diverse: tornare a casa, riabbracciare le persone a cui vuoi bene, su tutte». La doccia, qualcosa da mangiare post allenamento e basta, poi c’è la quotidianità, perché «il ciclismo non è solo un lavoro, ma è anche un lavoro e una persona non può farsi definire solo dal proprio mestiere, qualunque sia».
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