Allo scrittore Thomas Bernhard sono serviti cinque volumi per raccontare la sua vita, in maniera tanto scomposta che solo nell’ultimo ha affrontato la sua infanzia. O per lo meno quelli che erano i suoi primi ricordi fino ad arrivare all’ingresso nel collegio di Salisburgo. Proprio all’inizio di “Un bambino” racconta che, all’età di otto anni, senza chiedere il permesso a nessuno, aveva deciso di portare fuori dall’androne la bicicletta militare del tutore, allora sotto le armi in Polonia, salire in sella, provare a spingere sui pedali e scoprire cosa sarebbe accaduto. Seppure le dimensioni della bicicletta fossero decisamente sproporzionate per un bambino della sua età, si sentiva “un trionfatore” nell’esplorare prima il Mercato dei piccioni di Traunstein e poi allontanarsi dalla cittadina per provare a raggiungere la zia Fanny a Salisburgo. Chiudendo gli occhi sui rettilinei per assaporare quella felicità, Bernhard capì che “è dunque così che il ciclista incontra il mondo: dall’alto! Corre, corre a folle velocità senza toccare terra con i piedi, essere un ciclista è per lui qualcosa che significa quasi: sono il padrone del mondo”.

Io, che per ora in sella ad una bici vado a zigzag e cerco di tenermi lontana da muri, pali e pilastri, ne so poco di sentirmi in cima a tutto, ma ho pensato fosse una buona idea essere nel luogo in cui i migliori ciclisti si sono dati appuntamento per correre velocissimi senza toccare terra con i piedi e alcuni, addirittura, provare a sentirsi padroni del mondo. Venerdì sarebbe dovuto essere come il primo giorno delle vacanze di Natale: volevo tornare ad avere otto anni come Bernhard e provare sulla salita di Witikon la curiosità e l’entusiasmo di chi non vede l’ora di scoprire cosa si nasconde sotto l’albero addobbato in salotto. Chissà se anche per Muriel Furrer il giorno precedente, quello della gara in linea junior, assomigliava ad un giorno di festa, se quella mattina si è sentita trionfante come quando da bambina è riuscita a pedalare per la prima volta, chissà cos’è successo sotto la pioggia scrosciante nei pressi di Küsnacht mentre scendendo affrontava una leggera curva a sinistra, chissà perché si debba morire a 18 anni da soli, senza che nessuno se ne accorga per almeno un’ora e mezza, facendo la cosa che si ama di più al mondo. Quel venerdì, la mia prima volta ad un Mondiale di ciclismo, nella fan zone di Witikon lo schermo che trasmetteva la gara non emetteva altro che rumori ambientali, mentre tifosi belgi e qualche altro spettatore sul bordo della strada provava a far finta che quella degli uomini U23 fosse una gara normale, ancora una volta sotto la pioggia.

Pioveva anche il giorno successivo ad Uster, alla partenza della gara in linea femminile. Faceva freddo fuori e dentro nel guardare le atlete della federazione ciclistica svizzera disporsi davanti al peloton e mischiare lacrime e pioggia nel minuto di silenzio per ricordare una ragazza che un giorno sarebbe voluta essere in mezzo a quel mucchio di caschi, ruote, gambe che fremono. In quello che era ufficialmente diventato il mio campo base, ovvero la salita di Witikon, ho scoperto che rumore fanno le ruote quando passano sul bagnato a tutta velocità, ho visto un centinaio di cicliste affrontare condizioni proibitive regalando a tutti uno spettacolo sportivo pari a quello di tante gare maschili. Mentre la giacca antipioggia mi abbandonava e urlavo forte il suo nome, a pochi metri da me, Elisa Longo Borghini si è alzata sui pedali per non perdere nemmeno un centimetro dalle ruote di chi aveva davanti. Qualche minuto dopo, sotto un gazebo zuppo come noi esseri umani, circondata da belgi che intonavano a ritmo “Lotte”, ho sperato che tutto potesse succedere ma ho sorriso comunque per quel bronzo che ci ricorda che abbiamo una delle atlete più forti al mondo, anche se non lo diciamo spesso. Prima di sabato, tra i ciclisti italiani, potevano vantare almeno tre podi al Mondiale Paolo Bettini, Gianni Bugno, Beppe Saronni, Francesco Moser, Felice Gimondi, Alfredo Binda, Tatiana Guderzo, Giorgia Bronzini, Maria Canins, Morena Tartagni, a loro si è aggiunta anche Elisa Longo Borghini.

La verità è che prima che la tragedia piombasse su uno degli eventi più importanti dell’anno era la giornata di domenica che portava con sé una sfida diversa dalle altre: c’era solo da capire se sarebbe stata la ciliegina sulla torta di un’estate rasente la perfezione per Remco Evenepoel che dopo i due ori olimpici, sicuramente aveva fatto un pensierino anche su quelli Mondiali, o se, invece, sarebbe stata un’altra Storia, con la S maiuscola, che parlava un po’ italiano, un po’ francese, ma soprattutto sloveno. Che fosse la giornata per eccellenza lo si capiva già dalla partenza a Winterthur, quando è comparso per la prima volta il sole: durante questi Mondiali il meteo ne ha sempre saputo qualcosa più di noi comuni mortali. Ancora una volta sulla salita di Witikon, questa volta l’ambiente che mi circondava aveva un aspetto completamente diverso. Lungo la pendenza fino al 10 per cento, i volti si erano moltiplicati rispetto ai giorni precedenti. C’è chi aveva portato le casse per animare l’attesa con musica internazionale (non sono mancati nemmeno Nek ed Eros Ramazzotti, per la cronaca), chi proponeva su un cartello un nuovo ordine mondiale con a capo Tadej Maočar, Joseph Rogline, Mathieu Trump der Poel e Remco Jong Un, chi, già affamato, aveva con sé tutto il necessario per una bella grigliata con annessa bevuta, chi speranzoso preparava i fumogeni e chi con le bombolette spray o i gessetti scriveva sull’asfalto per ricordare non solo Muriel, ma anche Gino.

Sembrava un’orda quella che è salita la prima volta, poco dietro la fuga, poi piano piano il gruppo ha cominciato a spezzettarsi come fa sempre quando la gara entra nel vivo. Eravamo a dir poco stupiti quando, a poco meno di 100 chilometri dall’arrivo, abbiamo visto una maglia verde davanti a tutti avvicinarsi sempre di più e poi sfrecciare accanto a noi. Abbiamo contato, chi con le dita, chi a mente, chi con le app del telefono, i secondi prima di vedere comparire Remco Evenepoel e Mathieu van der Poel. Abbiamo visto prima il ghigno di dolore di Bagioli nel vano tentativo di stargli a ruota, poi di Pavel Sivakov. Il fatto che il distacco, delle volte, fosse meno di un minuto dagli altri grandi avversari ha lasciato per un attimo uno spiraglio aperto su possibili scenari che non abbiamo visto accadere, perché, come era successo a settembre alle Strade Bianche, quel giorno Pogačar aveva deciso di trasformarsi nell’Hulk di cui ha spesso un adesivo sul manubrio. L’ultima volta sul Witikon davanti c’era solo lui, da solo, una frazione di secondo e un attimo dopo era il padrone del mondo. Adesso possiamo dire che dopo Eddy Merckx e Stephen Roche, anche Tadej Pogačar è riuscito a vincere Giro, Tour e Mondiale nello stesso anno. Per molti l’irresistibile sloveno ha la stoffa per sorpassare il primo, ma per quanto Merckx, il Cannibale, all’Équipe ha ammesso, poco dopo la gara, che a Zurigo è riuscito a fare qualcosa di speciale, il grande corridore belga continua comunque ad essere convinto che il ragazzo ne debba mangiare di avversari ed asfalto per raggiungerlo.

Mentre risalgo la strada che è stata casa per due giorni e mezzo, so che devo darmi tempo e che probabilmente la mia faccia assomiglia a quella di Pogačar, che ai microfoni, dopo la gara, non faceva che ripetere che, durante la corsa, non aveva la minima idea di cosa stava facendo. Qualcuno metabolizza descrivendo a voce alta i passaggi più belli dei sette a cui abbiamo assistito, qualcuno prova a fare un’esamina della nostra Nazionale, qualcuno apre ogni piattaforma social per poter condividere incredulità, entusiasmo, felicità. Speravo che ogni giorno sarebbe assomigliato a Natale e alla fine è arrivato. Non ho comunque la minima idea di cosa io abbia visto: forse un sogno, forse un’impresa, forse ho solo visto un uomo incontrare dall’alto il mondo e rimanere lì, almeno per un po’. Sicuramente ho visto il ciclismo, quello che toglie, quello che dà. Mentre riordino i ricordi, immagino un futuro in cui sull’asfalto non si dovrà ricordare ma solo pedalare veloci, senza toccare mai terra.

Foto: Sprint Cycling Agency