Quanto vento in faccia ha preso Ivan Basso? «Il vento è una componente importante del ciclismo. Tu corri in strada e il vento soffia in strada. In gruppo, si dice spesso: “c’è vento contro”. Il vento contro c’è in gruppo ma anche nella vita di tutti i giorni. Quante giornate facili possono esserci in una vita? La maggior parte sono col vento contro ed è col vento contro che cresci. Solo lì impari e ti migliori. Il vento devi prenderlo sulla tua testa. Se stai a ruota, arrivi secondo. Quando sei al vento, fai fatica ma ci stai provando, stai insistendo. Ed è importante stare al vento. Fondamentale per un uomo».
Un vento difficile da raccontare, perché poi il vento devi sentirlo sulla tua pelle per capirlo. Devi sentire che respinge la tua pedalata per trovare il coraggio di continuare a spingere. Per capire perché quel coraggio è essenziale. «Raccontarsi è molto difficile. Almeno, per me lo è sempre stato. Fatico a raccontarmi ai miei corridori, puoi immaginare con i miei figli. Qualcosa però filtra, qualcosa passa, qualcosa lo racconti comunque e lo racconti indirettamente, con i gesti, con i messaggi quotidiani. Sai, i miei figli hanno età diverse. Domitilla e Santiago hanno vissuto certi momenti, li ricordano, li hanno sentiti, percepiti. Per i più piccoli questo non è stato possibile. Loro hanno comunque voglia di conoscere e di conoscermi sempre meglio. Sanno che papà è stato un ciclista ma vogliono entrare fino in fondo in quel mio essere. Domitilla frequenta il Liceo Classico e quando le sue professoresse le hanno consigliato di scegliere dei libri da leggere, lei ha scelto “In salita controvento”, la mia biografia, scritta con Francesco Caielli. Santiago è più pigro e non l’ha letta ma se l’è fatta raccontare. Sono abbastanza contrario all’abuso di tecnologia digitale per i più giovani ma ogni tanto lo vedo mentre fa i rulli e cerca in rete video della mia vittoria all’Aprica, allo Zoncolan, al Tour de France. C’è curiosità. Pensa che Levante, che è in quarta elementare, ha voluto quel libro e ne legge qualche pagina al giorno. Anche lui vuole capire chi è papà, vuole farsi raccontare papà. Io cerco di arrivare a loro come padre, non come ciclista. Ma il loro papà è stato ciclista per una vita e, ciò che ha imparato, lo ha imparato correndo in bicicletta. Tu sai cosa ti passa per la testa la notte prima di una tappa di montagna in cui ti giochi il Giro d’Italia? Non si può descrivere, è complicatissimo. Sono cose che difficilmente capitano nella vita di tutti i giorni. Del ciclismo mi resta questo ben prima delle vittorie. So come affrontare quei momenti, se si dovessero ripresentare sotto altre forme. Da padre è questo che ho il dovere di trasmettere ai miei figli».
Ivan Basso si ferma, riflette, poi riprende a parlare e questa volta è lui a porci una domanda: «Cosa ti insegna il ciclismo?». C’è un attimo di silenzio, stiamo per iniziare noi a rispondere, quasi i ruoli si siano capovolti, in realtà riprende lui, dando un freno a quel mulinello di parole con cui aveva iniziato a parlarci. La voce si appoggia sul diaframma, il tono è leggero, quasi confidenziale, le voci della hall dell’albergo svaniscono sullo sfondo. «Non siamo invincibili. Non lo siamo come uomini prima che come ciclisti o come campioni. Nel ciclismo si hanno dei compagni di squadra. Tu devi sapere che loro sono lì per te, che se hai bisogno, se sei in crisi, loro possono aiutarti. Devi capire che è necessario avere il coraggio di chiedere aiuto e sapere quando farlo. L’aiuto va chiesto prima di crollare. Se hai paura, se non ti senti bene, devi guardare i tuoi compagni negli occhi, il giorno prima o la mattina, prima della partenza, e dirglielo. Nella vita, tutti abbiamo persone di fiducia. Loro possono salvarci quando abbiamo paura o non ce la facciamo più. Il ciclismo ti insegna l’umiltà, la capacità di chiedere aiuto senza temere di apparire debole».
Ivan Basso, oggi, è uomo che ha capito le poche cose che contano veramente e, capendo questo, ha avuto ben chiaro l’unico modo possibile di comunicare con i suoi ragazzi, i ragazzi della Eolo-Kometa. «Non c’è poi moltissimo da dire ma quelle poche cose vanno dette in modo estremamente semplice ed interessante. Devi capire quando è il momento di parlare: in certi momenti parlare è inutile se non dannoso. Devi saper aspettare. Poi arriva il momento di parlare e allora è importante saper analizzare la situazione ma soprattutto trovare un gancio per un stimolo, per proiettarti in avanti e non indietro. Per capire dove stai andando, dove vuoi andare e soprattutto come vuoi arrivarci».
In questo tornano le parole di Aldo Sassi, preparatore di Ivan, una delle persone che lo hanno sempre affiancato, anche nei momenti in cui c’era il vuoto: «Aldo me lo diceva sempre: “Certe volte le cose non vanno perché non vanno. Non c’è molto da fare. Puoi continuare a inseguire il motivo a vuoto per mesi. Talvolta sono tanti piccoli fattori che non riesci neppure a trovare. L’analisi, costruttiva e severa, è importante, fossilizzarsi su quei motivi è deleterio. Ti affossa. Concentrati sulla ripartenza”. Pensaci bene: se vinci o se perdi, devi comunque ripartire. Ti chiederanno altri risultati e solo ripartendo potrai ottenerli. Il tuo focus deve essere la ripartenza perché si riparte sempre. Nel ciclismo è una costante: riparti per l’allenamento successivo, per la gara successiva, per la tappa successiva. In una gara quante volte riparti? Parte il gruppo, parte la fuga, riprendi la fuga e riparti, rilanci, magari riparte la fuga, riparti tu, per un ventaglio o una caduta. Bisogna imparare a ripartire perché saremo sempre chiamati a farlo».
L’inciso è colloquiale e disarmante per semplicità e profondità di senso e contenuti. «I corridori sono bravi, i corridori fanno quello che viene detto. Il punto non è questo. Il punto è la capacità di leggere bene la gara insieme, da gruppo, dando indicazioni precise. Non sei solo nemmeno a impostare la gara: è necessario confrontarsi con gli altri componenti dello staff. Altrimenti l’analisi successiva è inutile: è sbagliato criticare dopo, bisogna lavorare bene prima. Le cose si preparano e nella preparazione c’è già molto di quello che accadrà dopo».
Per imparare è necessario prestare un occhio agli altri sport, anche quelli apparentemente più diversi dal tuo. Soprattutto è necessario ascoltare. Ivan Basso quest’inverno si è trovato a sentire una conferenza di Julio Velasco, maestro della pallavolo. «Lui dice che, nel momento in cui si diventa allenatori, direttori sportivi o dirigenti, è necessario “uccidere” il giocatore che si è stati. Il tempo passa e cambia le cose: è tutto diverso rispetto a quando correvo io. I miei ragazzi sanno benissimo chi sono e cosa ho fatto durante la mia carriera. Non serve dirglielo, è proprio inutile. Si rischia di cadere nel: “Se ci fossi stato io, avrei fatto meglio”. Un errore madornale. È un altro mestiere. Serve la coscienza del fatto che hai tutto da imparare anche tu. Un’altra ripartenza».
Nel 2006 Ivan Basso vince il suo primo Giro d’Italia, poco dopo c’è il Tour. Basso è atteso a uno storico bis. Non avverrà. L’Operación Puerto, scandalo doping scoppiato in Spagna, lo raggiunge e lo travolge alla partenza del Tour, il 30 giugno 2006. In un primo momento Ivan Basso nega ogni responsabilità, poi ammette le proprie colpe. Il varesino lo dichiara serenamente. «Qualche anno fa l’ho detto: è stato difficile ma tutte le cose che sono accadute in quel periodo, mio malgrado, le ho cercate e volute io. Gli errori li ho fatti io ed era giusto pagarli. Anche nella sofferenza cresci, anche nella vergogna cresci. La bellezza dell’equilibrio la capisci quando lo perdi. Quando tocchi il fondo, se sai resistere, scopri che in realtà sei nel momento in cui hai più slancio per proseguire. Dal fondo, si salta meglio. Credo di essere un uomo migliore oggi, anche grazie a quel periodo». A casa Basso in quei giorni arrivano delle lettere, sono quelle di Alfredo Martini. «Ogni volta che rileggi una lettera di Alfredo scopri qualcosa di nuovo, c’è della poesia. Martini parlava all’uomo che eri e a quello che saresti diventato. Non c’era nulla di banale, nulla di scontato. Non c’erano frasi fatte. Lui capiva il tuo momento e ti stava accanto. Per noi era come un padre. Nel mio periodo più difficile, lui c’era e sapeva cosa dirmi. Parlare alla sofferenza è difficilissimo, certe parole sarebbe anche meglio non dirle. A cosa serve dire a chi sta male: “Tranquillo, passerà”. Se devi dire così, non parlare. Per dire qualcosa a un uomo in difficoltà serve una profonda sensibilità, un’intelligenza acuta. Prima parlavamo di vento? Lì avevo un uragano contro».
Aldo Sassi ha raccontato che Basso, al suo ritorno dopo la squalifica ha convissuto per lungo tempo con un forte senso di colpa. «Ivan si sentiva in debito, sentiva di aver mancato di rispetto al proprio mondo e soffriva per questo. Al suo ritorno in gruppo, ogni attacco era per dimostrare di essere ancora quello di prima. Per rendere qualcosa al suo pubblico. Al pubblico che non lo aveva mai abbandonato».
Ivan Basso si ritrova nell’analisi del suo preparatore, un’analisi vissuta e sofferta. «Come quantifichi il senso di colpa? Non puoi. Il punto è trasformarlo in altro. Questo era il passo. Sassi da una parte e Liquigas dall’altra mi hanno preso per il braccio e tirato fuori dal baratro. Ricordo come adesso il giorno in cui ho firmato, a Brescia, da Zani. Sono riusciti a non farmi sentire un corridore di cui avere pena. Non mi hanno fatto firmare per compassione, mi hanno fatto firmare perché credevano in me, perché mi ritenevano un corridore forte».
Il Giro 2010 arriva così e Basso si ripete, alla grande. Tutti ricordano la sua scalata allo Zoncolan, i suoi occhi a divorare la salita. Lui parla di Verona e di quel podio inconsueto, quello ritratto nella foto che tiene nel suo studi. «Il podio, di solito, eleva gli atleti sopra il pubblico. All’Arena no. All’Arena c’è il pubblico sopra e gli atleti sotto. Ma è giusto così, quella vittoria per me è stata una restituzione di qualcosa al mio pubblico. Loro dovevano essere in alto, non io». Una parte della forza del ciclista di Cassano Magnago risiede nella sua convinzione. «Quando da ragazzino andavo a vedere le gare, sognavo di vincere il Giro d’Italia. Poteva sembrare assurdo all’epoca, ma è successo. La stessa cosa siamo chiamati a farla adesso io e Alberto Contador: provare a portare questa squadra fra le migliori al mondo. Ci riusciremo? Vedremo, intanto ci proviamo. Con Alberto abbiamo condiviso gli ultimi anni da professionisti: io sentivo di aver finito il mio ciclo, lui sapeva di poter vincere ancora qualcosa ma avvertiva un cambiamento. Quando chiedi a Contador: “Perché vuoi fare questa cosa? Non credi sia difficile?”. Lui te lo dice: “Certo ma anche vincere un Tour de France è difficile eppure…”».
Proprio il Tour de France è stata la culla di Basso, la corsa in cui ha costruito la sua prima parte di carriera. Sempre lì, a giocarsela. Fino al podio, al terzo e poi al secondo posto. Tutto è partito da quel 16 luglio 2004, da quella vittoria a La Mongie, con gli occhi lucidi e la dedica a mamma, che sta attraversando un momento difficile. C’è un ragazzo che sta diventando uomo e c’è un uomo che, senza mamma vicino, senza poterle più raccontare nulla, dovrà affrontare tutta la vita. Lo stesso uomo che, in quel momento, sta crescendo anche come ciclista. Lo sa bene Giancarlo Ferretti, direttore sportivo di Basso, ai tempi di Fassa Bortolo: «All’inizio Ivan si accontentava. Se arrivava secondo, dietro a un corridore forte, era felice. Non rischiava. Gli andava bene il secondo posto. Quante volte ci ho discusso: “Piuttosto provaci. Magari arrivi con due minuti di ritardo, magari però vinci. Che senso ha aspettare così?”».
Basso se ne ricorda: «Ferretti aveva questa capacità. Era un “sergente di ferro” ma con un cuore gigante. Non si accontentava mai ma, allo stesso tempo, andava sempre bene quello che facevi. Sapeva che eri al massimo ma ti incitava a fare ancora di più, ti spronava e tu riuscivi a dare anche più di quello che avevi». Quando parla ai suoi ragazzi, Ivan Basso, ha ben presente ciò che Ferretti diceva a lui. «”Quando si è giovani è importante la spiegazione della condotta di gara ma, allo stesso modo, servono consigli per la tua quotidianità. Lavorare con un ragazzo giovane significa accompagnarlo nella crescita”. L’ho detto giusto oggi: “Avete davanti il futuro. Fate uno dei lavori più belli in assoluto. Fate attenzione ad usare bene questa possibilità”. Ferretti non voleva che comprassimo macchine di lusso, orologi preziosi, ci spronava a risparmiare e, semmai, a investire in qualcosa di duraturo, come la casa. Ci invitava ad essere degli onesti risparmiatori. Questi corridori hanno la possibilità di cambiare la propria vita per sempre: si parla di guadagnare centinaia di migliaia di euro per anni e anni. Alcuni atleti guadagnano come l’amministratore delegato di una multinazionale: non è facile ricoprire quel ruolo. Le vittorie, i successi, oltre ad essere una soddisfazione personale, sono un pezzo di costruzione del tuo futuro. Devi rispettare il valore del denaro e del lavoro: un corridore che fa bene il proprio lavoro, è un corridore che non ha nemmeno il tempo per spendere quei soldi».
Basso ha quarantatré anni e non sopporta le generalizzazioni e le semplificazioni: «Sai cosa accade? Alcuni direttori sportivi vanno sul bus e, dopo gara, dicono ai ragazzi: “Se partivi prima, vincevi”. Questo i ragazzi lo sanno già. Come sanno che se parte una fuga di quattro corridori, il quinto deve essere il nostro. Ferretti, scherzando lo diceva sempre: “La fuga parte in testa al gruppo, non in coda”. Era un modo come un altro per invitare a non dire ovvietà e a non parlare col senno di poi. Lo stesso discorso potremmo farlo per chi continua a parlare dei “propri tempi”. Cosa significa dire “ai miei tempi”? I tempi passano, cambiano. Il punto è riuscire a seguire il tempo che cambia. Spesso, se vai a vedere, chi si richiama ai vecchi tempi andati, in realtà, non sta più facendo nulla».
Non le sopporta in generale, le sopporta ancora meno quando queste generalizzazioni vanno a toccare i giovani. «L’errore è l’estremo. Su quello siamo tutti d’accordo. Ci devono essere delle regole e noi queste regole le poniamo. Regole ben chiare. Ma il mondo è cambiato e non accettarlo è assurdo. I ragazzi di oggi non possono correre con le biciclette dei ragazzi di vent’anni fa. Non usiamo più i cellulari di vent’anni fa, come le macchine di vent’anni fa. C’è stata un’evoluzione, una crescita. Bisogna stare al passo di questi cambiamenti, respingendo ogni estremo e ponendo molta attenzione. Questi ragazzi si allenano bene, hanno i migliori materiali possibili ma, per andare forte, questo non basta. C’è una parte interiore, psicologica, che devi essere in grado di capire. L’allenamento non può colmare questo aspetto».
Guardare avanti e guardare indietro sono per Basso due facce della stessa medaglia. Già, perché in entrambe c’è il tempo ed il tempo passa comunque, che tu lo accetti o meno. Il tempo ti cambia comunque. «Sono cambiato in tante piccole cose da quando ho iniziato questo nuovo percorso alla Eolo-Kometa. Non credo ci siano stati errori grossi, sicuramente ci sono dettagli su cui adesso agirei diversamente. Alla fine, però, non è neanche giusto dire così. Noi siamo uomini, calati nel nostro tempo. Per vivere dobbiamo accettarlo, cambiare con lui, tollerare ciò che non si può cambiare e migliorare il resto. Se non accetti i cambiamenti del tempo, resti staccato, dietro al gruppo. A inseguire a vuoto. Cambiare idea è bello, cambiare idea è importante».
Foto in evidenza: Ufficio Stampa Ivan Basso